APOLOGIA DEGLI ORTI BOTANICI DIFFUSI E DA RIDIFFONDERE DI PIÙ IN ITALIA contro il fanatismo speculativo e pro biocidi e monopolizzante controllo del razzismo verde della Falsa-ecologia

APOLOGIA DEGLI ORTI BOTANICI DIFFUSI E DA RIDIFFONDERE DI PIÙ’ IN ITALIA

contro il fanatismo speculativo e pro biocidi e monopolizzante controllo del razzismo verde della Falsa-ecologia

 

La grande Sequoia sempreverde nell’ottocentesco giardino Vittorio Melloni a Bologna, foto dal link http://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/pater/loadcard.do?id_card=195990

 

In Europa ed in Italia nel Terziario,
(nota: “Terziario” secondo l’originaria definizione geologica contro le attuali “revisioni creative della terminologia scientifica”),
prima della “batosta” delle grandi glaciazioni del Quaternario, viveva questa conifera palustre, che oggi si ritiene estinta, chiamata Glyptostrobus europaeus:
https://en.wikipedia.org/wiki/Glyptostrobus_europaeus;
di certo si può dire estinta dall’Europa, come fu per il Ginkgo biloba (suo sinonimo Salisburia adiantifolia), l’Ailanto e il Nelumbo fior di loro acquatico,

 

Il Sacro Loto d’acqua indiano (Nelumbo nucifera). E’ importante approfondire sul Loto d’acqua, è vero che di recente è stato introdotto dall’uomo in alcuni siti d’Italia, ma a ben vedere la sua paleostoria è un ritorno. Ne tratto qui in questo articolo cui rimando per approfondimenti “Il Fior di Loto sacro un fossile vivente per l’Europa, amato dai Romani, bentornato oggi in Italia!“. A chi ha interesse a demonizzare e distruggere, a fini spesso speculativi, questi dati piacciono poco. Sono invece di grande interesse culturale e per guardare alla natura nel suo insieme con maggiore saggezza.

 

ma come questi ultimi sopravvissero nella parte asiatica del Continente Eurasiatico, e poi vennero reintrodotti dall’uomo in Europa in questo periodo interglaciale in cui ci troviamo, mostrando l’Ailanto ed il Nelumbo grande capacità di rinaturalizzazione spontanea,

 

Foglie di Ginkgo biloba

 

 

così pare possa essere avvenuto per il Glyptostrobus europaeus, esso infatti, qui in Europa oggi presente nella forma di resti fossili, non sembra differire significativamente dal comunemente chiamato Cipresso di palude cinese, specie vivente ancora nella Cina di sud-est e Vietnam, dal nome scientifico Glyptostrobus pensilis:
https://en.wikipedia.org/wiki/Glyptostrobus_pensilis
Ricopio dall’articolo al link superiore: “è possibile che l’albero ormai sull’orlo dell’estinzione in Cina sia la specie terziaria (europea) invariata”, in ogni caso si tratterebbe al più di una specie assai simile, per non dire identica la stessa.

Anche se ormai rarissimo in natura nelle formazioni spontanee come per il Ginkgo biloba in Cina sempre, per fortuna il Cipresso di palude cinese lo si è coltivando e così diffuso e salvato in quei paesi asiatici!

E nei nostri orti botanici? Nei nostri parchi verdi? Non sarebbe il caso di reintrodurre questo genere arboreo, sia di per sé, che in nome del suo legame con le specie europee terziarie!?

Dove posso ammirare vivo il Glyptostrobus pensilis?
Quanti chilometri devo fare oggi da Maglie (Lecce) per vederne uno e raccoglierne i semi?
Questo è un interrogativo per me interessante e su cui riflettere di fronte ai fasti botanici della scienza naturalistica positivista di decenni or sono, quando a questa domanda avrei ricevuto decine di segnalazioni entusiaste e interventi partecipativi … oggi solo fanatismo da razzismo verde della falsa-ecologia fanaticamente contraria ad ogni ritorno, ad ogni fasto, ad ogni azione anti-desertificazione artificiale e anti-depauperamento biologico!

