Il “Bestiario” del mosaico medioevale di Otranto: approfondimenti su alcune creature raffigurate (mostri, animali, piante, ecc.)
Il “Bestiario” del mosaico medioevale di Otranto:
approfondimenti su alcune creature raffigurate (mostri, animali, piante, ecc.)
dagli studi di
Oreste Caroppo
Seguono le schede sulle varie creature qui analizzate, ma molte altre ne annovera l’enorme mosaico:
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Indice
L’Orice?
Il Gufo reale?
Il Basilisco (il Camaleonte teratomorfizzato)?
La Foca monaca?
La Capra selvatica egagro?
La Leucrota?
L’antilope Saiga delle steppe?
Il Daino o il Capriolo?
I Dragoni (e serpenti)
Il Coniglio e la Lepre
La Cicogna bianca, i Serpenti e i Ricci
La “Cilona de terra” la testuggine di terra
L’Orso?
L’Elefante e il Topo/Ratto? O uno Scoiattolo?
Il Toro dendroforo
Dromedari e forse anche Cammelli
Il Corvo, la Colomba e l’Ulivo
L’accoppiamento e il parto cruento delle “Vipere” secondo i bestiari
“Il Granchio e il Serpente” e “il Gallo e la Volpe” dalle fiabe di Esopo, i Pavoni e l’Ippocampo
La “Cucuzza” (zucca bottiglia anche lunga)?
La Vite coltivata ad alberello leccese?
La Palma da dattero?
Il Fico (Ficus carica) e il suo frutto proibito nell’ Eden?
La Manticora nei bestiari (o sfinge egizia)
La Sfinge greca
La Pistrice/Ketos o il Pesce mostruoso?
Il Cinghiale
I Felidi
L’Unicorno
Il Grifone mitologico
Lo Struzzo
La Cavalletta/Locusta mostruosa gigante?
APPENDICI
L’Aquila nel mosaico della Cattedrale di Brindisi
Il Pollo sultano nei mosaici di Casaranello a Casarano
I Funghi rappresentati nella tela di Sant’Antonio Abate a Zollino e forse anche nel mosaico della Chiesa di Casaranello a Casarano
Il Bottone di mare nei mosaici di Aquileia nel nord Adriatico?
La Tartaruga di mare in un dipinto a Gallipoli
La razza del Cane Cirneco nel mosaico della Cattedrale di Brindisi?
L’Asino nel mosaico della Cattedrale di Brindisi?
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L’Orice?
Il Gufo reale?
L’uccello strigiforme ritratto può essere o della specie Gufo reale o al limite della specie Gufo comune (Asio otus), ma per le caratteristiche dei ciuffetti per come ritratti maggiori le somiglianze con il Gufo reale che li ha disposti orizzontalmente e relativamente grandi, mentre son verticali nel Gufo comune. Son di minori dimensioni poi nel Gufo di palude (Asio flammeus) pur presente in Salento, e presenti sempre verticali anche nell’Assiolo (Otus scops), comune in Salento, ma che ha comunque corporatura assai minuta.
Vedi il video: “perché i gufi hanno i ciuffetti“:
Sebbene un gufo reale così ben raffigurato nel mosaico idruntino lasci perplessi, tanto da chiedersi se non sia una aggiunta successiva al medioevo da parte di qualche restauratore più prossimo al nostro tempo, mi piace ricordare invece come già nel Paleolitico europeo abbiamo rappresentazione del Gufo, animale dalle ancestrali suggestioni magiche. Nella Grotta Chauvet nella regione francese dell’Ardeche troviamo raffigurato quello che molti autori ritengono essere un Gufo reale (Bubo bubo) colto in un momento di allarme con i “cornetti” sollevati e con il capo ruotato. L’opera è stata realizzata incidendo con le dita l’argilla che, consolidatasi, ha conservato l’immagine sino ad oggi. Il Gufo reale della grotta Chauvet rappresenta un unicum in tutta l’arte paleolitica e con i suoi 30 mila anni circa d’età è anche la raffigurazione di uccello più antica attualmente conosciuta:
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Il Basilisco (il Camaleonte teratomorfizzato)?
Si tratta di una creatura mitica molto radicata nella cultura del Salento.
E’ nello stemma del paese di Sternatia:
Sempre a Otranto:
Illustrazione del basilisco:
“Mustela nivalis lutando contra um basilisco, em forma de galo com cauda de réptil, gravura de Wenceslaus Hollar, século XVII”.
Troviamo il Basilisco galliforme anche scolpito nella “pietra leccese” tra i ricchi decoritra i ricchi decori della facciata della Basilica barocca di Santa Croce a Lecce realizzata tra i secoli XVI e XVII d.C.:
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Forse un basilisco appare già in Salento nei vasi apuli a figure rosse, ecco il rarissimo caso su un cratere che viene dal corredo funebre di una tomba messapica scoperta a Squinzano. Vedi per approfondire il mio articolo: “Cosa è il “MOSTRO DI SQUINZANO” che emerge da un profondo passato?!”.
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Ulteriore raffigurazione dal web del basilisco, qui con quattro zampe come il camaleonte:
Basiliskenzeichnung aus der Chronik des Aachener Bürgermeistereidieners Johann Janssen.
Questo animale dei bestiari pare derivi dal camaleonte comune mediterraneo presente anche in Salento, che ne sia una sua teratomorfizzazione, ovvero trasformazione in animale mostruoso.
Alcune sue raffigurazioni ben ricordano proprio il camaleonte, come questa:
Melchior Lorck: Basilischus (basilisco), Radierung, 1548
Nel Salento del ‘600 già si effigiavano camaleonti comuni mediterranei sulle facciate dei palazzi con grande conoscenza naturalistica dell’animale che oggi comunque vive in Salento spontaneo.
Per approfondire sul camaleonte nel Salento: “Il CAMALEONTE SALENTINO, il mitico fiabesco “FASCIULISCU” della tradizione magliese, da tutelare con i suoi habitat e ridiffondere in natura massimamente! Contro ogni meschino tentativo di demonizzazione da razzismo verde di questa specie comunque iper-mediterranea!“.
Un video con la specie di camaleonte del Salento anche per vedere l’eiezione della sua lunga lingua retrattile:
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La Foca monaca?
La foca monaca nel mosaico di Otranto?
Mi sembrava alquanto strano che il grande mosaicista Pantaleone, uomo dotto e curioso, come semplice e diretto nello stile espressivo, non fosse stato colpito dalle foche monache di cui era ricca la costa otrantina nel tempo in cui visse. Il mosaico pavimentale della Cattedrale lo realizzò tra il 1163-1165. Pertanto tornato a visionarlo, proprio in una scena di animali marini, tra vari pesci, ecco che noto questo strano essere, qui nella foto in basso a destra! Cosa può essere? Un mostro zoo-antro-morfo, come altri esseri chimerici prossimi, ma poiché compaiono anche animali non mostruosi che popolano i mari, potrebbe essere proprio una foca dal corpo idrodinamico ed estremità pinnipedizzate?! O un mostro antropo-foca.
E’ un tripudio della fantasia e conoscenza medioevale, ma anche un grande libro della Natura, ed anche in parte di quella proprio salentina del medioevo, il grande mosaico idruntino! L’immagine della possibile foca è nella navata centrale quasi al centro di questa, nella porzione destra per chi entra nella Cattedrale Otrantina. E’ la prima volta, a quanto mi risulta, che si propone di vedere una foca monaca (vitello di mare anche chiamata) nel corpo di quel grosso essere marino del mosaico dall’estremità bicaudata, come bicaudata appare la foca nella realtà, per la forma a pinna di ciascuno dei suoi due piedi posteriori. (Immagine e didascalia da un mio post facebook del 3 maggio 2014)
Per approfondire sul ritorno della foca monaca in Salento e sul passato di questa specie nel Mediterraneo e i Salento clicca qui, un mio post facebook dedicato all’argomento, con tanti dati anche nei miei commenti ad esso.
Per ulteriori approfondimenti sulla scena complessiva cui appartiene la creatura qui analizzata dal mosaico idruntino rimando anche a questo articolo “La scoperta dell’ “Apocalisse” nel mosaico medioevale di Otranto?“.
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La Capra selvatica egagro?
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La Leucrota?
Di che specie si tratta?
C’era anche una tassonomia nei bestiari medioevali con comunque alcuni caratteri iconografici ed etologici delle bestie pseudo-reali.
E’ sulla sinistra immediatamente dopo l’ingresso principale della navata centrale della Cattedrale di Otranto, mosaico pavimentale del XII sec. d.C. accanto alla scena dei due guerrieri-cavalieri duellanti con scudi tondi e bastoni clavati.
Per tanti era solo un cavallo imbizzarrito, ma di cavalli nel mosaico ce ne sono e tutti hanno il normale zoccolo di cavallo. Ergo questa semi-creatura, ritengo, protrebbe essere qualcosa altro.
Che cosa?
Provate a sfogliare i bestiari e proponete!
