I CELTI-GALLI-GALATI in SALENTO?

I CELTI-GALLI-GALATI in SALENTO?

Di

Oreste Caroppo

 

“Il Galata morente” – copia romana di una statua ellenistica.

 

I toponimi delle città Gallipoli, Galatone, Galatina, nell’area del Salento meridionale occidentale mi sollevano un sospetto, essi formano una triade toponomastica accattivante, nessuno mette in dubbio il sostrato messapico, greco e romano anche in quella area del Salento,
ma in questi nomi di città è molto forte la suggestione ad un riferimento etnonimico:
quello ai Galati e ai Galli che sono praticamente entrambi sinonimi di Celti!

Ma le etimologie oggi più affermate vogliono che Gallipoli derivi dal greco Callipolis con il significato in greco di “città bella”, come vogliono collegare Galatina ora al latte che in greco è “gala”, ora ad Atena attraverso la forma greca “kalè Athina” col significato di “bella Dea Atena”, da cui poi fu facile collegare la civetta che è nel suo simbolo, animale frequente nel territorio, ad Atena di cui era animale sacro, tanto che il nome tassonomico linneano scientifico della civetta è Athena noctua. Così come il riferimento al latte sarebbe un richiamo alla ubertosa pastorizia praticata un tempo in quei territori.
Ma Galatone e Galatina non son più facilmente dei toponimi prediali, indicanti l’assegnazione di terreni conquistati da Roma a persone o genti aventi il nome “Galat-“?
E a volte i territori conquistati venivano riassegnati a gente del luogo per una migliore pacificazione, o ad altre genti che giungevano da fuori, romane o alleate dei romani o forse deportate in nuovi territori.

Il Salento inoltre è una delle aree d’Italia dove maggiormente è diffuso il cognome Galati, secondo alcuni un riferimento etnico alla popolazione dei Galati (popolazione di origine celtica che si stanziò nella regione della Tracia nei Balcani e nella regione dell’Anatolia centrale che a seguito della loro presenza venne chiamata Galazia), secondo altri deriverebbe da un soprannome grecanico riferito al mestiere di lattaio svolto forse dal capostipite.

 

La diffusione del cognome Galati oggi in Italia.

 

Fatto sta che, cosa interessante, mi sono imbattuto in una fonte originaria scritta dallo studioso romano Plinio il Vecchio del I secolo d.C. sovente alterata dai classicisti e studiosi moderni che mettono mano ai testi antichi, come se si sia voluto cancellare la memoria di una presenza celtica a favore di una più nobilitante piena origine greca.

Plinio scrive “Senonum Gallipolis” in riferimento alla città di Gallipoli in Salento,
praticamente dice tale città dei “Galli Senoni“!
Ed è quel “Senonum” che diversi studiosi moderni hanno corretto in forme tali che non potesse essere più ricondotto ai Galli Senoni?
I Galli Senoni si erano stanziati nel Nord dell’Adriatico sulla costa orientale della Penisola italiana, nell’attuale Romagna e Marche del nord, ma erano soliti fare scorrerie a partire da lì.

 

Il Cinghiale era sacro per i celti simbolo di fertilità. Tipici anche del Salento i cinghiali europei (Sus scrofa), dopo alcuni decenni di assenza a causa di una caccia sfrenata che li aveva estinti localmente, sono fortunatamente tornati. Attestati in Salento non solo in tempi storici e protostorici ma anche in tempi preistorici dalla paleontologia.

 

Il passo pliniano faceva irritare il Galateo, umanista Salentino, che se la prendeva con Plinio per aver chiamato la città, che il Galateo, come altri autori del passato, voleva far passare 100% greca (con il nome Callipolis come “città bella” in greco), come se invece i greci l’avessero chiamata, o comunque in greco fosse stata chiamata: “città dei Galli”.
Oggi il nome della città è Gallipoli e non Callipoli, e come suo stemma è stato scelto il Gallo.
I celti portavano sull’elmo di guerra due ali di gallo come simbolo della propria forza, e gli antichi romani con il termine “gallus” indicarono indifferentemente il volatile e i celti che vivevano nella regione che fu quindi chiamata Gallia per la loro presenza!

 

Insegna civica della città di Gallipoli. Mi piace ricordare che in Europa la specie di uccelli del Gallo/Gallina (Gallus gallus) è attestata, dalla paleontologia, già tra le faune selvatiche pre-oloceniche, prima della domesticazione.

 

“Oltre 2 mila anni fa la Francia era occupata da una popolazione celtica che i Romani chiamavano Galli e nel vocabolario degli antichi romani gallus indicava indifferentemente il volatile o l’abitante della Gallia. I celti portavano sull’elmo di guerra due ali di gallo come simbolo della propria forza.
Infatti il gallo ha un grande valore simbolico in quanto rappresenta la fede e la luce. Il canto del gallo ogni mattina rappresenta il trionfo della luce sulle tenebre, del bene sul male. Da questo simbolismo pagano discende il gallo quale emblema della Francia” (testo tratto dall’articolo al link).

Quello del gallo è anche un simbolo molto forte nel Salento per la ceramica di Cutrofiano:

 

Galletto stilizzato dipinto su alcune terrecotte salentine.
Galletto stilizzato dipinto su vasellame in terracotta in Salento a Cutrofiano.

 

Come anche nei tipici fischietti in creta di Cutrofiano:

 

Fischietti in terracotta. Altezza: 10 cm. Salento. Foto di Oreste Caroppo, 2017, in possesso dell’autore, acquistati a Maglie nella tradizionale ”Festa dei campaneddhi” in cui si vendono campanellini in terracotta e fischietti sempre in terracotta prodotti localmente, soprattutto realizzati a Cutrofiano ma non solo. Per approfondire vedi il mio post facebook del 2 agosto 2017.

 

Antonio de Ferraris (Galatone, 1444 – Lecce, 12 novembre 1517) detto “il Galateo”, che aveva, quasi una beffa per lui, proprio questo pseudonimo dal nome della sua città Galatone, e che inoltre visse anche a Gallipoli, non voleva che Gallipoli e in territorio circostante fossero sospettati di un’origine toponomastica legata all’etnia dei Celti, a seguito di una antica presenza di Celti in zona, e non ai Greci che invece tanto più da classicista umanista stimava; in un sua lettera intitolata “Callipolis descriptio“, del 12 dicembre 1513, egli ha scritto: “Callipolis ha tratto il nome dalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignoro donde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Galli Senoni.”