 

“Fossil foliage of Glyptostrobus europaeus from the Paskapoo Formation”, foto dal link: https://en.wikipedia.org/wiki/Glyptostrobus_europaeus?fbclid=IwAR2af0uLaOaCDMAf6icFqIaGtWwmbWdWdp1QXYfgOhEOhPiDNHEaNQS5Jdc#/media/File:Glyptostrobus_Foliage_01.JPG

 

E vi vivevano anche in Italia nel Terziario altre conifere palustri del genere Taxodium.
Di questo genere vive oggi ancora il Cipresso americano di palude, detto anche Cipresso calvo, probabilmente poiché specie decidua, (Taxodium distichum); ha un’areale circoscritto alla zona sud-est del Nord America, precisamente negli Stati Uniti, in un range che va dalla baia del Delaware (tra il Delaware e il New Jersey) e dall’Indiana e l’Illinois meridionali fino alla Florida e al Texas orientale. Cresce in pianure umide, o allagate stagionalmente, nelle anse sabbiose e limose di fiumi e torrenti, anche in suolo paludoso, in cui sopravvive, anche in carenza di ossigeno, grazie alle radici respiratorie, i caratteristici pneumatofori, delle protuberanze che emergono attorno ai tronchi dal fango-suolo circostante e dall’ acqua!
Link con scheda sulla specie: http://giardinonaiadi.blogspot.com/2014/01/taxodium-distichum-un-albero-al-centro.html?fbclid=IwAR3PXsXZK57qzqjgty7zXa0UkPMecxhAWg5at-ErCwxjSH75Hdz_JwdzXOU
Cipressi americani di palude sono stati piantati in un bel laghetto nel Parco Bucci a Faenza (RA), e probabilmente anche altrove in Italia. Stupendi i loro colori rossicci autunnali del fogliame.
Vedi foto:
-) https://www.facebook.com/oreste.caroppo.98/posts/898630616957657
-) https://www.facebook.com/oreste.caroppo.98/posts/889701674517218

Ma anche per questa specie di un genere reintrodotto in Italia dall’uomo quanti chilometri devo percorrere oggi per vederne un esemplare vivente dal cuore del basso Salento, da Maglie?

Alberi di Taxodium distichum. Il bosco allagato nel Parco Bucci a Faenza. Foto al link: https://www.touringclub.it/viaggiare/le-piu-belle-foreste-ditalia/immagine/7

 

Taxodium distichum – pneumatofori, foto dal link: http://giardinonaiadi.blogspot.com/2014/01/taxodium-distichum-un-albero-al-centro.html?fbclid=IwAR3PXsXZK57qzqjgty7zXa0UkPMecxhAWg5at-ErCwxjSH75Hdz_JwdzXOU

 

Non solo, in Italia nel Terziario son documentate conifere del genere Sequoia, molto simili alla odierna Sequoia sempervirens, (il suo nome in inglese è “Coast Redwood”, letteralmente albero dal legno rosso costiero, per il colore della sua corteccia), che vive in Nord America, nella fascia costiera della California e Oregon a quote anche inferiori ai 300 metri sul livello del mare e alle medesime latitudini della Puglia. Data la sua fama per il fatto che in essa si annoverino gli alberi viventi ad oggi più alti della Terra, il record in quell’area costiera californiana e un albero alto ben 115,66 metri (dati del 2006), a partire dall’ ‘800 diversi esemplari son stati piantati anche in Italia (a Roma sul colle Pincio, nei parchi di Bologna, ecc.), e qualcuno in Puglia (a Terlizzi e a Bari).

Foglie di Sequoia sempreverde

Scheda sulla specie al link: https://it.wikipedia.org/wiki/Sequoia_sempervirens
E in Salento terra mediterranea dal clima californiano si può dire?

 

SEQUOIA SEMPREVERDE i titani verdi pilastri del cielo!Una specie che è considerabile un fossile vivente nella terra…

Gepostet von Oreste Caroppo am Freitag, 4. Oktober 2019

 

Accedendo agli studi di paleobotanica, come saggio fare con grande curiosità scientifica, si sviluppa un approccio più ricco e di meraviglia nei confronti del giudizio per gli orti botanici, e in generale i giardini e i parchi verdi, non solo come raccolte di piante domestiche e selvatiche, di autoctone ed esotiche, ma anche come luoghi di reintroduzione di specie identiche o molti simili a specie presenti nel passato geologico nella nostra zona.
Diverso e più saggio-naturalistico in questo modo anche l’approccio di fronte alla naturalizzazione o rinaturalizzazione di specie esotiche introdotte dall’uomo.

