Il Cavallo Murgese il moro orgoglio di Puglia, in lui il sangue del cavallo di Artas!

Il Cavallo Murgese il moro orgoglio di Puglia, in lui il sangue del cavallo di Artas!

 

Uno degli stalloni Murgesi di Masseria Croce Grande (Martina Franca), il suo nome proprio Callisto. Immagine dal Web.

 

Forse tale dominante carattere scuro degli stupendi Cavalli Murgesi, dal mantello morello quasi corvino, (in taluni casi più rari a mantello testa di moro), dalle lunghe criniere, cavalli dagli zoccoli forti, profilo talvolta montonino, sanguigni, eleganti e possenti al contempo, era già un connotato dei cavalli dei messapi. Scrive Teofrasto (Ereso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.), filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele: “in certi luoghi gli animali nascono di colore scuro, (…), come presso i Messapi” (passo riportato dall’autore latino Plinio il Vecchio nella sua opera intitolata “Storia Naturale”).

Mi piace qui ricordare come idem viraggio al nero si osserva nel mantello degli Scoiattoli della specie autoctona Sciurus vulgaris; scendendo in Europa lungo la Penisola italiana esso assume colorazione sempre più scura, a partire dal bruno rossiccio più caratteristico delle popolazioni settentrionali, fino a giungere ad un pieno nero in Calabria nella varietà Sciurus vulgaris subspecie meridionalis. Una colorazione intermedia tra questi due estremi nel centro Italia.

Virgilio nell’Eneide ricorda di Messapo, eroe invincibile, domatore di cavalli, e parla anche di un cavallo chiamato iapigio, “equo Iapyge”!

Il loro nome deriva, si ritiene, da quello delle zone collinari pugliesi, le Murge, dove maggiore è il loro allevamento oggi, allevamento bucolico brado/semibrado. Ma se si tiene conto che Virgilio chiamava già forse gli antenati degli odierni cavalli di Puglia  “Cavalli Iapigi”, e che i Morgeti (nome legato etimologicamente pare proprio a quello di “murge”) erano popoli presenti nel sud Italia, fino alla stessa Puglia, nell’ Età del Bronzo, prima ancora degli Iapigi abitatori della Puglia nell’ Età del Ferro, capiamo, nei corsi e ricorsi storici, quanto sia meraviglioso il nome di questi cavalli che rimanda a epoche così antiche, almeno all’ Età del Bronzo nella Puglia.

Artas, il cui nome abbiamo ricordato evocativamente nel titolo, fu un importante signore messapico. Non ne abbiamo conferme ad oggi genetiche di una piena discendenza di questo cavallo da quello dei Messapi negli stessi luoghi, ma è assai probabile che nonostante i continui apporti di cavalli da altrove a migliorare/modificare le razze locali una matrice di fondo autoctona possa esser rimasta con continuità ininterrotta.

Questi rinomatissimi e stupendi cavalli di Puglia il cui centro fulcro di allevamento è Martina Franca, nell’ottocento e forse anche prima erano probabilmente allevati allo stato brado anche nella Foresta del Belvedere e di Cutrofiano, nel cuore del basso Salento: lo studioso locale Aldo De Bernart ci riporta i passi scritti dal marchese Carlo Ulisse de Salis Marschilins (1760 – 1818, un naturalista e viaggiatore svizzero) a commento dello spettacolo che gli apparve mirando la piana di Supersano dove si estendeva l’immenso “Bosco Belvedere”, tra questi il seguente: «Nei pascoli sopra queste alture – scrisse il De Salis nel suo libro di viaggio nel Regno di Napoli – e nella foresta di Supersano, sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente».

 

Cavallo Murgese, orgoglio di Puglia

 

E nell’ apprezzamento del signore di Supersano dell’epoca, ovvero il nobile Carafa, il De Salis scrive “tiene en la tierra una cavallerizza del Baron de cinquanta cavallos”.