Il dato etnico che si ricava da Plinio si scontra con quanto scritto da due autori coevi a Plinio: lo storico Dionisio di Alicarnasso, e il geografo Pomponio Mela.
Secondo Dionisio l’origine di Gallipoli si deve ad un greco lacedemone di nome Leucippo che vi si sarebbe insediato lì dove già comunque i greci della polis magnogreca di Taranto avrebbero avuto una loro base; un passo assai dibattuto per la sua similitudine con un mito di fondazione della città magnogreca di Metaponto.
Pomponio Mela, nella sua opera “De Situ Orbis“, scrive “Urbs Graia, Kallipolis“, e alcuni studiosi, non tutti, lo hanno letto come “la città greca Gallipoli), dove “Kallipolis” deriverebbe secondo il Galateo da “Kalè Polis“, cioè traducendo dal greco “Bella Città”, “la Città bella”.

Altri interpretano quel “Graia” non come attributo di Gallipoli ma come invece nome di un’altra città diversa da Gallipoli, da identificare con Graxa città messapica battente moneta come noto dalla numismatica-archeologia, ma di cui ancora non si conosce l’esatta posizione, e che dovrebbe essere sempre in Salento sulla costa del Golfo di Taranto ma più a Nord di Gallipoli a dar fede alla Mappa di Soleto.

I Celti, si racconta, valicarono le Alpi attratti dall’idea di un territorio quale l’Italia dove avevano scoperto tramite dei mercanti che si produceva il vino di cui divennero ghiotti e dove crescevano gli appetitosi frutti del Ficus carica. Tipica loro bevanda pare fosse la birra. (I Celti bevevano la “Bracia”, i Liguri la “Bryton”, i Celtiberi la “Cerea”, i Galati l’ “Embrekton” e gli Italici l’ “Alut”, tanti modi per dire “Birra”, vedi questo post facebook).

Brenno è stato un condottiero gallo, capo della tribù celtica dei Senoni, noto per avere messo a sacco Roma nell’anno 390 a.C. durante il quale famoso è l’episodio narrato delle Oche che sul colle del Campidoglio si misero a starnazzare permettendo ai Romani di destarsi dal sonno e respingere l’assalto notturno dei Galli. A questo episodio venne dedicata una festività romana, che cadeva il 3 agosto, durante la quale le Oche erano portate in processione ed onorate come salvatrici della patria.
Più che un nome proprio “brenno” pare essere il nome generico dei condottieri che guidavano queste spedizioni di saccheggio/conquista/insediamento in nuovi territori.

Foto della statua della copia marmorea romana del cosiddetto GALATA MORENTE. Il Galata morente era una scultura bronzea attribuita a Epigono, (scultore ellenistico, attivo alla corte del Regno di Pergamo, nella prima metà del III secolo a.C., autore di molte statue raffiguranti Galati), databile al 230-220 a.C. circa e oggi nota da una copia marmorea dell’epoca romana conservata nei Musei Capitolini di Roma. Al collo raffigurato il caratteristico “torquis“, così chiamato in latino, un massiccio girocollo, solitamente d’oro o di bronzo, più raramente d’argento, realizzato con una disposizione a tortiglione da cui deriva il nome, dal valore identitario per i Celti. Altro elemento assai iconico del Galati che anche in quest’opera possiamo osservare sono i folti baffi.

 

Ci chiediamo allora, forse gruppi celtici fecero incursioni fino in Salento come la fecero una incursione a Roma guidati da un brenno, conquistandola persino per del tempo, e così nei Balcani e in Anatolia nello stesso periodo grossomodo?
Non sappiamo quante altre incursioni fecero in quel periodo altri gruppi di Galli/Galati.
Il Salento era una terra ambitissima per il controllo dei traffici del Mediterraneo data la sua ubicazione, e luogo potenzialmente ambito per i prodotti mediterranei della sua terra, vino, fichi, ecc.
Fu ante litteram un fenomeno di scorrerie, predazioni ed occupazioni molto simile a quello delle incursioni vichingo-normanne nel medioevo.

Forse mirarono ad avere degli avamposti commerciali in Salento, e con una copiosa incursione si stanziarono nell’Anxa di Alezio, (Anxa era un sinonimo di Gallipoli, ci dice Plinio il Vecchio; Alezio era una importante città messapica nell’immediato entroterra di Gallipoli, Anxa doveva essere, si ritiene, il suo scalo portuale), lasciando anche traccia etnica toponomastica nell’entroterra nella zona di Galatone e Galatina, (come di Sannicola, borgo nelle vicinanze di Gallipoli, che ebbe fino al settecento il toponimo “Rodogallo”), magari come prediali per aree riassegnate dai romani a gente del luogo di quell’etnia?

Oppure dei gruppi celtici vennero deportati nell’area gallipolina, o comunque essa venne assegnata ad essi?

Tanti interrogativi sollevati dai dati indiziari qui raccolti che non sono ancora una prova!

Eppure nelle fonti antiche troviamo importanti indizi!

Dallo storico Diodoro Siculo (I sec. a.C.) nella sua opera “Biblioteca Storica” traiamo interessanti dati su un arrivo dei Celti in Iapigia nella seconda metà del IV secolo a.C., al tempo dunque delle scorrerie celtiche ai danni di Roma.
Se Diodoro Siculo li chiama Celti scrivendo in greco, lo storico Livio scrivendo in latino li chiama proprio Galli e anche da lui apprendiamo come nel corso del IV secolo a.C. i Galli erano presenti in Puglia (“Apulia” dove si erano dispersi)!
Quindi se da un lato abbiamo già dati su un arrivo dei Galli in Puglia e anche parrebbe nel sud della Puglia (Iapigia), dall’altro si aggiungono di lì a poco le manovre dei siracusani che pur coinvolgono la Puglia con la creazione di due colonie (non ancora ben identificate), siracusani che furono soliti fare uso di mercenari Galli Senoni.
Sempre dallo storico Diodoro Siculo apprendiamo della fondazione di due colonie siracusane, da parte del tiranno Dionìsio II detto il Giovane (Siracusa, 397 a.C. – Corinto, dopo il 343 a.C.), in Puglia (negli anni 366-365 a.C.), ciò per rendere sicuro ai naviganti il “Canale Ionio” (il Canale d’Otranto grossomodo quindi) contro le operazioni che conducevano le genti locali per precludere ai mercanti la navigazione in tutto il mare Adriatico.
Forse a Gallipoli i greci della polis di Siracusa stanziarono loro truppe celtiche, chiamando così nel loro greco il sito come “città di Galli”, “Galli-polis” appunto in greco?
È un dato stimolante nell’argomento qui sviluppato dato l’uso che i siracusani fecero di mercenari Galli Senoni e gli stretti rapporti che loro ebbero con questi anche nell’alto Adriatico.
Siracusa per l’Adriatico voleva essere quello che poi divenne Venezia, e per il controllo dell’Adriatico è sempre stato fondamentale controllare il Canale d’Otranto; non è peregrina pertanto l’ipotesi della necessità per Siracusa anche di avere delle basi in Salento dove forse appoggiava i suoi contingenti militari gallici, colonie fondate con la forza o tramite accordi con gli Iapigi e Peuceti. Sappiamo ad esempio da Diodoro Siculo che il tiranno di Siracusa Agatocle (nel 295 a.C.) sviluppò un’alleanza con Iapigi e Peuceti.
In area pugliese «Presso i Peucetini, a quanto dicono, vi è un santuario di Artemide, in cui, si dice, sia stata dedicata la spirale bronzea, assai famosa in quei luoghi, recante l’iscrizione “Diomede ad Artemide”. Si favoleggia che quegli l’avesse messa al collo di una cerbiatta e che fosse cresciuta insieme ad essa; più tardi, trovata in queste condizioni da Agatocle, re dei Sicelioti, dicono che sia stata dedicata nel Tempio di Zeus» (dal Corpus aristotelico in “De mirabilibus auscultationibus).
Diomede e la spirale bronzea al collo della cerva consacrata ad Artemide. Immagine simil pittura ad olio fatta generare appositamente dall’intelligenza artificiale con questa descrizione: “una cerbiatta con al collo appeso un collare, collare con al centro un grosso pendaglio a forma di spirale e fatto di bronzo; il tutto con sullo sfondo un bosco e un tempio greco”.
E poi abbiamo oggi quelli che ignorando ogni dato storico archeologico e paleontologico sostengono che i cervidi non erano autoctoni in Puglia … mala tempora currunt!