Ad esempio da questo studio “The Pliocene macro- and micro-flora of lacustrine sediments from Meleto (Valdarno, N. Italy)” leggiamo di fossili ritrovati in alcune località italiane e risalenti al Terziario.
Link: http://natuurtijdschriften.nl/download?type=document;docid=541729

Accanto a tanti generi ancora sopravvissuti in Europa e Italia oggi ,vi vediamo

conifere dei generi Tsuga, Sequoia, Taxodium e Glyptostrobus, Cedrus, ecc.,
e poi piante dei generi
Magnolia, Zelkova, Citrus, Platanus, Liquidambar, Vitis, ecc.

Qui in questo studio “Il Pliocene e il Quaternario della media valle del Tevere (Appennino Centrale)”
link: http://www.dst.uniroma1.it/geologicaromana/Volumi/VOL%2037/13-Mancini-Girotti-Cavinato.pdf?fbclid=IwAR343YBxn-atBUN4oZKILqBe5OpBS4hL9yOSqWUNlK0dTerDkqLaMEa_7uI
leggiamo come gli eventi di glaciazione portarono alla graduale scomparsa di taxa come quelli Sequoia.

 

[Vedi anche:

-) https://www.academia.edu/22978334/Lungo_la_costa_del_Mar_Tirreno_due_milioni_di_anni_fa

-) “Stato dell’arte della ricerca paleobotanica e palinologica in Italia dal Pliocene al Pleistocene medio” al link http://www.societabotanicaitaliana.it/uploaded/334.pdf

-) https://www.academia.edu/18783465/The_Miocene_flora_of_Parschlug_Styria_Austria_revision_and_synthesis

-) “Floristic changes in the Iberian Peninsula and Balearic Islands (south-west Europe) during the Cenozoic” in cui troviamo citato anche il genere Pittosporum, oggi in Italia ben rappresentato dai pittospori ornamentali usati per siepi o lasciati crescere ad ombrello della specie Pittosporum tobira nativo di Giappone, Cina e Korea.

-) “The early oligocene flora of Santa Giustina (Liguria, Italy) – Riviste UNIMI“]

 

Alcuni di questi generi sono stati reintrodotti dall’uomo, dai territori dove sono sopravvissuti, per vari usi alimentari o d’altro tipo o anche solo  come ornamentali.

Pompei dalla cosiddetta Casa del frutteto, dipinto di albero di Limoni di epoca romana

Se parliamo delle conifere del genere Cedrus pensiamo ai Cedri del Libano, ai Cedri dell’Atlante e ai Cedri dell’Himalaya coltivati ampiamente in Italia.

Qui uno studio interessantissimo basato su analisi polliniche per una ricostruzione paleoambientale della valle del fiume Bradano nel sud della Lucania e esattamente al confine con la Puglia,
vedi link: https://www.researchgate.net/publication/233960208_Pollen_from_archaeological_layers_and_cultural_landscape_reconstruction_Case_studies_from_the_Bradano_valley_Basilicata_southern_Italy

e vi vediamo comparire il genere Cedrus (di piante conifere) nell’ epoca romana!

Se parliamo del genere Citrus invece, pensiamo che ad esso appartengono i Limoni, Arance, Mandarini, Mandarini cinesi, il Cedro agrume da non confondere con le omonime conifera, il Pompelmo, il Bergamotto, un genere ampiamente sopravvissuto in Asia, (il Pompelmo forse sopravvissuto in America), da cui sin da tempi antichi questo genere è stato ridiffuso in Mediterraneo.

Da citare comunque la presenza del Limone (Citrus limon) già in Sud Italia in epoca romana, come attestano i dipinti emersi a Pompei!

E resti di veri e propri frutti di Limone son stati ritrovati dagli scavi archeologici condotti a Roma presso il Carcer Tullianum, si ritiene resti di offerte votive, ed è datato al 14 d.C., vedi in merito articolo del 14 luglio 2016 al link: https://scienze.fanpage.it/il-piu-antico-limone-del-mediterraneo/).

Che sia dunque originario proprio del Mediterraneo il Limone a dispetto di quanto si crede, ovvero introdotto dall’Asia? Un’ interrogativo che nasce spontaneo alla luce di tutti questi dati.

In ogni caso scopriamo che il genere Citrus non si può considerare del tutto alieno all’ Italia dati i dati paleobotanici pre-quaternari!

Reintrodotte dall’uomo le Magnolie a scopo scientifico e ornamentale.