L’antilope Saiga delle steppe?
Compare una altra sorta di antilope anche nel mosaico sul pavimento dell’abside della Cattedrale di Otranto.
Ma di che specie di antilope si tratta?
Se non un’altra antilope orice, come quella prima discussa per la navata centrale nella zona del presbiterio, forse una cervicapra indiana o una saiga delle steppe euro-asiatiche?
Vediamo questo animale bicornuto, accovacciato vicino a due scimmie nel mosaico idruntino, come speranzoso, con la lingua di fuori, di sottrarre a quei primati il frutto che gustano; questa scena è adiacente a quella che abbiamo identificato come l’Adorazione dei Magi, potrebbe pertanto far parte di una sorta di tocco di esoticità per il corteo dei Magi giunti da Oriente? Colpisce l’anomalo naso dattiliforme di questa antilope, che non a caso abbiamo battezzato qui come “antilope nasona”, è pur vero che nasi simili sporgenti dal profilo appaiono anche in figure di tipo umano nel mosaico (vedi scene dell’Inferno nella navata sinistra) o in animali come il mostro marino bicaudato/foca nella navata centrale,
ma non possiamo qui non osservare come l’antilope nota come Saiga delle steppe (nel Pleistocene assai anche diffusa in Europa), il cui nome scientifico è Saiga tatarica, abbia proprio a sua peculiare caratterizzazione un naso assai prominente come una sorta di corta proboscide.
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Il Daino o il Capriolo?
Il daino o il capriolo nel mosaico pavimentale del XII secolo d.C. nell’abside della Cattedrale di Otranto, catturato da un dragone?
Nel mosaico compaiono cervi, anche i grandi dimensioni, con palchi, anche indicati dal nome con l’epigrafe “cervus”, pecore, capre, ma non sono mai maculati.
In natura sono maculati i piccoli di capriolo, presenti nella fauna del Salento del tempo, ma da piccoli non hanno palchi.
Tra i cervidi mediterranei solo i daini (Dama dama) hanno contemporaneamente palchi e mantello maculato da adulti (i palchi compaiono nei maschi).
Se invece che il daino che ha contemporaneamente da adulto palchi e mantello pomellato, i suoi palchi in natura sono decisamente più vistosi come quelli del cervo ma più pieni, ben diversi anche nel modo di estendersi nello spazio rispetto alla testa in confronto a quanto nel mosaico.
Considerando questa chiave di lettura dell’artista, che con una rappresentazione, che con pochi simboli, voglia far capire che cosa intende, allora potremmo dire ha voluto farci pensare ad un piccolo di capriolo, ma nel capriolo quando presenti i palchi son in proporzione alla testa meno estesi di quanto invece appare per il cervide nel mosaico sotto analisi.
Fatto sta che la soluzione non è di facile soluzione, di certo si può dire: l’artista ha voluto comunicarci che non è un cervo, ma sempre un cervide. Nel ‘600 ancora i daini (chiamati anche damme) erano presenti nel Salento liberi come i caprioli e cervi. E’ presumibile fosse idem nei secoli del mosaico idruntino qui sottoposto a studio. Ergo lì o un daino o un capriolo. Per approfondire sulle faune del Salento nei secoli passati rimando a questo mio approfondimento: “Il CERVO a MAGLIE e nel SALENTO tutto e le MERAVIGLIE di una Natura dalla BIODIVERSITÀ ricchissima perduta che si può e si deve fare tornare!“.
Un Drago con zampe e alato lo troviamo anche scolpito nella “pietra leccese” tra i ricchi decori della facciata della Basilica barocca di Santa Croce a Lecce realizzata tra i secoli XVI e XVII d.C.:
E il mondo naturale fornisce a chi lo osserva anche suggestioni teratologiche in tal verso; in tema un mio post su alcuni esemplari teratologici dalla collezione scientifico-naturalista del Liceo Capece classico e sperimentale di Maglie (presso cui ho frequentato l’indirizzo sperimentale scientifico), interessanti anche i contributi nei commenti al post:
Il Coniglio e la Lepre
Vediamo un lagomorfo (coniglio o lepre) anche negli interstizi decorati per horror vacui tra i clipei dedicati ai vari mesi dellanno nel ciclo dei mesi, “le opere e i giorni” anche detto, nella navata centrale; vedi qui in foto in alto a destra:
La Lepre europea/appenninica fa ancora ben parte della fauna salentina, bisognosa comunque di cospicui ripopolamenti a causa della pressione venatoria.
Il Coniglio è allevato in Salento oggi, anche con razze dette paesane nei colori assai ricordanti il Coniglio selvatico europeo (Oryctolagus cuniculus) progenitore del domestico. Nel Pleistocene la specie selvatica fu presente cospicua in Salento (qui nell’elenco delle faune fossili da un sito di Avetrana ad esempio, ma idem a San Sidero a Maglie). Nei secoli recenti i Conigli venivano allevati dalle genti salentine costiere su opportune isole prive di predatori, tanto che l’Isola detta Grande di Porto Cesareo conserva ancora il toponimo sinonimo Isola dei Conigli (nell’ ‘800 lo zoologo salentino Giuseppe Costa così ci informa di questa presenza vai al link, mentre a questo link annovera tra gli animali domestici allevati in Salento il coniglio Girolamo Marciano studioso vissuto tra il XVI e il XVII secolo d.C.). Tali isole di Terra d’Otranto diventavano così delle dispense a cielo aperto per pescatori e contadini. Anche le Capre in vari isole italiane venivano allevate in tal modo allo stato brado, tanto che il toponimo di diverse isole deriva da quello della capra. Per ulteriori approfondimenti sui conigli in Salento e la necessità di reintrodurli in natura rimando a questo mio post facebook e ai miei commenti ad esso (i Conigli sono anche importante base per l’alimentazione della Lince pardina, se ripopolati ciò potrebbe favorire anche una diffusione anche della Lince pardina loro predatrice; o ridiffusione possiamo dire della Lince pardina in quanto studi paleontologici stanno dimostrando la presenza in passato in Puglia non solo della Lince comune ma anche parrebbe della Lince pardina):
La Cicogna bianca, i Serpenti e i Ricci
Accanto si vede anche il famoso “Asino arpista” e un’altra Cicogna bianca:
Anche sul portale di ingresso di Palazzo Lanzilao del XVII sec. d.C. nel centro storico di Lecce vediamo scolpito il motivo della Cicogna che preda il serpente:
Il paese di Cerignola (nord Puglia) ha nello stemma comunale una Cicogna che uccide un serpente.
Lo stemma comunale riproduce una cicogna che spezza un serpente, in ricordo della leggenda che narra la salvezza della città ad opera delle cicogne durante un’invasione di serpenti.
Il motivo del riccio che preda il serpente l’ho scovato anche anche in bassorilievi nel centro storico di Soleto:
In quel contesto architettonico quella rappresentazione del riccio che azzanna il serpente sulla parete esterna di un’ abitazione ha un valore magico apotropaico di scacciata del male. Buonaugurale quindi.
Nei casi sin qui analizzati per il Salento aspetti cromatici e morfologici ci permettono di parlare di Cicogne.
Nell’antico Egitto pare che una funzione simile per contrastare i serpenti, funzione reale e forse anche dai risvolti simbolici, era attribuita agli Ibis sacri lì al tempo assai diffusi, (oggi piacevolmente in diffusione anche in Italia). Lo studioso Scipione Mortato ci riporta infatti dei dati su «una tradizione orale ebraica secondo cui Mosè, in gioventù, aveva guidato una spedizione militare egiziana nel Kush fino alla città di Meroë, allora chiamata Saba. La città fu costruita vicino alla confluenza di due grandi fiumi ed era circondata da un formidabile muro e governata da un re rinnegato. Per garantire la sicurezza dei suoi uomini che attraversavano quella regione desertica, Mosè aveva inventato uno stratagemma in base al quale l’esercito egiziano avrebbe portato con sé cesti di carici, ciascuno contenente un ibis che sarebbe stato liberato quando si fossero avvicinati al paese del nemico. Lo scopo degli uccelli era di uccidere i serpenti mortali che giacevano in tutto quel paese. Dopo aver posto con successo l’assedio alla città, la città fu infine soggiogata grazie al tradimento della figlia del re, che aveva accettato di consegnare la città a Mosè a condizione che egli avrebbe consumato un matrimonio con lei, sotto la solenne certezza di un giuramento.» (tratto da “Meroe nella leggenda ebraica“). «L’Ibis, che uccide le cose striscianti mortali» (da “De Iside et Osiride” di Plutarco).
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La “Cilona de terra” la testuggine di terra
Ecco di seguito dal mosaico una rappresentazione della testuggine di terra, “cilona de terra” in dialetto magliese salentino:
Nel Salento la tipica testuggine di terra è quella della specie Testudo hermanni, probabilmente la stessa raffigurata nel mosaico idruntino, allevata nei giardini privati per tradizione e presente anche in libertà in passato più di oggi (urgono ripopolamenti!):
In passato non è escluso vi fossero anche due altre specie già diffuse ancora oggi insieme alle T. hermanni nelle vicine isole greche come Corfù, e ciò la Testudo graeca e la Testudo marginata – sarebbe il caso di permettere una maggiore diffusione in natura libere e presso i privati di queste tre specie. Ci sono zone della Calabria in cui ancora la marginata vive selvatica.