Il notro pensiero corre pertanto ai bellissimi Cavalli Murgesi dal mantello scuro vanto di Puglia, che a Supersano son ancor oggi allevati dai figli e nipoti dei “trainieri” del recente passato (“lu tràinu” in dialetto locale il tipico carro in legno da trasporto a trazione equina) e corre proprio a Martina Franca, (che è in provincia di Taranto ma un tempo facente parte della Terra d’Otranto), che è il fulcro dell’allevamento del Cavallo murgese ieri come oggi.

Il notro pensiero va pertanto anche alla “Foresta” di Cutrofiano, (città oggi in provincia di Lecce come Supersano ma in passato sempre della ben più vasta Terra d’Otranto), che fu grosso centro di allevamento equino, tanto che la sua piazza principale, oggi chiamata piazza Muicipio, aveva antica denominazione di largo “Cavallerizza”. Ciò mostra quanto i cavalli fossero una componente rilevante dell’economia locale. Non solo, ancora oggi vi è una strada vicinale chiamata sempre “Cavallerizza” verso Collepasso , paese prima chiamato “Colopati”, e che solo nel 1907 si staccò amministrativamente da Cutrofiano. Persino un cavallo scuro è nello stemma civico di Cutrofiano, “le origini dello stemma non hanno certezza storica. Si suppone che abbia avuto origine dal fatto che i Filomarini avevano un grande allevamento di cavalli pregiati. (…) Nel 1484 il casale di Cutrofiano fu ceduto dalla corona Aragonese alla famiglia Del Croce-Capece fino al 1664 quando il feudo fu acquistato dai Filomarini che governarono fino al 1806, anno in cui fu soppressa la feudalità. Questa famiglia si distinse per gli allevamenti di cavalli di razza, molto ricercati nel Regno di Napoli. La razza di Cavalli di Cutrofiano godette di largo prestigio per lungo tempo non solo nel regno di Napoli, ma soprattutto in Inghilterra.” (scrive lo studioso e agronomo Antonio Bruno).  La Foresta di Supersano, macchia-foresta anche chiamata, era la porzione settentrionale del più vasto bosco, la “silva”, che occupava in passato il cuore del basso Salento, complessivamente indicato come Bosco Belvedere, dall’estensione di un toponimo più prossimo a Supersano. A Cutrofiano il legno di quel bosco veniva utilizzato anche per cuocere i prodotti in ceramica realizzati con l’argilla che si ritrova geologicamente lì in situ. “La Foresta di Cutrofiano era ancora demanio nel Quattrocento” (scrive sempre Antonio Bruno).

E dell’eroe eponimo dei Messapi (sinonimo di Salentini), da cui il grande poeta Ennio si vantava di discendere, Messapo, ecco cosa scrisse Virgilio nell’Eneide: “(…) At Messapum equum domitor Neptunia proles / quem neque fas igni cuiquam nec sternere ferro / iam pridem resides populos desuetaque bello / agmina in arma vocat subito ferrumque retractat.”, che tradotto significa: “Ma Messapo, domator di cavalli, prole nettunia, che a nessuno è lecito stendere né col fuoco né col ferro, chiama alle armi popoli già da tempo pigri e schiere disabituate alla guerra e subito riprende il ferro.” Proprio al Dio greco Poseidone (Nettuno per i latini), era sacro il cavallo. I Messapi eran dunque rinomati in antichità quali grandi leggendari allevatori e domatori di cavalli; essi, raccontano le antiche fonti, sacrificavano, gettandolo vivo in una grande pira di fuoco, un cavallo, in sacrificio al Dio “Juppiter Menzana”, (Giove Menzano, Zeus Stallone signore dei Cavalli, Zeus Cavallo);

 

Dopo un incendio in Sardegna – cavallo semi-combusto.  Questa immagine mi ricorda il rito tramandatoci dalle fonti dei Messapi antico popolo del Salento nel quale ogni anno veniva immolato un cavallo al dio Jupiter gettandolo vivo tra le fiamme.
I Messapi grande popolo di allevatori di cavalli e forse non a caso ancora oggi il cavallo è una delle pietanze immancabili della cucina salentina, i cosiddetti pezzetti di cavallo al sugo.