Dal Nord e Centro America è stato introdotto in Italia Liquidambar styraciflua

Liquidambar styraciflua

“An ancestor of Liquidambar styraciflua is known from Tertiary-aged fossils in Alaska, Greenland, and the mid-continental plateau of North America, much further north than Liquidambar now grows. A similar plant is also found in Miocene deposits of the Tertiary of Europe, (Keeler, Harriet L. (1900). Our Native Trees and How to Identify Them. New York: Charles hi Scriber’s Sons. pp. 160–164.).” (Estratto dal link: https://en.wikipedia.org/wiki/Liquidambar_styraciflua)

Liquidambar styraciflua in autunno.

 

Sarebbe opportuno introdurre anche in siti del Salento congeniali alla specie, dalla natura umida-alluvionale pertanto, il Liquidambar orientalis specie autoctona del Mediterraneo orientale dove vive ancora in aree sud-occidentali della Penisola anatolica e nell’Isola di Rodi.

 

Bellissima la colorazione delle foglie del Liquidambar orientalis in autunno, (idem per il Liquidambar styraciflua che oggi ha areale naturale nel nord America).

 

Un’area geografica nel Mediterraneo orientale dove anche è presente l’igrofilo Platano orientale (Platanus orientalis) che ritroviamo anche in Sud Italia; un’area dal clima e dalla biodiversità molto simile a quella salentina, che, oltre ad annoverare oggi in natura specie del Mediterraneo occidentale (come la Palma nana ormai naturalizzatasi a partire da esemplari coltivati, la Sughera e il Pinus pinaster) e centrale è particolarmente caratterizzata dalla presenza di specie ad areale maggiormente posizionato sul Mediterraneo orientale, si consideri a tal fine la famosa Quercia vallonea (Quercus macrolepis anche detta Quercus graeca) e la Quercia di Macedonia (Quercus trojana).

 

 

Dal mediterraneo Liquidambar orientalis si ricavava una resina profumata richiestissima in antichità chiamata storace; pare sia possibile estrarre un resina dalle simili proprietà anche dalla specie Liquidambar styraciflua ad oggi più diffusa nei parchi del Salento. E’ un peccato manchi invece quasi del tutto in Salento oggi la specie del Liquidambar che in natura nel nostro tempo è più autoctona del Mediterraneo, cioè il L. orientalis.

La valle umida e ombrosa in cui vivono tali alberi di L. orientalis a Rodi è anche famosa per la ricca presenza di Falene dell’edera (specie Callimorpha quadripunctaria, falena che vive pure in Italia), tanto che viene chiamata anche come “la Valle delle farfalle”.

 

 

Allo stesso modo del genere Liquidambar, il Bambù, (naturalizzatosi in Salento nella specie del Bambù aureo, nome scientifico Phyllostachys aurea, in loco chiamato “canna d’India”, in siti umidi soprattutto e in particolare fluviali ai bordi di rivi con argini terrosi, nonché piantato in ville pubbliche e giardini privati, negli anni ’80 anche in aiuole sulla Villa Tamborino a Maglie),
Bambù aureo (Phyllostachys aurea).

vede in Europa, Penisola italiana inclusa, suoi fossili risalenti al Neogene, precedenti alle grandi glaciazioni del Quaternario quindi.