Leggo in questo studio “La Testuggine terrestre salentina” che La Testudo marginata in Puglia era chiamata “Cilona carbonaria“, probabilmente per il colore solitamente più scuro del suo carapace negli esemplari adulti, contrariamente a quello con più estese parti gialle che caratterizza la più autoctona e diffusa in Puglia (Salento incluso) Testudo hermanni. Si parla nell’articolo anche del ritrovamento in Italia di qualche Testuggine greca.
I Greci usavano il carapace delle tartarughe come cassa di risonanza per strumenti musicali a corde!
L’Orso?
La rappresentazione dell’orso la troviamo in una ruota nel presbiterio, nel mosaico pavimentale del XII secolo d.C., nella Cattedrale di Otranto:
Anche se la rappresentazione non è di grande maestria artistica notiamo come il mosaicista abbia messo in evidenza ad identificazione della specie le zampe dell’animale, l’orso è infatti un plantigrado, gli Ursidi sono infatti dei mammiferi che, come gli Ursidi, i Mustelidi e i Procionidi, nel camminare poggiano a terra con tutta la pianta del piede, carpo e tarso compresi; plantigrado contrapposto a digitigrado e a unguligrado.
Nella Cattedrale di Otranto, nella porzione basale del mosaico pavimentale del XII secolo d.C. nella navata destra, (vedi foto di seguito), vediamo dei canidi (lupi o cani, specialmente cane l’esemplare con collare, anche se nel mosaico compaiono a volte collari e tatuaggi decorativi nelle creature animali), una manticora (vedi oltre sulla manticora il paragrafo dedicato), e un animale in basso a destra che potrebbe essere un orso, si vede solo la testa, (altre ipotesi che sia un maiale o un tasso, ma questa ipotesi meno probabile perché il tasso, pur presente nella fauna salentina anche mangiato dai salentini, è un animale più piccolo e dalle orecchie più contenute).
Nel Medioevo pare che degli orsi bruni (Ursus arctos stessa specie che vive in Appennino, Alpi e Balcani) fossero tenuti nel fossato di Torre del Parco a Lecce, ancora oggi a Valona sull’altra sponda del Canale d’Otranto degli Orsi bruni si osservano in un serraglio in città, ciò testimonianza di quanto nella nostra area geografica gli Orsi erano comunque comuni in epoca storica, come nel Paleolitico.
Nel Salento troviamo il toponimo di Torre dell’Orso; nel Nord Puglia nel pre-Appennino Dauno il toponimo della città di Orsara di Puglia. Ancora presente il cognome Orsini in Salento.
Troviamo anche l’orso in un tondo nel mosaico pavimentale della metà del XII secolo nella Cattedrale di Sant’Evasio a Casale Monferrato, vi compare un uomo che lotta contro un orso:
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L’Elefante e il Topo/Ratto? O uno Scoiattolo?
Per l’identificazione degli elefanti nessun problema, ben più difficoltoso capire cosa fosse l’animale rappresentato in basso. Ho pertanto indetto anche una collettiva partecipazione su Facebook con un post per tentare di capire che animale si sia voluto lì raffigurare.
Si è così battuta la pista che si tratti di un topo o ratto, sebbene le sue dimensioni siano esagerate e sebbene sia molto diverso dal topo che in giuste proporzioni è raffigurato vicino ad un gatto nel medesimo mosaico:
Per tale ipotesi importante una proposta esegetica in merito di cui mi hanno messo al corrente gli studiosi Francesco Corona e Toni Albano che ringrazio, ovvero quel roditore sarebbe un riferimento alla leggenda diffusa nel medioevo in ambito cristiano di Barlaam e Josaphat che portava nella Cristianità occidentale la storia di Buddha, in particolare un riferimento alla parabola del viandante e dell’unicorno narrata in tale leggenda che divenne nel medioevo un motivo artisticamente raffigurato in miniature, bassorilievi ed altre opere d’arte: “Coloro che desiderano i piaceri materiali e permettono che le loro anime muoiano di fame, sono simili a un uomo che fuggendo dinanzi a un liocorno cadde in un precipizio. Mentre stava precipitando si attaccò con le mani a un arbusto e pose i piedi su un appoggio sdrucciolevole. Ed ecco che vide due topi, uno bianco e uno nero, rodere le radici dell’arbusto a cui stava attaccato e in fondo all’abisso un drago terribile, spirante fiamme, con la bocca spalancata per il desiderio di divorarlo. E su l’appoggio dove teneva i piedi vide quattro vipere che sollevavano la testa. Ma ecco che alzando gli occhi scorse qualche goccia di miele stillar dai rami dell’arbusto; allora, dimentico del pericolo, si abbandonò tutto al piacere di gustare quel miele“.
L’iconografia correlata in Otranto appare in tal caso parzialmente ma sarebbe ugualmente ben possibile riconoscerla, alle radici dell’albero vediamo solo un roditore chiaro. Alcuni studiosi vi hanno visto nei fanciulli nudi raffigurati tra i rami dell’albero e che parrebbero anche cadere e poi impigliarsi ai rami e poi più in basso trovare più solido appoggio su un grosso ramo orizzontale e lì gustare qualcosa da un ramo (forse gocce di miele?) un riferimento a quella parabola. Nella parabola di Barlaam e Josaphat compaiono anche quattro vipere, e nel mosaico quattro vipere compaiono anche a sinistra dell’albero subito dopo il grosso uccello che preda un lagomorfo (coniglio o lepre sopra la scacchiera) e sotto il leone quadricorporeo, nella scena dell’accoppiamento violento di una coppia di vipere e del parto cruento con nascita di altre due vipere, secondo modalità narrate nei bestiari. Si vede anche un piccolo minaccioso unicorno (correttamente con zoccolo diviso in due) nella zona in cui il fanciullo cade:
L’unicorno che intendo è quello qui di seguito indicato con freccia rossa, con frecce arancioni invece indico il fanciullo che pare cadere:
Il punto iconografico è appurare che sia un unicorno, con un solo corno (monocero), e non un qualche bovino che sta caricando e dato che è raffigurato di profilo appaia come con un solo corno. Poi per la posizione del corno son stati magari vincolati dagli spazi. Questa storia della parabola del viandante, che hanno proposto nell’esegesi del mosaico, pare inserita nei ritagli di spazio, e così anche quell’unicorno pare abbia trovato posto in un piccolo spazietto.
Le zampe sono a zoccolo fesso (ossia spaccato in due parti) compatibili con altri unicorni del mosaico. L’animale che gli assomiglia di più per quanto ricarda le corna è il Bufalo mediterraneo. Le corna della capra vanno per lo meno in partenza nella concavità opposta, è invece il bufalo che le ha così:
ma se vedete che ha un solo corno allora è un “unicorno”, un monocero de facto; anche se di profilo, viene da pensare che, se non avessero voluto raffigurare un unicorno avrebbero fatto in modo di farci vedere anche il secondo corno distinto con opportuna rotazione del punto di vista. Ed è rappresentato proprio come infuriato pronto a caricare minaccioso (anche se poi la resa del volto pare ilare) come dovrebbe essere secondo la leggenda del viandante e dell’unicorno! Il bufalo è diffuso anche in Asia ed è plausibile che l’unicorno della leggenda di Barlaam sia stato raffigurato come bufalo infuriato e unicornizzato.
Forse nel rappresentare l’animale cornuto-unicorno della leggenda l’artista comunque si è ispirato al bufalo nostrano del sud Italia già allevato al tempo? In questo disegno lo vediamo ritratto il bufalo nel ‘700 a Policoro:
Se immaginate questo bufalo con la testa abbassata pronto a caricare visto di profilo ottenete proprio la vista della bestia otrantina qui in analisi:
Ma il bufalo è diffuso anche in Asia. Arriviamo al compromesso esegetico che l’unicorno della leggenda di Barlaam sia stato raffigurato come bufalo infuriato e unicornizzato a Otranto? Non è da escludere anche perché come possiamo capire guardando queste due immagini di miniature medioevali immagine-1 e immagine-2 tante diverse forme di corno son possibili per il monocero unicorno, ciò a dire che non vi era un canone preciso per come raffigurarlo.
Passando però ad analizzare la coda dell’animale essa è una codina, è più da caprone quindi. Ma le corna non son da caprone. Se data la cosa non è un bufalo, quell’animale in conclusione potrebbe essere proprio un unicorno (con corpo da caprone e corno da bufalo verso dietro come ben possibile dalle poliedriche raffigurazioni dell’unicorno)!