Si pensi anche allo stesso stemma di Brindisi, con la testa di un cervo in memoria del nome della città che deriverebbe secondo fonti antiche dal nome messapico della testa di cervo con palchi, utilizzata a similitudine della forma dei due seni interni del suo caratteristico porto.

Un altro tiranno siracusano interessato all’espansione del potere di Siracusa, dopo Dionisio il Giovane, e che non mancò di servirsi di mercenari Celti per le sue campagne militari fu Agatocle.
Sappiamo che sviluppò una alleanza con i Peuceti della Puglia centrale e con gli Iapigi.
Per ribadire gli interessi siracusani sull’Adriatico, dalle fonti antiche percepiamo una volontà di Agatocle di identificarsi con l’eroe acheo Diomede civilizzatore secondo il mito dell’Adriatico e in particolare della Puglia, in particolar modo la Daunia nel nord della Puglia, le Isole Tremiti (Isole Diomedee nelle fonti antiche) e anche Brindisi (città legata pare anche etimologicamente attraverso il messapico al cervo per la somiglianza del suo complessivo porto con la testa cornuta di un cervo; non a caso la testa di cervo e oggi stemma di Brindisi).
Ricordiamo inoltre che i Galli Senoni erano stanziati su territori che si affacciavano proprio sull’Adriatico.
Leggiamo a tal proposito questo brano che fa parte di un’opera inserita nel Corpus aristotelico ma in realtà composta nel I-II sec. d.C.; di seguito si riporta la traduzione del testo greco in “I messapi e la Messapia nelle fonti letterarie greche e latine” di M. Lombardo edito nel 1993: «Presso i Peucetini, a quanto dicono, vi è un santuario di Artemide, in cui si dice sia stata dedicata la spirale bronzea, assai famosa in quei luoghi, recante l’iscrizione “Diomede ad Artemide”. Si favoleggia che quegli la avesse posta al collo di una cerbiatta e che fosse cresciuta insieme ad essa; più tardi, trovata in quelle condizioni da Agatocle, re dei Sicelioti, dicono che sia stata dedicata nel tempio di Zeus».
Il tempio di Zeus a cui si fa riferimento deve pertanto essere, visto il richiamo ad Agatocle, quello famoso di Siracusa dedicato proprio a Zeus. Mentre secondo alcuni studiosi era nel Brindisino il santuario di Artemide di cui si parla nel passo.
Vedo che c’è chi nel tradurre anziché “spirale bronzea” parla di un “torques”.
Il celtico caratteristico collare metallico noto come torques, in greco è chiamato maniakis, ma per la cerbiatta il testo greco originario qui analizzati parla proprio di “elica di bronzo/rame”.
La spirale bronzea (“elica” nelle fonti greche) del caso la dobbiamo immaginare nella forma dell’immagine sopra, creata con intelligenza artificiale (IA), come pendente appeso al collo o come un manufatto unico tipo torque celtico?
In alcuni recenti studi in merito a questo passo tratto dalle fonti antiche vedo l’uso del termine tecnico archeologico “torque” per indicare tale mitico manufatto e non capisco perché.
In tal caso “torque” è utilizzato in maniera generica per indicare qualcosa di ritorto come una spirale-elica in un manufatto che va applicato al collo, oppure è frutto dell’idea che si trattasse proprio di un “torque” tipico preziosi collare in bronzo o altri metalli identitario per i Celti assai esperti nell’arte della metallurgia?
Per capire quale è il torque celtico: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Torque
O la soluzione sta nel mezzo e va immaginato come un torque metallico (per la parte che andava intorno al collo) con pendente a spirale di bronzo?
Non mancano manufatti di questo tipo come il seguente:
Torque in bronzo con pendente a doppia spirale in bronzo dal Tesoretto di San Canziano del Carso in Slovenia ai piedi della cinta muraria del castelliere protostorico. Artigiano della seconda età del ferro, secolo V a.C. prima metà – secolo IV a. C. seconda metà. Dimensioni: altezza massima 21 cm, diametro 14,2 cm. Collare rigido con pendente a doppia spirale, legato al collare tramite una fettuccia di lamina bronzea. Dati tratti dal sito web.

 

L’aspetto assai suggestivo proprio di questo manufatto è che anche in quell’area della Slovenia dove è stato ritrovato, nel nord Adriatico, veniva venerato proprio Diomede!

Nel passo antico sopra riportata si dice che la spirale bronzea, era assai famosa in quei luoghi dei Peucetini (Peucezi, popolo abitante la Puglia centrale nell’Età del Ferro).

P.s.: nelle collezioni di reperti antichi presenti nei musei pugliesi, o nelle collezioni di altre regioni o paesi che hanno manufatti antichi trovati in Puglia, vi è per caso qualche torque celtico?
Non sarebbe comunque il primo caso di manufatti celtici ritrovati in Puglia, come qui esporremo!

Vedi ad approfondimento dell’argomento anche questo post facebook e i commenti dell’autore ad esso.