Possiamo considerarlo pertanto come una pianta “autoctona di ritorno”, il cui riattecchimento in Europa è favorito oggi dall’uomo come vettore e dal nuovo clima del nostro interglaciale quaternario caldo in cui viviamo! E non meraviglia dato che l’Europa faceva già parte allora dello stesso continente unico eurasiatico.
“Fossil leaves of Bambusa ilinskiae are described from the Miocene deposits of the Carpathians. The fossil leaves of Bambusa lugdunensis are known mainly from the Miocene of the Massif du Coiron in Ardèche, France, Miocene of Bełchatów in Poland, Middle Miocene of Austria, the Neogene of the Transcarpathians and the Pliocene of southern France. Findings of fossil Bambusa leaf impressions of Messinian age (ca. 5.7 Ma) from Monte Tondo in the Romagna Apennines in northern Italy, are similar to fossil Bambusa lugdunensis leaves.” (passo tratto da “Bambusa“).
Bambusa lugdunensis is, in opinion of Laurent (1904–1905), closely related to extant bamboos of the genera Phyllostachys Sieb. and Zucc. and Arundinaria Michx., and especially to Arundinaria japonica Sieb. Grangeon (1958) regarded leaves of the genera Bambusa and Arundinaria as most similar to Bambusa lugdunensis.” (passo tratto dal seguente studio qui linkato).
Mi piace ricordare qui anche un dato paleontologico: in Europa non solo viveva nel neogene il bambù ma anche specie antenate/parenti del Panda rosso odierno asiatico animale ghiotto di foglie di bambù, e chissà che già allora alcune di esse in Europa non mangiassero proprio bambù! L’importanza da noi ergo anche degli zoo-bioparco da fondere con gli orti botanici dove possibile, ciò nel verso della ricostruzione di antichi paesaggi naturali e a fini conservazionisti e di ripopolamento.
La bellissima Paulownia tomentosa, specie botanica decidua dalla rapida crescita, grandi foglie e dalle belle fioriture, piantata in alcuni parchi urbani salentini, come a San Cassiano di Lecce, pianta di provenienza cinese, impiegata anche oggi in Italia nella silvicoltura per la produzione di legname, è davvero così esotica?
Vicenza – “Paulownia tomentosa” in fiore
Con beffa nei confronti dei razzisti verdi della Falsa ecologia scopriamo che essa appartiene ad un genere, Paulownia, che non è ignoto al territorio italiano, era infatti un genere autoctono nel Pliocene prima delle grandi glaciazioni del Quaternario, quando nell’area che oggi diciamo italiana vi era un clima più caldo e più umido.
 

Il genere Zelkova creduto estinto nei territori italiani è stato ritrovato vivente in Sicilia nel 1991 (una formazione classificata come Zelkova sicula), piante che urge diffondere maggiormente anche a fini conservazionistici in sud Italia. E’ una specie di un genere relitto della flora forestale del Terziario, creduto estinto dall’Italia a causa delle Glaciazioni del Quaternario.

Nel Pleistocene si ebbero poi delle fasi in cui si diffuse in Italia un tipo di foresta detta “Foresta colchica”, cioè caucasica, (vedi: https://www.abebooks.it/foresta-colchica-fossile-Riano-Romano-Studio/11682413991/bd), con crescita in Italia del Noce del Caucaso e di Zelkova che si ritiene, a giudicare dai fossili analizzati, fosse affine a Zelkova carpinifolia, pianta caducifoglia, che ha nome volgare Zelkova del Caucaso, (vedi: https://www.jstor.org/stable/2434636?seq=1). 

Per cui bisogna guardare con piacere alla presenza e piantumazione nei nostri parchi oggi del Noce del Caucaso e della Zelkova del Caucaso, e/o altre specie di Zelkova, come avvenuto nei più bei orti botanici d’Italia.

 

Zelkova Carpinifolia..."Caucasian Elm"

Zelkova Carpinifolia, Royal Botanic Gardens. Kew. London. UK. Foto dal link.

 

Poiché specie “molto diffusa in Italia nel Pleistocene”, scrivono qui nel sito ufficiale del museo, a Roma nel giardino del Museo di Casal dei Pazzi (chiamato Giardino Pleistocenico) hanno piantato la Zelkova carpinifolia, comunemente detta Zelkova del Caucaso (o Z. crenata, per il margine della sua foglia) perché oggi continua a vivere in quelle aree da cui è stata reintrodotta dai botanici del passato. La specie che raggiunge cospicue altezze fino a 30 metri è parente dell’Olmo, e il suo bel tronco mostra chiazze arancioni. La Zelkova del Caucaso viene infatti anche chiamata Olmo del Caucaso.

 

Zelkova carpinifolia, particolari: foglie (sotto) e tronco-corteccia (sopra).

 

In diversi parchi e orti botanici d’Italia si trovano magnifici monumentali esemplari di Zelkova carpinifolia.

 

Due foto dell’albero monumentale di Zelkova carpinifolia di Villa Guiccioli a Vicenza.