Inoltre nell’abside del mosaico una possibile antilope è mostrata di fianco e pure si fa in modo di fare vedere i due corni distinti. Quindi se qui si fosse voluto non rappresentare un unicorno si sarebbe fatto in modo di non fare apparire un solo corno anche se l’animale è di profilo, viene da pensare
Sulla base di questo input ho cercato raffronti con esplicite rappresentazioni del tempo medioevale di quella parabola. Da questa miniatura medioevale
capiamo come la postura dello strano animale di Otranto sotto l’elefante, che divarica le fauci proteso verso le radici dell’albero da rosicchiare, è compatibile proprio con quella di un topo, capiamo anche come da una cattiva copia di modelli ne sia derivata la strana forma della punta della coda, e riconosciamo il topo/ratto in quelle zampe anteriori penzolanti seppur protese in avanti e ci ricordiamo che spontaneamente quando si imita ad esempio in maschere di carnevale il topo/ratto si tengono le braccia in avanti e penzolanti a imitazione evidentemente dell’animale quando si alza sulle zampette posteriori.
Si aggiunge a Otranto l’associazione topo/elefante conseguente all’uso degli elefanti come dendrofori. Non sappiamo se un abbinamento casuale o mosso da archetipi o scelte coscienti a monte del progetto musivo, certo è che in Occidente compare la leggenda dell’elefante che teme i topi, mentre in India nell’iconografia induista del Dio Ganesha, come mi ha fatto osservare lo studioso Franco Meraglia che ringrazio, compare sempre un topo a lui associato, anche di dimensioni relativamente notevoli o altre volte assai minuto, e non vi è traccia del concetto di terrore per il topo da parte dell’elefante. A Otranto poi gli elefanti non son mostrati spaventati per la presenza del grosso roditore,
Mi chiedo allora se la leggenda dell’elefante che ha paura del topo, circolante in Italia, non derivi dall’iconografia induista del Dio Ganesha, o forse più semplicemente entrambe derivano da un archetipo che porta ad accostare come in un simbolo di opposti complementari il mammifero terrestre notoriamente più grande con quello notoriamente più piccolo il topo/ratto (il più piccolo credo sia comunque un toporagno). Un simbolo di completezza nell’unione di opposti cui poi si possono dare tanti significati didascalici. L’equilibrio degli opposti complementari.
Troviamo pertanto forse in quella porzione basale del mosaico, tra i tanti temi trattati nella vasta opera musiva, anche degli interessanti riferimenti a quella parabola del viandante e dell’unicorno.
La identificazione di questo topo/ratto è stata comunque assai faticosa. Scherzosamente per quanto è realizzato o conciato male dai restauri poco virtuosi dico che assomiglia ad un piccolo di triceratopo, e vi è chi vi ha visto una mangusta (che vive in Africa), chi addirittura un canguro, quest’ultimo quasi impossibile dato che l’Australia sarà scoperta diversi secoli dopo dagli occidentali, ma dico quasi impossibile perché dall’area pacifica dall’Oriente giungevano rarità anche vive come per questo famoso caso di un pappagallo cacatua australiano (Cacatua sulphurea) giunto alla corte del Re Federico II di Svevia nel sud Italia/Sicilia e raffigurato con una miniatura nel suo trattato sulla caccia col falcone. Per i canguri vi è invece un caso assai enigmatico, ma relativo comunque ai secoli successivi, compare una miniatura di canguro nel capolettera di un manoscritto portoghese risalente al Cinquecento, un secolo prima della scoperta europea del continente, avvalorando così l’idea, se la datazione della miniatura fosse corretta, che i portoghesi avevano scoperto l’Australia prima, ma lo avevano tenuto segreto.
Nota naturalistica: il ratto (Rattus rattus) era dunque già presente nel Salento in età messapica ellenistica! Vedi scavi a Vaste: https://www.academia.edu/1114270/La_fauna_dei_Bothroi_di_Vaste_e_sue_implicazioni_cultuali Contrariamente pertanto ad un’idea, che potete leggere ad esempio in questo link, secondo cui esso è giunto nelle nostre aree al tempo dei crociati: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Rattus_rattus
P.s.: interessante anche la documentazione di resti di Capriolo dallo scavo del sito messapico e datati sempre in età ellenistica.
Si deve invitare ad un migliore rapporto con i Ratti nel territorio, dato anche che la specie Rattus rattus è stata documentata dagli studi degli strati messapici di quel sito archeologico, spiegando come con tutti gli animali bisogna convivere senza ecocidi, anche quando si tratta di specie esotiche naturalizzatesi di recente, ma favorendo forme di equilibrio preda predatore, da qui l’importanza dei gatti liberi nel territorio non sterilizzati!
Per chiudere presentiamo però anche una altra possibile proposta, meno esplicativa di quella del Topo/Ratto, ma non meno suggestiva.
La presenza di un roditore nei pressi di un grande albero ci richiama al mito dell’albero cosmico Yggdrasil della tradizione norrena, al quale è associato uno Scoiattolo che lo percorre in continuazione dalla base alla chioma.
Se nel nostro caso idruntino si trattasse davvero di uno Scoiattolo verrebbe ulteriormente meno un elemento che fa pensare sia raffigurata la parabola del viandante e dell’unicorno, quell’unicorno forse sarebbe davvero una raffigurazione di un bufalo in tal caso, e i fanciulli nudi sull’albero rappresentazione giocose di fanciulli che scalano l’albero, si arrampicano sui rami, siedono a cavalcioni, ne restano impigliati ai rami, si nutrono dei suoi frutti, (forse riferimenti ridondanti ad Adamo e Eva nel Patadiso terrestre, uno stato di spensieratezza che ricorda anche quello di Perceval figlio della Vedona nel romanzo di Chrétien de Troy prima di vedere nella foresta dei cavalieri a cavallo).
Per alcuni dati sugli Scoiattoli nella Penisola italiana rimando a questo articolo.
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Il Toro dendroforo
Un toro dendroforo regge all’inizio del mosaico della navata di sinistra della Cattedrale di Otranto un grande albero sulla sua groppa. L’ho legato a San Luca in un mio studio interpretativo del mosaico di quella navata: https://naturalizzazioneditalia.altervista.org/il-vangelo-di-luca-nel-mosaico-della-cattedrale-di-otranto-nella-navata-sinistra/
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Dromedari e forse anche Cammelli
Un cammello o dromedario:
Troviamo il dromedario anche in un tondo del mosaico pavimentale del 1160 della Cattedrale di Taranto:
Pochi sanno che i Cammelli e/o Dromedari erano allevati ancora nel ‘700 nel Regno di Napoli, ben lo ricorda questo disegno:
Per approfondire rimando a questo mio post facebook e ai miei commenti ad esso.
Un possibile dromedario:
C’è chi vi ha proposto per questo animali dei mustelidi che vivono nel Salento, come la faina che però ha coda troppo lunga o la donnola la cui coda è più piccolina. L’analisi delle zampe dell’animale convince però di più, data la presenza anche si nota di uno zoccolo fesso (diviso in due), nell’identificazione con il dromedario. Magari la suggestione delle zampe basse viene anche dall’abitudine dei dromedari di appoggiarsi per terra e stazionare così a lungo o può esser stata dettata dal limitato spazio a disposizione.
“La terminazione allargata delle zampe è più consistente con quella del dromedario che camminando sulla sabbia cedevole ha bisogno di zoccoli con una pianta più larga per distribuire meglio il loro peso e non sprofondare. Certo, anche la coda è un po’ corta, ma corpo e collo sono praticamente gli stessi di un dromedario” ben ha osservato Marcello Polignano sul post facebook che ho proposto per l’identificazione dell’animale.
“Almeno nelle zampe posteriori, si vedono chiaramente i “piedi” allargati” ha anche osservato Ayoub Monno che ha fatto anche un confronto sinottico:
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Il Corvo, la Colomba e l’Ulivo
E’ la scena legata alla rappresentazione del mito biblico dell’Arca di Noè e del Diluvio Universale. La colomba torna all’Arca portando un ramoscello verde di ulivo segno che le acque iniziano a ritirarsi. Nel mosaico sono rappresentati tanto il corvo quanto la colomba.
Noè, al termine del diluvio universale, lasciò uscire dall’Arca prima un corvo e poi una colomba per verificare se le acque si fossero ritirate. Al primo tentativo, il corvo tornò a bordo e così fece anche la colomba perché la terra era ancora sommersa dalle acque. Dopo sette giorni, Noè fece uscire ancora la colomba che tornò col ramoscello di ulivo, segno che le acque si erano ritirate; dopo altri sette giorni, avendola nuovamente inviata, la colomba non ritornò più testimoniando così che la terra poteva essere nuovamente abitata.
Si tratta di un mito che in realtà deriva da vere e proprio tecniche di orientamento usate dai marinai in antichità. I naviganti, durante i lunghi viaggi a mare di esplorazione e colonizzazione ed in assenza delle attuali tecnologie, osservavano con attenzione il volo degli uccelli per avere informazioni sulla presenza più o meno vicina della terraferma.