 

Per quanto riguarda la spirale, simbolo assai universale, si tratta di un motivo molto diffuso nel Salento neolitico e protostorico. Qui solo un esempio di decoro a spirale su un frammento di ceramica repertato sul Monte San Giovanni in feudo di Giuggianello, più in particolare si tratta di una spirale tripla (triscele a spirali):

 

 

“Ad Agatocle sono anche legati, si dice, per delle profezie i Galeoti (in greco antico Galeōtae), nome questo di una stirpe di indovini che prosperò in Sicilia durante l’epoca greca. Secondo alcuni studiosi non sarebbe casuale il nesso tra gli Iperborei e gli indovini Galeoti narrato dalle fonti antiche, infatti accanto al loro nome si ritrova quello di Filisto di Siracusa (Siracusa, 430 a.C. – 356 a.C., storico e militare) e di Dionisio I di Siracusa (o Dionigi di Siracusa, detto il Vecchio o anche il Grande, 430 a.C. – 367 a.C.); legati, su più fronti, a una propaganda che mirava a intrecciare solidi rapporti di fratellanza e discendenza tra i Sicelioti e i popoli alleati con essi: è il caso ad esempio delle origini di Siculo; ma anche delle origini dell’eroe adriatico Diomede; così come si hanno dei forti sospetti sul regno degli Iperborei e sul fatto che questi, provenendo dalla Gallia, potessero in qualche modo essere collegati alla stipulazione dell’alleanza tra Siracusa e i Galli avvenuta, secondo Marco Giuniano Giustino nell’anno varroniano del 390 a.C., ovvero tra il 388387 a.C.; più o meno lo stesso periodo in cui operarono gli indovini per il regno di Dionisio.

La stessa matrice avrebbe dato luogo alla leggenda di Galatea e Polifemo, dai quali discendevano i figli Celto, Illiro e Gala (costui identificabile con Galata) che, partiti dalla Sicilia, andarono a governare i rispettivi popoli che da essi presero il nome: corrispondenti all’espansione dionisiana in Italia (pianura Padana orientale, dove risiedevano anche i Celti) e in Adriatico (Dalmazia, Illiria, Croazia).” (passo tratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Galeoti). Vi era un legame, mi chiedo, tra gli indovini Galeoti e i sacerdoti Druidi dei Celti?
Interessante questo estratto in merito che qui riporto: “Il tiranno di Siracusa Dionisio I sviluppo forti rapporti filo-celtici. Sarebbe da attribuire all’operato dionisiano in alto-Adriatico anche la fondazione della città apula, in area dauna, chiamata Venosa (Venusiam), ma anche Afrodisia, che la leggenda, tramandata da Servio Danielino (Aen. 11, 246. Cfr. Braccesi, 2001, pp. 92-93.) vuole fondata da Diomede con gente gallica venuta da Nord: come testimonia Siculo Flacco, infatti, Diomede (in realtà Dionisio di Siracusa) aveva prelevato i Galli dal Nord e li aveva fatti insediare in Apulia (Gromatici veteres, 137 (ed. Lachmann): «Diomedes cum Gallís in Apuleía»). La Venosa/Afrodisia potrebbe quindi essere una delle tante città fondate per volere di Dionisio tramite i Galli dell’alto-Adriatico; probabilmente Veneti, dato il doppio significato del nome Venosa e dato che per i Siracusani l’origine dei Veneti (al principio detti Enetoi) non era in Asia minore ma bensì nella Gallia dei Celti, oltre le Alpi.” (tratto da “Fondazioni siracusane nell’alto Adriatico“).
La presenza di Galli Senoni in Puglia potrebbe ricondursi anche dunque a campagne militari o di alleanza condotte da tiranni siracusani interessati ad espandere il potere di Siracusa anche verso l’Adriatico, e che sappiamo ricorsero anche massicciamente a mercenari Celti?
Riporto dall’articolo “Alleanze tra i Galli e Siracusa“: “Nell’Eneide di Virgilio, Enea e Turno. I personaggi virgiliani mostrano forti analogie con ciò che narra Livio su Marco Valerio Corvo (371 a.C. – 271 a.C.) e il Gallo. Uomo politico e comandante militare romano, Marco Valerio, in qualità di tribuno militare, fu nel 349 a.C. compagno di Lucio Furio Camillo nella guerra contro i Galli e in questa occasione acquisì il cognomen di Corvus a causa di un duello contro un nemico gigantesco che vinse con l’aiuto di un corvo. «Un gallo si avanzò dalla schiera, insigne sia per la statura che per le armi e battendo lo scudo con l’hasta, sfida […] uno dei romani ad incocciare le armi. […] M. Valerio, tribunus militum adolescente […] si fa avanti armato […] allora scese dal cielo un corvo che si appollaiò sulla galea contro il nemico. Il fatto fu interpretato come fausto. Il corvo mantenne la sua posizione e quando iniziò il combattimento, levatosi sulle ali si gettò con il rostro e gli artigli contro gli occhi del nemico. Battuto il gallo, la vittoria arrise ai romani»(Livio, Ab Urbe condita, libri VII, 26)
Nella composizione dell’Eneide, Virgilio espone un importante paragone, dando dimostrazione di conoscere i fatti del IV secolo a.C. che coinvolsero da un lato la politica espansionistica siracusana e dall’altro la lotta romana per non soccombere all’invasione gallica. Nell’Eneide si descrive la lotta finale per la conquista del Latium. I Latini per sconfiggere i Troiani cercano di allearsi col greco Diomede, il quale sta fondando città in Apulia e manda ai Latini dalla Campania gli alleati che essi cercavano, armandoli però, stranamente, alla maniera celtica (Virgilio e la storia romana del IV sec. a.C., Sordi, 2002, pp. 99). Segue una tregua perché Diomede si rifiuta di prendere nuovamente le armi contro i Troiani. La pace viene però violata dai Latini e allora la lotta riprende. Si giunge allo scontro finale tra Turno, per i Latini, ed Enea, per i Troiani. I due si scontrano sotto le mura di Laurento. Lo scontro appare però subito segnato dal fato: Giove decreta la morte di Turno, gli invia quindi una Furia con le sembianze del “piccolo uccello che talvolta a tarda ora, di notte, posato sui sepolcri o sui tetti deserti canta lugubremente
attraverso le tenebre. In tale aspetto il mostro svolazza sibilando davanti al volto di Turno più e più volte, e gli sferza con le ali lo scudo” così lo disorienta, quindi Enea può infliggergli il colpo finale che lo abbatte (Aen. XIII 692 ss). Analizzando i passi virgiliani con la storiografia di Livio si presentano delle schiaccianti analogie con la cronologia di IV secolo a.C.: il greco Diomede è in realtà il tiranno siracusano Dionigi, che al pari del suo alter ego virgiliano si stanzia anch’egli in Apulia. Tra Diomede/Dionigi e i Latini avvenne realmente un’alleanza contro il potere dilagante dei Romani. Ai Latini giunsero realmente gli aiuti degli alleati Galli, mercenari di Siracusa. Diomede/Dionigi rifiuta di combattere ancora perché la situazione nella polis siciliana precipita, interrompendo ogni velleità espansionistica dionisiana. Lo scontro finale tra Enea e Turno, oltre ad avvenire nello stesso luogo dove si verificò l’ultimo scontro tra Greci e Galli, nella regione laurentina, mostra anche le medesime modalità del duello finale tra Marco Valerio Corvo ed il Gallo: anche in quel caso fu una forza divina a segnare il destino dei contendenti. Narra Livio che appena il Romano comincia a combattere, un corvo si posa sul suo elmo (Liv. 26, 3), poi l’uccello si riversa addosso al Gallo, colpendolo nel fisico e turbandolo nella mente. Valerio, aiutato dagli dei, può così abbattere facilmente il nemico. I Galli sono definitivamente sconfitti e si disperdono nel sud della penisola italica (Virgilio e la storia romana del IV sec. a.C., Sordi, 2002, pp. 99-101.).”
Ci troveremmo in una situazione con la verità nel mezzo se Gallipoli fosse stata fondata in territorio iapigio (messapico) dai greci siracusani, da cui la parte “-polis” nel toponimo, che vuol dire città in greco, facendovi insediare però principalmente loro alleati militari Galli senoni, da cui la parte “Galli-” nel medesimo toponimo!
A questo punto di fronte alla diatriba sulla effettiva presenza dei Galli in Puglia mi sono orientato sull’archeologia per trovare in essa prove della pista seguita in questo articolo: “Immagini di Celti in Puglia“.
È corto potete leggerlo in breve tempo.
Se Plinio il Vecchio riferiva davvero della presenza dei Galli in Puglia, allora che dire: NON MENTIVA!
I Celti giunsero anche nella nostra regione, la Puglia!
Dal testo ”Immagini di Celti in Puglia”. Sulla presenza celtica in Salento. Articolo al link.