Allo stesso modo possiamo ritenere il Noce del Caucaso (Pterocarya fraxinifolia) una sorta di fossile vivente per l’Italia, si tratta di una pianta arborea propria di un genere che viveva in Italia nel Pleistocene, come abbiamo sopra accennato, e oggi ritrovabile ancora nella regione del Caucaso.
Noce del Caucaso (Pterocarya fraxinifolia)
Dati sulla sua presenza fossile del genere Pterocarya in Italia in questo studio al link: https://www.researchgate.net/publication/292288688_La_foresta_colchica_fossile_di_Riano_Romano_I_Studio_dei_fossili_vegetali_macroscopici.
Noce del Caucaso (Pterocarya fraxinifolia). Immagine dal link.
Oltre al Ginkgo due altre specie con una lunga interessante paleostoria in Italia da provare a piantare anche da noi sono pertanto proprio la Zelkova carpinifolia e il Noce del Caucaso. Chi viaggia assai nel centro e nord Italia può avere la fortuna di incontrarli e prelevare semi o polloni radicati. Tutte queste qui trattate interessanti specie per arricchire la nostra assai povera depauperata biodiversità salentina. Digitate su Google il nome della grossa città italiana che magari frequentate di più o dove state per recarvi, o altre vicine, più il nome “Zelkova carpinifolia” per scoprire se sono presenti degli esemplari che potete visitare!
Anche l’americano Noce Pecan (Carya illinoensis)
Noci Pecan
 
La Puglia è una delle regioni italiane dove pare cresca meglio queste specie esotica americana recentemente introdotta. Noce Pecan benvenuto! Da un impianto pro coltivazione di alberi di Noce Pecan in contrada Sirgole-Paduli nel cuore del basso Salento, la specie ha iniziato a naturalizzarsi e diffondersi spontaneamente attorno per seme in pochi anni.
Il Platano occidentale (Platanus occidentalis) fu introdotto in Europa ed Italia dopo la scoperta dell’America, ma si può parlare addirittura per esso di una sorta di reintroduzione grazie all’uomo, di una pianta alloctona in Italia sì, ma che possiamo anche considerare un autoctona di ritorno grazie all’uomo se è vero quanto qui leggiamo, ovvero che fossile si ritrova in Italia una specie di platano che qui viveva nel Terziario (prima del Quaternario), esso è stato battezzato dai paleobotanici “Platanus leucophylla“, e leggiamo, “sembra corrispondere all’attuale P. occidentalis diffuso lungo le coste atlantiche dell’America centro settentrionale.” (tratto dallo studio al link: http://www.venadelgesso.it/assets/i-gessi-e-la-cava-di-monte-tondo—gli-aspetti-paleontologici-della-cava-di-monte-tondo.pdf).
Platano occidentale (Platanus occidentalis), foglia e frutto. Immagine tratta dal Web.

 

L’Albero del Paradiso, l’Ailanto (Ailanthus altissima) rappresenta sebbene pianta esotica asiatica introdotta e ben naturalizzatasi in Italia un genere che ritorna in Italia, un genere autoctono di ritorno essendo attestato tra i taxa fossili del Terziario prima delle glaciazioni del Quaternario.

L’Albero del Paradiso, l’Ailanto (Ailanthus altissima)

Per approfondimenti leggi l’articolo: “BENTORNATO AILANTO IN ITALIA!“.

 

Pensiamo poi alla bellezza di avere di nuovo in Terra d’Otranto delle piante della famiglia delle Araucariaceae, un genere reintrodotto dall’Emisfero Meridionale dove taxa di questa famiglia sono sopravvissuti.

Ma possiamo dire suggestivamente che “nel Salento le Araucariacee son di casa”:
a Surbo (Lecce) loro specie risalenti al Cretaceo (oltre 65 milioni di anni fa) son state ritrovate fossili!

 

Reperti fossili vegetali datati al Cretaceo Superiore, ritrovati in Terra d’Otranto a Surbo (Lecce) ed esposti presso il Maus, il Museo dell’Ambiente dell’Università del Salento situato nella sede nel campus universitario di Ecoteckne lungo via Lecce-Monteroni. Foto dal link: https://www.quotidianodipuglia.it/photos/PANORAMA/33/78/1743378_piante_fossili.jpg

 