“Plinio il vecchio, nella sua Naturalis Historia, ricorda che nell’Oceano Indiano, alla latitudine dell’attuale isola di Ceylon, i marinai erano soliti portare a bordo delle navi un certo numero di uccelli che rilasciavano periodicamente per seguirne il volo. Questo perché i volatili, salendo di quota e volando in tutte le direzioni, hanno una maggiore possibilità di scorgere la terraferma anche da grande distanza: se ritornavano a bordo, la terra era ancora lontana, se si allontanavano definitivamente, la direzione prescelta indicava la via per raggiungere la terra più vicina.” (Passo tratto dal link).
Sono ancora diffuse nel territorio salentino anche a Otranto le torri colombaie, non si dimentichi anche l’uso che se ne faceva nei secoli passati dei piccioni viaggiatori. Le falesie della costa idruntina sono poi luoghi di nidificazione dei piccioni selvatici.
Per approfondire: “Il variopinto Colombo selvatico, compagno irrinunciabile delle nostre città! Presenza da apprezzare, non certo da denigrare e combattere“.
A Otranto è presente un porticciolo il cui toponimo è “Porto Craulo”, deriva dal termine dialettale “craulu” che indica il corvo, è una voce onomatopeica che deriva dal verso dell’animale, la si confronti con l’inglese crow, il latino corvus.
Approfondimento sui Corvi comuni (“crauli” in vernacolo) in Salento presenti svernanti numerosi ancora negli anni ’50 del ‘900, poi nulla più per il Salento. Si discute qui di questo a partire dalla foto di un Corvo comune (Corvus frugilegus) nella collezione del Liceo Capece di Maglie di animali imbalsamati:
Auspichiamo una maggiore diffusione in Salento dei Corvi imperiali, ma anche dei Corvi comuni così come di altri corvidi come le Ghiandaie oggi attestate a Bari e delle Cornacchie comuni; al momento si registra una presenza in Salento di Gazze (“Picalò” o “Mita” in dialetto locale), Taccole (“Ciole” in dialetto locale) e Cornacchie grigie!
Nei commenti a questo post-video facebook approfondimenti sui corvidi in Salento.
Ecco il corvo raffigurato per la scena del Diluvio Universale nel mosaico di Otranto. Appare variopinto per raffigurare l’iridescenza che comunque connota lo scuro piumaggio del corvo. E’ mostrato intento a cibarsi, il corvo è un animale saprofago, dei resti degli uomini uccisi dalle acque travolgenti, in particolare lo vediamo intento a beccare una gamba umana.
Si dice che se il modo di volare dei corvi muta esso preannuncia pioggia o cambiamento del tempo: da cui il detto popolare salentino “quandu fiscanu li crauli e’ segnu ca olenu acqua“, quando cantano i corvi è segno che vogliono acqua ossia che la pioggia si avvicina.
Altri modi di dire popolari: “niuru comu nnu crau“, nero come il corvo; “se tutti gli aceddhri canusciane u crau“, se tutti gli uccelli conoscessero il corvo.
Non è escluso che con il termine “craulu” a volte si intendessero anche cornacchie grigie e taccole in Salento, oltre ai più maestosi corvi imperiali.
Altri nomi dialettali di corvidi presenti in Salento: per la taccola “ciole“, per le gazze “mite” o “picalò“, per le cornacchie grigie “curnacchia“.
Chiudo questo paragrafo con la bella frase nella Bibbia nel mito dell’Arca di Noè che può fungere da principio guida per la rinaturalizzazione: “Dio ordinò a Noè: «fa uscire le creature, perché possano diffondersi sulla terra, siano feconde e si moltiplichino su di essa»“.
Mi piace riportare in conclusione anche questa raffigurazione (non da Otranto) dell’Arca di Noè piena di animali
in essa oltre alla Colomba bianca e al nero Corvo, vediamo tra i vari uccelli, oltre a Cicogne e Galli/Galline anche due Pellicani probabilmente, con l’0ccasione rimando a questo articolo per approfondire sui Pellicani in Terra d’Otranto.
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L’accoppiamento e il parto cruento delle “Vipere” secondo i bestiari
Nel bestiario chiamato “Fisiologo” si dice che la femmina della “vipera” non ha vagina nel ventre, ma soltanto una sorta di cruna d’ago.
Quando dunque il maschio copre la femmina, eiacula nella bocca della femmina, e quando essa ha inghiottito il seme, tronca gli organi genitali del maschio, e quest’ultimo muore istantaneamente. Quando crescono, i figli divorano il ventre della madre, e in tal modo vengono alla luce: le vipere sono quindi parricide e matricide.
Grazie al coinvolgimento di più esperti ed appassionati su un post facebook con cui avevo divulgato questa ipotesi identificativa con le vipere dei bestiari del groviglio di rettili raffigurato nella navata centrale della Cattedrale di Otranto sotto il leone quadricorporeo, lo studioso di Otranto Elio Paiano mi ha segnalato un suo testo dal titolo “Passaggio a Sud Est” Editrice Salentina 1997, dove anche egli esponeva la medesima lettura iconografica qui proposta per la scena presa in oggetto rispetto ai bestiari; non solo, Elio, che ringrazio, mi ha fatto notare un ulteriore particolare che trovo molto interessante: “C’è un aspetto importante del Phisiologus: quel parto idealizzato della vipera viene dall’esperienza [naturalistica riportata in quel testo antico], la vipera è ovovivipara“; l’ovoviviparità è un tipo di riproduzione di una specie animale in cui le uova sono incubate e si schiudono nell’organismo materno, senza che vi sia alcuna relazione nutritiva, come invece accade nella viviparità. È presente in alcune specie di pesci, come gli squali, di rettili, come la vipera, e di invertebrati, come gli scorpioni.
Per la raffigurazione di queste vipere nella miniatura sul bestiario inglese sembra forte l’influsso naturalistico della vipera della specie Vipera berus (marasso), assente in sud Italia ma vedo presente in Gran Bretagna dove hanno realizzato nel medioevo questa miniatura!
In Salento vive invece la specie di vipera Vipera aspis sottospecie jugy.
Nelle vipera, vediamo nella foto sopra, è evidente la strizione della coda rispetto al resto del corpo. La coda è nettamente distinta dal corpo, caratteristica tipica della vipera e che la differenzia, tra le altre cose, dagli innocui colubridi. Questo particolare naturalistico connota nei bestiari e nel mosaico di Otranto la raffigurazione delle vipere.
Dal mio post facebook qualche mia considerazione sulla lettura del mosaico di Otranto: “Comunque questa priorità data all’allegoria specifica originale di fronte al mosaico di Otranto ha accecato dal riconoscimento di tanti suoi simboli e fonti. Secondo me prima va fatta una analisi iconografica con tutte le fonti, poi dopo c’è spazio per la domanda se il tutto avrà anche un valore allegorico speciale locale. Che ci sia un valore allegorico ad esempio nel caso in oggetto può essere certo, ma se si mette l’allegoria come priorità poi non ci si concentra nel capire davvero cosa è rappresentato. Così io lì sempre ho sentito spiegazioni allegoriche legate al soprastante leone-quadricorporeo quando invece innanzitutto le due scene, il leone quadricorporeo e la scena dei serpenti hanno una loro sintassi e origine iconografica precisa e indipendente che invece la pista allegorica ha impedito di riconoscere. Eccezion fatta per l’analisi di Elio che invece ne aveva dato una corretta lettura delle vipere lì secondo il Fisiologo. Mettere l’allegoria prima della analisi iconografica è stato come voler leggere la Divina Commedia senza prima capire ogni lettera a che suono alfabetico corrisponde! Se fossi stato soddisfatto dalle spiegazioni allegoriche da predica sermonica costruite intorno al mosaico nel secolo scorso non avrei poi approfondito per conto mio. La lettura allegorica è sovente stucchevole, è sempre uguale, è il solito sermone ripetuto in tutte le salse trite e ritrite che già si apprende nelle prime lezioni del catechismo. E’ pertanto alla fine anche una strumentalizzazione che anziché evidenziare la ricchezza semantica del mosaico lo sminuisce a appiattisce. “Non va dimenticato che lo scopo ultimo di tutte le rappresentazioni del mosaico era proprio l’allegoria, l’exemplum” ricorda lo studioso Elio Paiano, e concordo, ma è come per una fiaba di Esopo/Fedro, prima devi ascoltare la storiella, capirla nei suoi personaggi e relazioni, poi ne trai la morale. A me è parso che tanta la fretta evangelica di fare prevalere la morale cristiana e cristianizzante che spesso di fronte al mosaico si è data poca importanza alla corretta lettura della fiaba sottostante narrata!