 

Alcuni articoli per approfondire “I Celti arrivarono in Daunia“, “I Celti e il Mediterraneo“, articolo.

E addirittura un articolo dal cui titolo capiamo come sviluppi proprio le tesi qui dibattute: “Un vasto insediamento gallico nel IV sec. a.C. sul versante ionico dell’estremo salento“.

E non possiamo dire che l’archeologia non abbia dato indizi anche eclatanti a conferma di questa presenza Gallica in Puglia, vedi l’elmo celtico o celtico/italico di Canosa ad esempio.
Ma sono fiducioso che altre scoperte verranno all’archeologia a conferma ulteriore delle fonti antiche.

In Puglia a Canosa è stato ritrovato questo elmo di cui leggo “Elmo celtico rinvenuto a Canosa di Puglia – IV sec. a.C – bronzo, corallo e ferro”:

 

Elmo celtico rinvenuto a Canosa di Puglia – IV sec. a.C – bronzo, corallo e ferro. Tale elmo era probabilmente, si ritiene, un trofeo di guerra deposto in una tomba come corredo.

 

Pensate proprio trovato in Puglia uno dei più pregevoli elmi celtici ad oggi noti. Esso che mostrerebbe elementi di commistione con la cultura italica. L’Elmo di Canosa, detto, è un elmo cerimoniale in ferro con decoro vegetale intarsiato di corallo, realizzato a sbalzo su lamine di bronzo fissate sulla calotta. Presenta ai lati due piccoli tubi porta-pennacchi e degli anelli di fissaggio sul bottone per una cresta. I paragnatidi non sono stati trovati. La calotta in ferro è forgiata da un unico pezzo, cosa che invita a considerarlo come un manufatto del IV secolo a.C. ibrido tra tradizioni celtiche e italiche. Il suo luogo di scoperta, un ipogeo italico, rafforza quest’idea di ibridazione.
“Decorato nell’originale stile artistico maturato in ambiente greco-italico, lo stile vegetale continuo (detto anche stile di Waldalgesheim, nella nomenclatura originale della fondamentale opera dello studioso Paul Jacobsthal), dalla località renana che ne ha restituito per prima molte importanti testimonianze. Lo stile vegetale continuo è il frutto di un’originale e coerente facies dell’arte celtica, maturata grazie ai contatti culturali con i centri di produzione greci ed Etruschi della Penisola italiana, a seguito delle invasioni celtiche del primo quarto del IV secolo a.C. e del conseguente insediamento di popolamenti celtici nell’Etruria padana e aree limitrofe. Tali effetti si sarebbero ripercossi ben presto a nord delle Alpi: la loro assimilazione e rielaborazione innescò una fase di rinnovamento dell’arte celtica: tra gli esempi di questa fase artistica, oltre all’elmo di Agris, si può citare un altro capolavoro, l’elmo di Canosa in bronzo e corallo, capolavoro datato intorno al 330 a.C., proveniente da Canosa di Puglia e conservato al Antikensammlung del sistema dei Musei statali di Berlino.” (Tratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Elmo_di_Agris)

“I Celti usavano separatamente o insieme bronzo, foglia d’oro, ambra baltica, corallo mediterraneo e argento. La smaltatura lateniana ha portato una tecnica originale: l’applicazione a caldo di vetri colorati e opachi di colore rosso sui metalli, probabilmente in sostituzione del corallo proveniente dal Mediterraneo di difficile ottenimento. Di tutte le arti praticate dagli antichi Celti, l’oreficeria rappresenta probabilmente il loro ambito di predilezione: è comunque l’area più ricca di arte celtica scoperta fino ad oggi. Motivi decorativi propriamente celtici, come il triscele, e la loro combinazione intrecciata … ” (tratto dalla voce “arte celtica“).

 

In questi miei due post facebook (primo e secondo in ordine di tempo) e nei miei commenti ad essi continuamente arricchiti potete trovare tanto ulteriore materiale di approfondimento:

 

 

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Notiamo infine certe similitudini tra Messapi e Celti

TARAS dio messapico prima di essere adottato dai coloni Spartani

TARA il nome della collina di incoronazione in Irlanda

TAOTOR divinità presso i Messapi

TEUTA un importante termine che vuol dire comunità in celtico
(del resto il nostro termine italico “tutto”)
“Teuta” nome proprio illirico.

BRINDISI toponimo salentino, dal latino Brundisium, attraverso il greco Brentesion, ricalca il vocabolo messapico “Brention” che indica la testa di cervo, il nome della città sembra, quindi, riferirsi alla forma del porto che richiama la forma della testa dell’animale, (ferma restando anche una diffusa presenza dei cervi fino al recente passato in area salentina).

BRENTA il nome del fiume che nasce in Trentino-Alto-Adige e che sfocia nell’alto Adriatico, si ritiene abbia etimologia da un temine indicante la testa di cervo.

Questi dati si ricavano dall’opera in greco intitolata Geographica di Strabone (64/63 a.C. – post 23 d.C.): il greco toponino “Brentesion” (Brindisi), ricalca il vocabolo messapico “Brention” che indica la testa di cervo, il nome della città sembra, quindi, riferirsi alla forma del porto che richiama la forma della testa dell’animale,
(ferma restando aggiungo anche una diffusa presenza dei cervi fino al recente passato in area salentina).
Quello che volevo qui rimarcare è che Strabone ci dice che “brention”, la protome di cervo, è un termine messapico e non greco, e non mi pare usuale che i greci si mettessero a coniare nuovi toponimi ex novo per terre straniere servendosi proprio di termini stranieri.
Allo stesso modo gli ellenici chiamavano italioti i magno greci senza inventarsi toponimi ed etnonimi nuovi ma utilizzando toponimi locali, come appunto Italia.