<<Negli anni Ottanta del secolo scorso, i membri del Gruppo Naturalisti Salentini di Lecce individuarono in una cava del Comune di Surbo quel giacimento di organismi vegetali fossilizzati nella roccia e databile al Cretaceo Superiore (circa 65 milioni di anni fa, l’epoca in cui si estinsero i dinosauri). (…) anche se oggi i numerosi reperti conservati nel Museo dell’Ambiente di Lecce (il Maus, presso il campus universitario Ecotekne) non sono stati ancora oggetto di studi specialistici, gli organizzatori spiegano che tra essi sono riconoscibili esemplari ascrivibili a conifere primitive e probabilmente a generi come “Brachiphyllum”, “Pagiophillum e Araucarites”, antenato delle moderne Araucarie. Trattandosi di resti vegetali terrestri rinvenuti in sedimenti di origine marina si può affermare che essi siano stati trasportati in mare da fiumi che sfociavano nell’area. Vengono esposti analoghi reperti trovati anche in altre cave di rocce coeve delle province di Lecce a Taranto.
Per l’esame e la datazione, in questi casi, gli scienziati si affidano a quella scienza detta “Dendrocronologia” che studia le caratteristiche degli anelli concentri dei tronchi degli alberi in funzione della loro larghezza e della struttura cellulare del legno. Si possono così ottenere informazioni sull’età dell’albero e come siano variate le condizioni ambientali del sito in cui vive o ha vissuto. Queste datazioni possono essere utilizzate anche per stabilire l’età dei reperti lignei, in particolare edifici ed opere d’arte, per la ricostruzione della storia del clima e sismica, per conoscere la successione di particolari eventi, che abbiano interessato le zone come incendi, attacchi di insetti e diradamenti del bosco e di datare e ricostruire la struttura spaziale di insediamenti preistorici.
Nell’ambito di questa tematica sono esposti anche alcuni campioni di legni di circa 1.300.000 anni fa provenienti dalla foresta fossile di Dunarobba in Umbria, su alcuni dei quali sono state condotte ricerche preliminari per individuare possibili ciclicità legate all’attività solare, ricerche che hanno fornito l’indicazione che in tali legni si potrebbe individuare il ciclo di 22 anni dell’inversione del campo magnetico solare (Ciclo di Hale).” (Estratto dall’articolo dal titolo “Le piante fossili narrano la Storia. Al Maus i reperti di Lecce e Taranto” dal Quotidiano di Puglia del 19 maggio 2016). Qui linkiamo anche un bel post su Facebook del botanico dell’Università del Salento il professor Piero Medagli su questi reperti fossili trovati in Salento.

Dovremmo piantarne nei parchi dei loro discendenti, che oggi vivono nell’Emisfero Australe, anche in memoria di questa loro arcaica presenza nei sedimenti pietrificati che oggi costituiscono la Terra d’Otranto,
ma effettivamente già i Salentini mostrano di amare parecchio le Araucarie, in particolare della specie A. excelsa (o detta anche A. heterophylla) presente anche con esemplari monumentali!

 

L’Araucaria heterophylla.

 

 

L’ Araucaria heterophylla (anche chiamata Araucaria excelsa) è un albero che può raggiungere i 50-70 m endemico dell’ Isola di Norfolk, a oriente dell’Australia, che raggiunge anche in Salento ragguardevoli altezze e che pare gradire molto il clima e i suoli salentini, anche in aree costiere, non solo nell’entroterra.

 

Resina da Araucaria excelsa, contrada ”Luci”, Scorrano (pr. Lecce), 1 agosto 2022, foto di Oreste Caroppo. Resina emessa dal tronco a fini protettivi in corrispondenza delle zone di recente taglio di alcuni suoi rami.
Nasceva cosi del resto l’ambra (elektron in greco), l’antica resina fossile prodotta da piante resinose. Tra queste l’ambra del Baltico (succinite) di origine eocenica, commercializzata tramite la rotta adriatica (l’antica via dell’ambra) nel Mediterraneo nell’Età del Bronzo, da essa si ricavavano gioielli.
Nell’ambra si possono ritrovare perfettamente conservati resti vegetali, funghi, licheni e interi animaletti inglobati quando essa colava sui tronchi prima di indurirsi.
Il termine elettricità deriva dal nome greco dell’ambra per la sua proprietà di poter essere facilmente elettrizzata per strofinio.
Mi piace ricordare che un’ambra fossile si rinviene anche nella Sicilia orientale, è di origine miocenica e viene chiamata simetite. Viene rinvenuta sulle spiagge siciliane in prossimità della foce del fiume Simeto, nei pressi di Catania (da cui deriva il nome “simetite”) ed anche in spiagge del litorale ibleo, nel tratto che va da Punta Braccetto (frazione rivierasca di Santa Croce Camerina) a Contrada Chiappa o Costa dell’Ambra (territorio di Pachino).