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“Il Granchio e il Serpente” e “il Gallo e la Volpe” dalle fiabe di Esopo, i Pavoni e l’Ippocampo
Nella cornice tra il transetto e la lunga epigrafe nella parte superiore del presbiterio nel mosaico pavimentale medioevale nella Cattedrale di Otranto troviamo la rappresentazione di alcuni animali fantastici e reali insieme. Tra questi quelli che paiono due ippocampi mitologici affrontati, e mi piace ricordare la buona presenza nei mari del Salento dei cavallucci marini (i reali ippocampi), in special modo nel Mar Piccolo a Taranto:
e la scena del confronto tra un granchio e un serpente
Il granchio e il serpente sono un chiaro richiamo alla fiaba greca di Esopo dedicata a questi due animali e incentrata sulla difficoltà di stabilire un’amicizia per la loro diversa natura tra questi due animali nonostante il loro tentativo animato da buoni propositi inizialmente in tal senso. Il serpente manifestava il suo affetto stringendo troppo tra le sue spire il granchio costretto a liberarsi da quella morsa che lo stava soffocando facendo uso delle sue chele.
Sempre nella stessa fascia vediamo (nella foto sotto a destra, in quella sopra a sinistra) due Pavoni (specie: Pavo cristatus) affrontati. Sono entrambi variopinti, tenendo conto del dimorfismo sessuale nella specie si tratta di due maschi che stanno lottando tra di loro:
Mi piace ricordare che i romani chiamavano il Pavone “uccello di Giunone” ed era un simbolo di regalità.
Per approfondire sui Pavoni e la loro presenza come animali domestici sin dall’antichità greco-romana nel sud Italia rimando a questo mio post facebook e ai miei commenti ad esso:
Nello spazio del presbiterio troviamo rappresentato nello spazio tra i tondi il confronto tra un gallo e una volpe:
Anche questo confronto tra questi due animali è probabilmente un richiamo alle fiabe di Esopo che coinvolgono proprio questi due animali.
Troviamo nel mosaico di Otranto la volpe anche ben raffigurata nelle aree inferiori della navata centrale non lontano dall’ingresso della Cattedrale, l’animale è facilmente distinguibile per la sua lunga folta coda:
In tema di volpi mi piace segnalare questo interessante episodio naturalistico documentato nel basso Salento, tra aprile e maggio del 2021, che in passato avrebbe potuto indurre mitopoieticamente fiabe, la volpe ha tentato di mangiare il serpente (un cervone), il serpente per difesa ha tentato di strangolare la volpe stringendosi in strette spire attorno al suo collo e mordendogli il labbro:
Qui uno scontro mortale non dissimile tra un serpente (cervone) e un biancone (un rapace mangiatore di serpenti) documentato a Caserta a metà agosto del 2019:
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La “Cucuzza” (zucca bottiglia anche lunga)?
Troviamo nell’abside della Cattedrale di Otranto nel mosaico pavimentale il ciclo dedicato alle storie bibliche del profeta Giona. In una scena vediamo Giona all’ombra della pianta di “qikaion” (questo il nome originario nella Bibbia della pianta).
“Qikaion” viene sovente tradotto come ricino (Ricinus communis), una pianta presente in Salento sia come selvatica che coltivata come ornamentale,
ma è evidente che non sia un ricino la pianta raffigurata per Giona tanto ad Aquileia quanto assai simile a Otranto. L’unica specie che pare corrispondere è la zucca bottiglia (Lagenaria siceraria), una “cucuzza” autoctona nel Vecchio Mondo nonché pur presente e coltivata in Mediterraneo e Italia prima della scoperta dell’America del 1492 da parte di Cristoforo Colombo. Fatto seccare il suo frutto viene utilizzato per produrre una sorta di bottiglia in Africa ma anche in passato in Salento. Inoltre la si coltiva proprio a pergolato. L’approfondimento botanico qui sviluppato mi da anche occasione di ricordare il nome dialettale salentino di queste zucche “cucuzze“. Addirittura l’attestazione di questa glossa del volgare salentino si è rinvenuta in un codice della Mišnah ebraica dell’ultimo quarto del sec. XI, (il manoscritto ebraico De Rossi 138 della Biblioteca Palatina di Parma, lo studio di tali glosse da parte di L. Cuomo in “Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma”, De Rossi, 138, in «Medioevo Romanzo», 4, 1977, pp. 185-271), compare tra brevi scritture, quasi tutte annotazioni lessicali di carattere botanico. Ricordiamo che al tempo vi erano nel Salento floride comunità ebraiche in particolare a Otranto e Oria, (mi piace ricordare qui ad esempio ricordare le leggende ebraiche sul mostro Golem a Oria).
La glossa botanica in vernacolo salentino ritrovata tra quelle annotazioni è in particolare “kukuzza lunga“, ed essa corrisponde proprio a varietà nota, sempre della precedente specie vitata del Vecchio Mondo, chiamata scientificamente Lagenaria siceraria var. longissima, o comunemente “zucca da pergola”, i cui frutti hanno una forma molto allungata invece della tipica forma a fiasco; nella coltivazione a pergola pendono in basso per gravità, mentre nella coltivazione spontanea sul terreno si ricurvano e prendono una forma a “serpentello”, assai coltivata negli orti del Salento. Nei mosaici com Giona analizzati i frutti pendenti dalle pergole paiono talvolta allungati.
Gli alberi nel mosaico di Otranto paiono produrre tanti frutti diversi e fogliame che sfamano il Creato (uomini son ritratti mentre mangiano frutti, così Adamo ed Eva frutti di fico, animali son raffigurati mentre mangiano rami e foglie, Noè e i suoi figli son mostrati mentre coltivano la vite), anche frutti diversi dallo stesso albero.
Ad esempio anche zucche bottiglia dal grande albero della navata centrale, come nel caso sopra in foto si mostra, bacche, ecc. Si sviluppano poi altri alberi ad esempio di fico nel mosaico e vigne e si mietono messi (nei tondi dei mesi).
Sarebbe anche da guardare meglio se tra quella sorta di appendici che si vedono alla radice della pianta rampicante raffigurata ad Otranto non sia rappresentato anche il verme che nel testo biblico si dice fece seccare la pianta danneggiandone le radici
Tale verme è ad esempio ben raffigurato in alcune rappresentazioni come la seguente a Moscufo in provincia di Pescara in Abruzzo:
Un odierno pergolato con zucca bottiglia:
Zucca bottiglia coltivata recentemente nei dintorni di Carpignano salentino e cresciuta a terra, foto del 31 ottobre 2022:
NOTA: la grande profusione di alberi nel mosaico pavimentale di Otranto, sovente legati al Paradiso terrestre, ci induce a riportare qui il seguente passo tratto dall’articolo dal titolo “L’origine dell’Albero di Natale“:
Nel medesimo articolo anche vediamo una immagine dell’albero della vita nella cultura indiana, raffigurato come sorretto proprio da un elefante, così come da elefanti è sorretto il grande albero nella navata centrale del mosaico medioevale della Cattedrale di Otranto:
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La Vite coltivata ad alberello leccese?
Il mosaico idruntino è fortemente ispirato proprio dai riferimenti alla coltivazione del vino e ai miti ad esso legati. Il più esplicito è quello di Noè, mostrato con le gote rosse, segno probabilmente di ebbrezza, e mentre con i figli cura il suo vigneto, ciò dopo il Diluvio Universale:
con viti che paion coltivate proprio ad “alberello leccese” come in parte ancora oggi nella tradizione contadina salentina.
Nei tondi dei mesi vediamo il mese di agosto rappresentato da un contadino che vendemmia raccogliendo l’uva, e anche lì la vite sembra coltivata ad alberello, e il mese di settembre da un contadino dalle gote rosse che a piedi nudi la pigia in un vasca da un cui foro sgorga un mosto scuro (palmento è il nome delle vasche scavate a volte nella nuda roccia utilizzate nel Salento per la fermentazione del mosto).
Il fatto che in questo calendario dei mesi con scene della vita contadina la raccolta dell’uva inizi ad agosto rappresenta una tipicità, dato che solitamente in altre raffigurazioni medioevali dei mesi in Europa essa compare nel mese di settembre. Ciò risalta la correlazione con il mondo contadino locale cui Pantaleone si riconduce nelle raffigurazioni dei mesi con le loro principali simbologie e attività umane, del resto nel mosaico le genti locali in primis dovevano riconoscere il loro mondo: ancora oggi in Salento si coltiva un vitigno di una cultivar locale chiamata “primitivo” proprio perché la maturazione della sua uva giunge prima che per le altre cultivar e la raccolta dell’uva inizia già in agosto.
Il tondo del mese di novembre vede la rappresentazione vicino ad un contadino di un corno da bere, e poiché novembre è il mese in cui il mosto diventa vino e si beve il primo vino nuovo, e il corno come bicchiere è già da epoca antica legato al vino, (vedi l’iconografia antica di Dioniso talvolta raffigurato con in mano un corno pieno di vino, quando non con il bicchiere da vino, il “kantharos”), tale corno in posizione da bicchiere rimanda proprio al vino nuovo con tutta probabilità! Correlato potrebbe essere il particolare delle gote rubiconde dell’uomo raffigurato in questo tondo dei mesi.