Tutto questo può però semplicemente spiegarsi con le comuni origini indoeuropee di Messapi, Latini, Italici più in: generale e Celti.

In merito agli elmi celtici si discute se talvolta loro elmi, magari solo cerimoniali, avessero le corna, come in un odierno diffuso immaginario iconografico del barbaro celtico. In realtà a giudicare dalle decorazioni incise a sbalzo di questo importante reperto celtico, il Calderone di Gundestrup, sembrerebbe di sì. Vi riportiamo qui solo alcuni particolari di quel famoso calderone.

Il Calderone di Gundestrup è una famosa opera celtica di datazione incerta, tradizionalmente riferito al III secolo a.C., nella tarda Età del ferro, anche se la recente datazione al radiocarbonio di residui di cera sul calderone ne sposterebbe in avanti l’origine fino al III secolo d.C. Fabbricato in argento da artigiani probabilmente della regione del Danubio, il Calderone di Gundestrup contiene straordinarie rappresentazioni delle divinità celtiche e dei miti di cui erano protagoniste.

Calderone di Gundestrup, particolari. Il Giove celtico. Un personaggio raffigurato sembra avere un elmo cornuto.

 

Calderone di Gundestrup, particolari. Il dio cervo Cernunnos. Esso tiene un torque in mano e uno al collo.

 

Come anche a giudicare dal reperto noto come Elmo del ponte di Waterloo, un elmo celtico cerimoniale in bronzo con protuberanze cornute della Britannia pre-romana (circa 150-50 a.C.) ritrovato nel 1868 nel Tamigi presso Bridge (Londra) ed oggi al British Museum di Londra.

Sappiamo che anche i Messapi (popolo indoeuropeo che abitava in tempi storici il sud-est della penisola di Italia, il Salento) avevano elmi cerimoniali cornuti: vedi questo elmo in bronzo con corna rimovibili sotto forma di drago marino, il ketos, probabilmente, circa 325-275 a.C.

 

Elmo di stratega messapico. Circa 325-275 a.C. Oggi al British Museum di Londra. “This bronze helmet has a crest with detachable horns shaped like horse-headed sea-monsters. The origin is unclear, it is perhaps a Messapian helmet from southern Italy. Castellani Collection, Bronze 2824, British Museum, London, UK”.

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Da valutare ancora nella toponomastica il paese di Galugnano sempre in Salento in provincia di Lecce, non molto distante da Galatina, il cui nome a seguito di questa mia ricerca mi è stato fatto notare dallo studioso salentino Romualdo Rossetti. Galugnano potrebbe essere un toponimo prediale del periodo romano con un nome di persona con radice sempre Gal- interessante in questo studio.

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Da aggiungere poi agli input toponomastici presi in considerazione in questo studio anche il fiume di Galatena che è praticamente a pochi passi da Gallipoli a Nord, sulla costa, con nell’entroterra Galatone. Era un fiume dove le imbarcazioni si avvicinavano per fare scorte d’acqua potabile. Praticamente una sorgente costiera.
Lì si osserva sulla costa rocciosa e bassa un complesso difensivo originariamente chiamato “Torre del Fiume” (di Galatena), leggo, una torre originariamente costruita nel ‘600 per difendere le acque dolci del fiume dalle scorrerie dei pirati, viene oggi chiamata “Le Quattro colonne” per la forma assunta dal complesso fortificato a seguito dei crolli che hanno visto restare in piedi i quattro torrioni posti agli spigoli del complesso difensivo a pianta quadrata.
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Il paese di SanNicola nell’immediato entroterra di Gallipoli, come mi ha fatto gentilmente notare lo studioso Domenico Chirizzi, aveva toponimo originario “Rodogallo”.
Anche qui l’etimologia proposta è quella che cerca di cancellare un etnonimo legabile ai Galli/Celti e il continuo uso della nobilitante aggettivo greco per bello, kalòs, e quindi la proposta etimologica “luogo delle rose belle”.
Osserviamo che “rodo-” dal greco può indicare le rose ma anche una colorazione rossa.
Ok per Calimera (paese della provincia di Lecce, più in particolare della relitta Grecia salentina, abitata da griki, i salentini parlanti oltre al dialetto romanzo anche il dialetto grecanico salentino, il griko detto localmente), dal greco “bel posto” o “buongiorno”, ma qui nel gallipolino, vediamo prevalere la consonante g alla lettera c.
Un po’ gli stessi tentativi etimologici dei locali per Gallipoli, immaginando un etimologia greca da “città bella”, anziché pur in greco “città dei Galli”.
Così per Galatina la proposta etimologica dei locali di leggervi un origine etimologica dal Greco “bella Atena”.
E per Galatone? Si farà lì ricorso al Greco “gala” latte. Ok, ma siamo sempre in quei dintorni di Gallipoli!
Che dire si percepisce la forzatura di questi tentativi etimologici, e un sottostante ripugnare l’ipotesi etimologica più semplice e onnicomprensiva, quella etnonimica.
Qui leggo di “l’esistenza di un antichissimo casato di Gallipoli, poi estinto, di cognome Rodogaleta”.
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Le trombe di creta affondano la loro origine nel passato mediterraneo ed europeo, interessanti trovo i confronti tra il modello della tromba di creta attorcigliata in una o più spire che troviamo soprattutto nella produzione figulina del sud Salento e certi esemplari archeologici di trombe in creta simili o con estremità a testa di animale/mostro a fauci divaricate presso i celtiberi:

 

Tromba-corno di creta dei celtiberi da Numanzia in Spagna. Decoro a scacchiera. Età del ferro.

 

“strumento di guerra e di uso comune, tipico della Celtiberia, era il corno in ceramica, di cui esistono otto esemplari completi e altri cinquanta rinvenuti nella terra di Arevaci. Lo storico greco Appiano che scrisse delle guerre romane contro i celtiberi parla del corno utilizzato dall’esercito numantino e dai ritrovamenti risulta che si trattava di trombe in forma di circonferenza superata da bocchino e corno di diametro compreso tra 15 e 25 centimetri; alcune di queste corna assumono la forma di mascelle mostruose, come il carnyx ​​dei Galli (n.d.r.: il carnyx è uno strumento musicale a fiato celtico solitamente di forma zoomorfa, il cui uso è attestato tra il 300 a.C. e il 200 d.C. Il fiato percorre lo strumento dal basso verso l’alto per poi uscirne da un’apertura superiore, solitamente a forma di bocca di cavallo, cinghiale, uccello acquatico o di drago). A Numancia (antica roccaforte celtibera in Spagna) sono comparsi i resti di un corno a doppia estremità, con un solo bocchino ” (tratto dall’articolo al link).