 

Altra specie di Araucaria piantata nei parchi del Sud Italia, ma più rara in Salento, è l’Araucaria araucana nativa del Sud America (in particolare Cile centrale e Argentina centro-occidentale); la specie fossile del Cretaceo superiore (coeva di dinosauri) documentata a Surbo ricorda molto, pare, proprio l’A. araucana.
Questa andrebbe piantata in aree dal microclima più fresco, (rispetto ad A. excelsa che ben cresce ovunque in Salento anche in zona costiere). L’Araucaria araucana preferisce altitudini superiori a quelle basso-salentine.
A Matera ne ho visto un bellissimo esemplare di A. araucana.

Ma molto simile all’A. araucana è una grande Araucaria che si adatta meglio al clima basso-salentino e che vive nel Queensland, nell’Australia nord-orientale, è l’Araucaria bidwillii, nota come Pino di Bunya. E’ famosa per le sue enormi pigne, gli strobili, grandi come palloni da calcio,

 

Strobilo (pigna) del Pino di Bunya.

 

e per i commestibili deliziosi suoi grossi pinoli di cui andavano ghiotti gli aborigeni australiani.

 

Seme edule del Pino di Bunya.

 

Araucaria bidwillii. Semi del Pino di Bunya. Immagine tratta dal Web.

 

Araucaria bidwillii. Semi del Pino di Bunya, uno intero ed uno aperto per estrarre la parte interna edule. Immagine tratta dal Web.

 

 

Il Pino di Bunya può raggiungere un’altezza di 45 metri, un diametro di 1,5 metri e una larghezza di 15 metri.

 

 

Vi sono enormi esemplari presenti a Napoli dove la specie che vi è stata piantata ben vegeta. Idem in Salento dove si registrano enormi esemplari in ottima salute e produttivi di semi fertili e germinanti (come ho personalmente verificato) in ville gentilizie, uno a Casarano nella tenuta di Castello San Giovanni (vedi la foto nel post facebook sopra mostrato) oggi inglobata nel centro urbano e due a Taurisano nella Villa Lopez (o chiamata Villa la Quercia). Ancora poco diffusa nel Salento merita una maggiore diffusione questa specie anche per l’interesse economico dei suoi semi eduli.

 

Tronco e foglie del Pino di Bunya dal link.

 

 

Il Pino Bunya (Bunya è un toponimo australiano) è l’ultima specie sopravvissuta della Sezione Bunya del genere Araucaria . Questa sezione era varia e diffusa durante il Mesozoico con alcune specie aventi morfologia conica simile ad A. bidwillii, apparsa durante il Giurassico . I fossili della sezione Bunya si trovano in Sud America e in Europa. Il nome scientifico onora il botanico John Carne Bidwill , che lo scoprì nel 1842 e ne inviò i primi esemplari a Sir William Hooker l’anno successivo.

 

Reperti fossili vegetali datati al Cretaceo Superiore, ritrovati in Terra d’Otranto ed esposti presso il Maus, il Museo dell’Ambiente dell’Università del Salento situato nella sede nel campus universitario di Ecoteckne lungo via Lecce-Monteroni. Foto dal link: https://www.quotidianodipuglia.it/photos/PANORAMA/33/78/1743378_piante_fossili.jpg

 

CONCLUSIONI: si impone forte una riflessione da tutti questi dati, l’uomo che fa parte della natura che che se ne dica, e che opera con sue dinamiche e conflittualità dialettiche, con quello che definiamo umanamente gusto botanico scientifico e ornamentale, ha operato in Europa in questo interglaciale quasi inconsapevolmente nel verso di una accelerata ricostruzione ambientale riportando in essa dagli altri continenti e dall’Asia tante specie viventi discendenti o strette parenti di specie vissute in Europa nei millenni passati, e che forse non a caso hanno mostra poi anche di gradire assai l’importazione rinaturalizzandosi coadiuvate dall’odierno clima. E con un testo di paleobotanica europea in mano, aggirandosi in un parco botanico europeo, che saremmo tentati di dire “artificiale”, par di aggirarsi in realtà in un contesto ancor più radicatamente europeo e ricco di quanto non fosse se si fossero ubicate lì solo ed esclusivamente le specie bollate autoctone dei nostri giorni.

NOTA: per ulteriori approfondimenti e per i riferimenti bibliografici rimando al mio post facebook correlato e ai suoi ricchissimi commenti, al link https://www.facebook.com/oreste.caroppo.98/posts/1118837678270282

 

      Oreste Caroppo                          24 ottobre 2018 (e integrazioni successive)

 

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