Nota: nel tondo del mese di settembre troviamo l’allegoria del segno zodiacale della Vergine. Solitamente essa regge o la spiga o la palma o entrambe secondo l’iconografia del segno, qui a Otranto mi pare di poter dire che si sia optato per la foglia di palma, la palma da dattero (Phoenix dactylifera) di cui in Salento si sono ritrovati semi di datteri di epoca messapica da offerte alle divinità nei santuari, e ancor oggi è una specie assai diffusa in Terra d’Otranto.
Il Salento era ancora nel medioevo, e ancora oggi, come nel tempo antico, ottima terra di vigneti e oliveti. Una tradizione, quella della viticoltura molto caratteristica del sud Italia che annovera cultivar di vitigni di pregio (oltre al primitivo anche il negramaro) e diverse varietà di buona uva da tavola.
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La Palma da dattero
L’albero raffigurato nei pressi delle mura della città di Ninive nel mosaico di Otranto si pensa sia una palma da dattero (Phoenix dactylifera) stilizzata per dare un tocco estetico di esoticità orientale alla scena:
Nota la Palma da dattero e Maria: il Vangelo apocrifo di Matteo riporta che, durante la fuga in Egitto, il bambino Gesù ordinò a una palma da datteri nel deserto di curvarsi davanti a lui per dare a Maria dei datteri. Così è anche il racconto sul comando di Gesù alle radici della palma da cui scaturì una fonte per dissetare la Sacra Famiglia. Troviamo un riferimento alla palma da dattero legata alla nascita di Cristo nel Corano. La sua redazione è completamente diversa da quella dei Vangeli. Il luogo indicato dal Corano della nascita di Gesù (‘Isa’s), si trova nella Sura 19 di “Maria”. Ecco il testo del Corano: << 22 Lo concepì e, in quello stato, si ritirò in un luogo lontano. 23 I dolori del parto la condussero presso il tronco di una palma. Diceva: «Me disgraziata! Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto dimenticata!». 24 Fu chiamata da sotto : «Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi; 25 scuoti il tronco della palma : lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi. 26 Mangia, bevi e rinfrancati. (…)>> (Sura 19:22-26). Il parto di Maria in un luogo lontano presso il tronco di una Palma da dattero ci richiama la mitica nascita di Apollo e della sorella Diana dalla madre Latona (Leto) ingravidata da Zeus e che avvenne tra una palma (della tipologia palma da dattero) ed un olivo nell’Isola di Delo dove Leto aveva cercato rifugio per fuggire alle ire di Era moglia di Zeus. A Delo esisteva un santuario dedicato a lei dove una palma di bronzo ricordava l’albero a cui si era aggrappata al momento di partorire i due gemelli. Ciò ci richiama al parto che in antichità avveniva con la donna in posizione verticale appogiata ad un albero eventualmente aggrappandosi a suoi rami bassi (foglie nel caso di una palma). Mi piace ricordare come possibili palme da dattero sono gli alberi stilizzati raffigurati sempre nel mosaico idruntino dell’abside nei pressi della raffigurata città di Ninive relativa al ciclo di Giona.
Qui vediamo ben rappresentata la Palma da dattero in uno stemma presente in quella che fu la casa natia del mago Matteo Tafuri (Soleto, 1492 – Soleto, 1584) a Soleto, figura di cui abbiamo trattato in questo articolo,
edificio famoso anche per una epigrafe lì presente su un’architrave con inciso il motto «HUMILE SO ET HUMILTA’ ME BASTA. DRAGON DIVENTARO’ SE ALCUN ME TASTA».
Tornando al mosaico di Otranto nel tondo del mese di settembre troviamo l’allegoria del segno zodiacale della Vergine. Solitamente essa regge o la spiga o la palma o entrambe secondo l’iconografia del segno,
qui a Otranto mi pare di poter dire che si sia optato per la foglia di palma:
Clipeo del mese di settembre nel mosaico di Otranto. C’è chi ha proposto vista la scena di pigiatura dell’uva che si fosse rappresentato lì Bacco con un ramo di alloro, ma data la presenza in ogni tondo dei mesi di un segno zodiacale ben più plausibile è vedervi lì l’allegoria della Vergine, segno zodiacale che va appunto dal dal 24 agosto al 22 settembre.
Il tondo di settembre sopra presentato mostra un contadino con berretto a foggia conica, come quello del mese di agosto impegnato nella vendemmia:
Per approfondire su questo discorso dei cappelli in antichità rimando a questo mio post facebook del 13 settembre 2017 e ai miei commenti e non solo miei ad esso.
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Il Fico (Ficus carica) e il suo frutto proibito nell’ Eden?
E’ del resto nella stessa Bibbia, libro della Genesi, che si dice che Adamo ed Eva usarono proprio una foglia di fico per coprirsi gli organi genitali, la cui nudità, dopo aver mangiato il frutto dell’Albero della conoscenza del bene e del male, era divenuta fonte di vergogna. Da qui una diffusa iconografia nell’arte Cristiana che mostra Adamo ed Eva con foglie di fico come perizoma dopo l’atto della consumazione del frutto proibito. Non si specifica invece nel libro della Genesi con precisione la specie del frutto proibito. Ciò ha favorito l’idea che si trattasse del fico, poiché le sue foglie sono menzionate poco dopo per l’uso che ne fecero i progenitori Adamo ed Eva.
A seguito di questa lacuna di informazione pomologica comunque si è sviluppato anche il filone che ha visto nel frutto una mela, altra pianta arborea da frutto presente in area mediterranea, ad esempio in Salento con la cultivar assai diffusa chiamata Melo di San Giovanni (una varietà precoce estiva, la festa di San Giovanni Battista cade il 24 giugno).
In alcune zone della Puglia (quelle costiere) è anche denominata Melo di Sant’Antonio, in quanto matura un po’ prima rispetto alle zone collinari interne. In Valle d’Itria è anche denominato Melo Grasta, nome dialettale di vaso, a causa dello scarso vigore della pianta che ha habitus pendulo.
Per il “frutto proibito” nel testo della Bibbia si parla di “frutto”, senza ulteriori specificazioni. In latino la mela viene chiamata mālum, parola che ha anche un suono molto simile a quella che significa “il male” (mălum). Per questo motivo nel medioevo (quando tra l’altro si perse la distinzione tra vocali brevi e lunghe nella pronuncia del latino) si sarebbe cominciato a rappresentare il frutto come una mela.
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Valutiamo se vi sono similitudini (o meno) tra il mosaico di Otranto e quello di Aquileia anche per il tipo di mostro marino che ingoia Giona rappresentato nei due mosaici.
Ad Aquileia l’essere marino che ingoia Giona ha le sembianze del drago ketos (o pistrice anche chiamato questo drago marino) di ispirazione classica e che compare simile anche nell’arte vascolare apula a figure rosse:
In altre versioni della storia di Giona altrove si mostra tale essere mostruoso che fagocita il Profeta come un grosso pesce di forma più comune per un pesce, fino a diventare in altre interpretazioni una balena; del resto lo stesso topos narrativo mitologico sarà ripreso nella fiaba di Pinocchio ingoiato da un enorme “pesce-cane” si dice nel racconto scritto, ma sovente raffigurato come balena.
A Otranto vediamo solo le fauci dell’animale che tra le acque ingoia Giona. Non rivela una cresta sulla testa né corna come nella pistrice/ketos.
Se osserviamo che una coda di grosso essere marino pisciforme e forse dello stesso colore della testa (da verificare!) si nota verso la poppa con timone della stessa nave da cui Giona viene precipitato in acqua, allora per la posizione della bocca e della coda, se con quella coda si fosse voluto rappresentare il posteriore del medesimo essere con la gran parte del suo corpo fuori scena, allora anche il mostro marino di Otranto nel ciclo di Giona avrebbe un possibile lungo corpo serpentiforme come la pistrice (ketos) raffigurata ad Aquileia.
Confrontiamo anche con il tondo di Giona che vien gettato a mare nel mosaico pavimentale della metà del XII secolo nella Cattedrale di Sant’Evasio a Casale Monferrato.
lunghissimo pesce abissale che vive anche in MediterraneoRiflessioni in merito a ciò che a volte viene bollato troppo frettolosamente come “animali fantasiosi della mitologia”, e che sovente contengono invece importanti dati dal valore naturalistico e storico in merito a ibridi, teratomorfi, emersione di fossili, animali comuni o rari già all’ epoca della nascita del mito, e oggi magari rari o estinti, o altri fenomeni naturali, che hanno ispirato antichi racconti e raffigurazioni.Riporto questo articolo e bel commento del Professor
Da Franco Tassi:
Caro Francesco, l’argomento è molto interessante e suggestivo, e meriterebbe approfondite riflessioni. Spesso i “draghi” e i “mostri” dell’antichità riflettevano fenomeni reali, magari trasfigurati dalla fantasia. Si pensi ad esempio alle Sirene, che si è ipotizzato nate dall’avvistamento sugli scogli lontani della Foca monaca, o al Grifone o a mille altri… Ho avuto modo di affrontare spesso questo enigma nell’ambito dell Criptozoologia, su cui prossimamente pubblicheremo anche un Libro. Ma per il momento mi limito ai bellissimi mosaici di Kaulonia, uno è ovviamente un Delfino (soggetto un tempo preferito), ma cosa dire dell’altro? Gli archeologi si limitano a chiamarli “mostri”, e li archiviano così, come avviene a Piazza Armerina… Peccato, perché se avessero interpellato un Criptozoologo, avrebbe spiegato che la figura ricorda molto da vicino quella di un animale realmente esistente, il Re delle Aringhe o Regaleco (Regalecus glesne), presente anche nei nostri mari ma raramente visibile, talvolta impressionante per le dimensioni, l’agilità e l’aspetto, con la testa che ricorda un cavallo… E si potrebbe continuare, ma per ora ci fermiamo qui.