Il carnyx lo osserviamo ritratto anche su manufatti celtici in Italia: vedi il documentario qui linkato.

“Il sito Numancia ha restituito un gran numero di strumenti musicali, del tipo noto come corni o trombe che sono noti anche da altri siti celtiberici ma in minor numero e varianti tipologiche. Le trombe di Numancia sono aerofoni ultra circolari con bocchino, noti come labrosoni. Tutte le corna in ceramica sono composte da bocchino, tubo e campana. Questo, a volte, adotta una finitura zoomorfa in un modo che potrebbe ricordare le bocche del carnice celtico, sebbene queste ultime fossero sempre in metallo, con un lungo tubo dritto e fossero soffiate con lo strumento posto verticalmente. I suoni sono prodotti dalla vibrazione delle labbra del musicista mentre si appoggiano al bocchino dello strumento, esercitando contro di esso diverse pressioni. I corni celtiberici erano realizzati con grande precisione artigianale, prestando particolare attenzione alla cottura che avrebbe reso il suono del corno adeguato” (tratto dall’articolo al link).

 

Tromba-corno di creta dei celtiberi da Numanzia in Spagna. Età del ferro.

 

“Sappiamo che questi tubi venivano usati per segnalare le diverse manovre dell’esercito sul campo di battaglia. Sono stati utilizzati anche per produrre segnali di pericolo. Un altro uso di cui parlano le fonti romane è quello di produrre tumulto e confusione sul campo di battaglia: un certo numero di questi labrosoni suonati nel momento sbagliato produrrebbe una serie di suoni che, mescolati al suono della battaglia stessa, produrrebbe disorientamento. Potrebbero anche essere usati dalla guardia sui muri come avvertimento di pericolo.

La maggior parte di essi erano decorati a disegno con colore nero minerale, motivi geometrici, segni o simboli, motivi a scacchiera, che non solo li abbellivano e li distinguevano ma, forse, avevano anche l’intenzione di promuovere il coraggio o favorire la fortuna in battaglia. La bocca dentata che simula un animale rappresenta bene la paura che volevano provocare con il loro suono” (tratto dall’articolo al link).

Nel vedere la tromba di Numanzia presso i celtiberi in Spagna, emersa da scavi archeologici e mostrata qui sopra in foto, vien da dire che è come le tipiche trombe-corni di creta del Salento!
Poiché perseguo la pista di una colonia celtica in basso Salento sul versante Gallipolino (Gallipoli-Galatone-Galatina) a partire dagli indizi forniti da Plinio il Vecchio questa similitudine mi intriga!
Le simili trombe salentine vedo che si trovano anche nella ceramica di Grottaglie ma se ho ben osservato avevano una maggiore diffusione come tipologia nel sud Salento a Cutrofiano dove venivano prodotte anche in più di una spira. Nel ‘900 erano ancora oggetti di decoro casalingo, ma avevano perso la funzione di strumento per lanciarsi messaggi tra contadini e famiglie di contadini durante le trasferte nei campi per vari lavori agricoli, ad esempio mi hanno raccontato di tale loro uso nei campi dei Paduli (Nociglia).
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L’enorme Cratere di Vix in metallo prodotto nelle polis della Magna Grecia (forse a Taranto o a Sibari) o a Corinto ma trovato in ambiente celtico d’oltralpe dimostra gli stretti rapporti e scambi commerciali che tra Magna Grecia e mondo celtico si stabilirono nel tempo:
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Qui mi sono interessato dell’aspetto “ipse dixit” delle fonti antiche.
Valutando i manoscritti superstiti e le prime opere a stampa della Naturalis Historia di Plinio, tra errori di copisti e stampatori, non è facile districarsi per stabilire quale fosse la forma originaria del passo pliniano inerente a Gallipoli. Dalla stizza del Galateo contro Plinio possiamo ben dire che nei testi letti dall’umanista salentino egli comprendeva inequivocabilmente che Plinio volesse attribuire Gallipoli ai Galli Senoni. La versione studiata dal Galateo verosimilmente riportava la dicitura “Senonum Gallipolis“.
Altre versioni della Naturalis Historia sono state addotte dagli oppositori odierni, al seguito del Galateo, dell’idea di Galli a Gallipoli, per proporre invece la correzione “Senum, Callipolis“. Nella versione “Senum” e nell’ipotesi di Senum staccato concettualmente da Gallipoli si crea poi il problema di ubicare questa “Senum“; una città (oppidum) dal nome Senum (di cui non vi sarebbero altre fonti e attestazioni ad oggi) tra Taranto e Gallipoli lungo la costa? E qualcuno ha pensato di ipotizzarla a Porto Cesareo. Al momento la citazione di una città dal nome Senum in quell’area non trova altri possibili riscontri nelle fonti antiche e archeologiche.
E’ stata proposta persino la correzione “salentinorum Callipolis“, forse pensando che così Plinio avesse voluto distinguerla dalla città omonima Gallipoli/Callipolis presente nel nord-ovest dell’Anatolia sul mare?
In “Topografia istorica del Regno di Napoli” edita nel 1818 per la voce Gallipoli possiamo leggere tutti i tormenti che il passo pliniano ha dato agli studiosi che si sono interrogato sul toponimo della città.
Riguardo ad Anxa essa è da leggersi in Plinio come il nuovo nome di Gallipoli al suo tempo, così come leggo in alcune traduzioni di studiosi, o si deve leggere come se Plinio volesse dirci che Anxa è il nome più antico cui poi si è sovrapposto il nome Gallipoli?
Anxa mi suona come un toponimo più messapico. Il nome di un insediamento portuale correlato alla messapica Alezio nell’entroterra immediato come molti ritengono.
Riporto un possibile passo pliniano integrato delle varianti:
«in ora vero Senum/Senonum, Gallipolis/Callipolis, quae nunc est Anxa»
Dei due toponimi è sopravvissuto a noi Gallipoli e non Anxa, motivo per cui non sarebbe da immaginare una traduzione che veda Anxa come il nome più antico noto a Plinio dalle sue fonti, cui poi egli ci dice si è sostituito il nome Gallipoli in tempi a lui più prossimi?
In tal caso per avvicinare più a questo costrutto la frase pliniana:
“in ora vero – est Anxa – quae nunc – Gallipoli/Callipoli, – Senum/Senonum”
La conformazione della costa di Gallipoli certo suggestivamente ci richiama il concetto dell’ansa e del seno che paiono echeggiare proprio nei termini Anxa e Senum.
Inoltre mi piace sottolineare all’attenzione in questa discussione come già Plinio conosceva e cita nella sua opera la città di Senigallia (nei pressi di Ancona) sul mar Adriatico (in Plinio “Senagallia”).
Tale città è così chiamata proprio dall’etnonimo dei Galli Senoni lì stanziati.
Propongo il paragone con il toponimo Senigallia, già esistente al tempo di Plinio, anche magari per capire il perché qualche erudita fece passare, se così avvenne, da Senum in Senonum il testo inerente Gallipoli nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio!
Può essere dunque interessante in merito alla etimologia di Gallipoli, che Plinio par riportare alla presenza dei Galli Senoni, un paragone con il toponimo della città di Senigallia, anch’essa sulla costa ma sul mar Adriatico e nelle Marche. “La zona di Senigallia costituisce il confine linguistico fra le lingue gallo-italiche e i dialetti italiani mediani. (…) Il nome Senigallia fa riferimento ai Galli Senoni che nel IV secolo a.C. fondarono il primo nucleo cittadino”.
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Ci troviamo di fronte ad un caso in cui almeno apparentemente l’auctoritas dei classici entra in contraddizione con sé stessa? Refuso involontario di qualche copista?
Fatto sta che Plinio par la dica “Senonum Gallipolis” e chiamarsi anche con altro nome “Anxa“.
Pomponio Mela scrive “urbs Graia, Callipolis”, dove Graia si può tradurre Greca.
E Dionisio/Dionigi di Alicarnasso racconta un mito di fondazione/occupazione che la collega a Tarantini e Lacedemoni, che però non è un mito vergine della sola Gallipoli in quanto è praticamente identico ad un mito di fondazione di Metaponto.
Testo ”Le Antichità Romane” di Dionigi di Alicarnasso.