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Per approfondire: “OTRANTO: è una VERGINE fanciulla che accarezza l’UNICORNO, non il monaco Pantaleone! Studi sul mosaico medioevale del XII sec. d.C.”
Troviamo l’Unicorno anche a Maglie nel ‘600 nella raffigurazione del Paradiso terrestre nell’Affresco della volta nella Chiesa della Madonna delle Grazie:
Alla stessa altezza delle bestie policefale probabilmente dell’Apocalisse, ma subito a sinistra dell’albero centrale nella navata centrale sempre, compare una strana creatura ghermitrice che tormenta un uomo:
Potrebbe essere una fantasiosa raffigurazione delle considerate locuste dell’Abisso (o locuste dell’Apocalisse o cavallette dell’Apocalisse), mostri mitologici nominati nell’Apocalisse di Giovanni: “uscirono sulla terra delle cavallette/locuste a cui fu dato un potere simile a quello degli scorpioni della terra. E fu detto loro di non danneggiare l’erba della terra, né la verdura, né gli alberi, ma solo gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte. Fu loro concesso, non di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi con un dolore simile a quello prodotto dallo scorpione quando punge un uomo.”
Non è proprio peregrina l’idea della locusta dell’Apocalisse con coda di scorpione che tormenta l’uomo per questa immagine del mosaico, da questo confronto con una locusta reale, anche se ci sono similitudini comunque nel corpo con uccelli predatori mostrati prossimi ma meno mostruosi.
Ma persino le ali del mostro ghermitore nel mosaico idruntino con quadrettature irregolari sono assai compatibili con le ali di insetti come le locuste/cavallette:
Ma quadrettature irregolari, dobbiamo osservare, sono utilizzate anche per rappresentare le piume delle ali di alcuni uccelli nel mosaico, come possiamo vedere ad esempio per lo struzzo sopra.
L’idea nell’Apocalisse di cavallette-scorpioni può esser derivata dall’osservazione nelle cavallette/locuste femmine dell’aculeo ovopositore appariscente in fondo all’addome con cui esse scavano nella terra per deporre le loro uova:
Mi piace segnalare anche qui alla ricerca di suggestioni naturalistiche per quei mostri dell’Apocalisse un insetto diffuso in Eurasia chiamato la Mosca scorpione (Panorpa communis), che ha una certa somiglianza con il mostro qui discusso nel mosaico di Otranto:
la Mosca scorpione è una sorta di fossile vivente, che deve il suo nome alla conformazione particolare dell’ultima parte del corpo, che termina con un rigonfiamento che ricorda un pungiglione e che l’insetto normalmente tiene sollevato sopra il corpo, grazie alla curvatura dell’addome. Ciò lo rende simile allo scorpione, ma in questo caso quel rigonfiamento terminale è assolutamente innocuo e serve per bloccare la femmina della sua specie in fase di accoppiamento, perché essa ha la tendenza a mangiarsi il partner una volta compiuta la copula, anche per questo il maschio le porta in dono qualche insetto per farla mangiare sperando così di salvarsi, cosa che accade, ma non sempre. E’ un insetto prevalentemente carnivoro, si nutre infatti di animaletti morti o afidi vivi attraverso il suo particolare muso allungato, che gli permette di succhiare gli alimenti.
APPENDICI
Si tratta dei commestibili funghi della specie Cimballo (Clitocybe geotropa) come riconosciuti da un micologo.
Per approfondire rimando al mio post facebook dedicato e ai miei commenti ad esso nonché a questo mio studio.
Per approfondire anche sulla possibile rappresentazione di funghi (o meduse) nel mosaico della Chiesa di Casaranello a Casarano (Lecce) vi invito a questi miei due post e ai miei ricchi commenti ad essi: post1 e post2. Nonché a questo mio studio.
Ho proposto di riconoscervi dei funghi (o meduse o assai meno probabilmente pini ad ombrello) nelle figure ad ombrello che compaiono negli angoli del mosaico interno sulla volta della cupoletta della Chiesa di Casaranello edificata nel 450 d.C. circa:
Tre di queste figure fungiformi in tre angoli della volta della cupola sono simili tra loro:
Per queste figure ho proposto confronti con il cosiddetto Fungo dell’inchiostro (Coprinus comatus), o con meduse come le specie presenti in Mediterraneo Pelagia noctiluca, Rhizostoma pulmo o Chrysaora hysoscella; nonché con il mediterraneo Pino italico da pinoli ad ombrello (Pinus pinea), ma quest’ultima ipotesi poco probabile messa solo per completezza di analisi.
Suggestiva è la somiglianza con il Fungo dell’inchiosto; forse in tempi paleocristiani era impiegato per produrre davvero un inchiosto e la sua raffigurazione era un richiamo alla scrittura dei Vangeli? In merito a questa pista di indagine simbolica che ho proposto ho fatto notare come in altre simili rappresentazioni musive grossomodo coeve, in particolare nella cupola del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, negli angoli della volta (volta sempre con azzurro cielo stellato e croce al centro), sono raffigurati i simboli dei quattro Evangelisti, nel complesso il simbolo del tetramorfo, ai quali è attribuita la scrittura dei quattro Vangeli canonici. Nelle chiese romaniche e gotiche i quattro santi evangelisti in forma umana, con in mano il Vangelo e con a fianco i loro simboli, vennero molto spesso effigiati nelle quattro vele delle volte a crociera, uno per vela, seduti allo scrittoio, intenti alla stesura dei rispettivi vangeli.
In uno degli spigoli della volta della Chiesa di Casaranello appare invece una figura fungiforme diversa dalle altre tre, era già così in origine o è frutto tale diversità di un restauro successivo?
E’ una specie di medusa diversa oppure un diverso fungo? Assomiglia ad un carpoforo di fungo sezionato longitudinalmente per metà. Ma che specie di fungo? Forse un rimando stilizzato alla suggestiva Amanita muscarica dal cappello rosso punteggiato di bianco e bianco stelo, l’Ovolo malefico anche chiamata volgarmente?
L’Amanita muscaria è il fungo dalle capacità psicoattivanti usato per entrare nella dimensione psichica concepita come contatto con il divino da parte degli sciamani euro-asiatici, stati di coscienza che permetterebbero forse anche secondo alcune teorie la rivelazione della Parola di Dio, questa interpretazione non sarebbe possibile se viste quelle figure come meduse più o meno urticanti.
Dato che tre dei quattro Vangeli canonici vengono definiti sinottici e solo uno se ne distingue nettamente, quello di Giovanni l’Evangelista, allora qui tale fungo differente dovrebbe rappresentare quel differente Vangelo nella esotica congettura ermeneutica qui formulata a partire dall’ipotesi degli altri tre come Funghi dell’inchiostro.
Mi piace riportare qui in calce a questo paragrafo alcune immagini dal mosaico pavimentale della Basilica di Aquileia.
Alcune lumache sono raffigurate mentre stanno abbandonando il contenitore come solitamente accade dopo un po’ di tempo da quando le si pone insieme in un recipiente. Nel Salento c’è la consuetudine di raccogliere e consumare per l’alimentazione umana diversi gasteropodi terrestri col guscio spiraliforme.
Riporto anche questo interessante studio: “Testimonianze di utilizzo del carapace di Caretta caretta nell’insediamento dell’Età del Bronzo di Roca (Lecce)” in merito al rinvenimento di diversi resti di carapace di Caretta caretta, tutti inquadrabili cronologicamente al Bronzo recente. Si tratta degli unici resti rinvenuti in siti protostorici italiani che mostrano della lavorazione dell’osso di questo animale. “È probabile che questi animali venissero cacciati in primavera quando si recavano sulle spiagge per deporre le uova, oppure catturati casualmente con grossi ami usati per la pesca, anche se non si può escludere che il carapace potesse essere prelevato da persone spiaggiati, morti naturalmente”.
La razza del Cane Cirneco nel mosaico della Cattedrale di Brindisi?
L’Asino nel mosaico della Cattedrale di Brindisi?
Idem motivo anche in miniature nei manoscritti medioevali:
Per approfondimento accedi dal menù agli altri articoli sul mosaico medioevale figurato di Otranto