 

Da ”Le Antichità Romane” di Dionigi di Alicarnasso.

 

Un Leucippo vi è anche nei miti di fondazione di Metaponto:

 

Un Leucippo vi è anche nei miti di fondazione di Metaponto.
Bisogna considerare il secolo in cui compare questo mito di Leucippo a Metaponto. Se non sbaglio dovrebbe essere rappresentato persino sulle monete di Metaponto questo Leucippo.
Mentre altrettanto non accade a Gallipoli, di cui è pure dubbio se abbia mai battuto moneta, qualcuno vorrebbe attribuirgli le monete messapiche con la scritta GRAXA/GRA, ma sono state trovate in altre zone e non tanto a Gallipoli. Poi se fu colonizzata da Taranto, e prima era di Alezio, non ebbe mai una sua indipendenza da battere moneta propria.
E poi sulla Mappa di Soleto GRAXA è più ubicata in zona Porto Cesareo, che a Gallipoli.
Inoltre il nome Leucippo, ho letto da qualche parte, è stato scelto o coniato proprio per contrastare un nome mitologico già presente a Metaponto, con radice richiamante quello l’ombra e non la luce/bianco come invece in Leucippo.
Ma sono soltanto spunti che metto qui e che ho letto velocemente, meritevoli di maggiori approfondimenti.
In ogni caso è interessante il discorso del medesimo mito ed eroico personaggio che potevano utilizzare genti elleniche per affermare il possesso di più territori.
Così come ad esempio Atene utilizzava il mito di Teseo, suo eroe patrio.
Per capire come la questione-querelle dei Galli in Salento non sia una mia boutade ma da parte mia la ripresa di una questione che per secoli ha interessato gli studiosi locali e non, finché è stata poi malcelata andando persino a proporre di correggere il passo di Plinio il Vecchio, ecco qui uno screenshot da un testo del ‘500 dove, aspetto questo che apprezzo, anziché andare a dibattere se l’una o l’altra tesi, galli o greci, con la saggezza di chi sa che vi è sempre una fonte di verità nei dati, (io aggiungo persino negli errori poiché permettono di studiare il soggetto che li compie, vedi per esempio i lapsus freudiani), con approccio pertanto eclettico-sincretico, le si prendono entrambe per vere e si discorre su chi vi giunse lì prima o dopo, se i Galli o i Greci. Mi sono imbattuto in questo testo per caso, cercando altro:

 

Da ”Descrittione di tutta Italia”, di f. Leandro Alberti bolognese, del 1568.

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Come le origini della città di Gallipoli altrettanto dibattuta è poi la questione della famosa fontana monumentale di Gallipoli detta come ellenica/greca, e chiamata “Fontana greca” ma per la quale si scontrano due posizioni degli studiosi, quelli che la dicono di base un’opera ellenistica del III secolo a.C. che subì poi forti restauri e coloro che invece la dicono un manufatto rinascimentale. Si osservano pare due cariatidi e due telamoni.

 

Qui senza prendere posizione tra le due fazioni osservo solo che di certo essa è più antica dell’epoca in cui sappiamo che fu restaurata-consolidata e che l’elemento delle cariatidi non sarebbe insolito in ambiente greco-messapico salentino (vedi le famose cariatidi ellenistiche di Vaste e Castro), né tantomeno in ambiente greco siracusano dove ritroviamo cariatidi e telamoni (famosi lì i telamoni di “tipo siracusano” detti che hanno l’aspetto di satiro vestito di un corto gonnellino di pelli di capra, lo stesso che portavano gli attori quando interpretavano il soggetto a teatro).

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I Greci chiamarono i Celti anche Galati dal termine greco “gala”, il latte, per caratterizzare quel gruppo etnico dalla pelle più chiara, lattea, rispetto alla loro tendenzialmente più scura mediterranea. Da Galati deriverebbe poi il romano termine Galli.
Le regioni in cui questi Celti si stanziarono presero da essi il nome ad esempio di Galazia in Turchia (cui si correla la Lettera di San Paolo ai Galati nel Nuovo Testamento), Galles in Britannia, Galizia nel nord-ovest della Spagna, Gallura nel nord della Sardegna dove i Celti giunsero dalla vicina a Corsica.
Insomma sarebbe veramente un’anomalia che poi tutti i nostri toponimi salentini riconducibili ai Galati e lo stesso cognome Galati fossero semplicemente da correlare direttamente al termine “latte”, terre dove si produce molto latte, persone che producono latte dall’allevamento, come vorrebbero alcuni studiosi locali, e non invece ai popoli dalla pelle chiara come il latte, i Celti appunto!
Da capire ulteriormente dal punto di vista etimologico l’eventuale legame tra l’etnonimo Galli e lo zoonimo gallo/gallina.

Testi tratti dal mio post facebook del 3 gennaio 2020 e dai miei commenti ad esso con integrazioni successive.

 

 

4 commenti su “I CELTI-GALLI-GALATI in SALENTO?

  • Marzo 12, 2021 alle 10:14 pm
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    Un’ipotesi intrigante, argomentazione ineccepibile e ricca di “pezze d’appoggio” plausibili, degna di esser presa nella debita considerazione,

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    • Marzo 22, 2021 alle 2:35 pm
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      Grazie, mi sono limitato a dar fiducia ai classici in partenza e poi a ricercare possibili “pezzi” di un puzzle semi-dimenticato con un’indagine a 360°.

      Rispondi
    • Novembre 15, 2021 alle 8:10 pm
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      Many thanks for this nice comment!

      Rispondi

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