 

e ancora fino ai nostri giorni quasi, nella lingua chiamata localmente “griko”, (il greco salentino di antichissima origine, parlato in bilinguismo insieme al dialetto romanzo locale), il termine “mandzano” indica lo stallone , (vedi il “Vocabolario griko-italiano”, di Don Mauro Cassoni). Non è forse neppure un caso che nel Salento sia molto radicata la consumazione di carne di cavallo, (“pezzetti di cavallo al sugo”, un piatto tipico immancabile nelle osterie del Salento tutt’oggi, e non solo nelle osterie).

L’eroe acheo Diomede legato al Salento e ancor più alla Puglia del Nord, la Daunia, dai miti antichi che narravano le vicende degli eroi dopo la Guerra di Troia vede intrecciarsi la sua storia con quella dell’eroe troiano Enea anche lui approdato poi nel Capo Japigio (il Capo di Leuca) secondo il mito; Diomede si appropria in guerra a Troia dei cavalli di Enea, come racconta Omero. Inoltre Diomede è anche il nome di un gigante re di Tracia che aveva delle cavalle feroci che l’eroe greco Eracle (Ercole per i latini) dovette rubare in una delle sue mitiche fatiche. Eracle che pure dai miti antichi viene legato alla terra salentina.

 

 

Anche la variante “testa di moro”, oltre quella nera-morella, del mantello equino par ritrovarsi nei cavalli paleolitici europei, qui alcuni dipinti del Paleolitico superiore nella Grotta di Chauvet nella Francia del Sud, sempre che la scelta del colore risponda come il tratto ad una fedele rappresentazione realistica:

 

Alcuni dipinti del Paleolitico superiore nella Grotta di Chauvet nella Francia del Sud. Dal link.

 

La Puglia è terra produttiva di cavalli, tanto che il condottiero cartaginese Annibale durante le sue scorribande in Italia ai danni di Roma, inviò, non a caso, presso i Sallentini, dei suoi guerrieri, per razziare cavalli per la sua cavalleria. (Da “la Puglia nel mondo romano storia di una periferia” di Francesco Grelle e Maria Silvestrini).

 

Cavalli Murgesi al pascolo nei dintorni di Mottola e Martina Franca, 30 maggio 2023, foto di Oreste Caroppo.

 

La presenza del cavallo in Puglia risale a molti millenni or sono. Basti pensare che i cavalli selvatici erano già presenti in questa terra fortunata e dalla grande biodiversità da epoche paleolitiche, come testimoniato dai reperti fossili rinvenuti nel Salento, (vedi solo ad esempio le esposizioni di fossili nel Museo Paleontologico di Maglie), e in tutta la Puglia, e dai dipinti paleolitici che li ritraggono sulle pareti di grotte sul Gargano (Grotta Paglicci).

 

Sulle pareti di Grotta Paglicci (Gargano), dipinto paleolitico raffigurante un Cavallo selvatico (Equus caballus).

 

A testimonianza di quanto la Puglia fosse terra di cavalli lo storico romano Tito Livio racconta che Annibale mandò sue truppe a predare nel territorio dei Sallentini e nelle boscaglie dell’Apulia, e che vi catturarono soprattutto mandrie di cavalli.

Osservando il cavallo di Marco Aurelio nella sua statua equestre a Roma in Campidoglio c’è chi vi ha visto caratteristiche che si conservano nei cavalli murgesi. E l’imperatore Marco Aurelio vantava di discendere per parte di madre da dinastie regali messapiche.

 

Copia perfetta della romana statua equestre dell’Imperatore Marco Aurelio, centro di piazza del Campidoglio a Roma, 28 ‎marzo ‎2011. Foto di Oreste Caroppo.

 

All’inizio del sedicesimo secolo, la Repubblica di Venezia scelse le Murge, probabilmente perché terra da sempre vocata all’allevamento equino, per impiantare il più importante dei suoi allevamenti equini. Era “La Cavallerizza”, masseria delle Murge baresi entrata nelle leggenda perché da questa struttura, ancora esistente, sono usciti alcuni fra i più importanti stalloni d’Europa. Sul prospetto della masseria Cavallerizza, nell’agro monopolitano, è incastonato un bassorilievo raffigurante il leone di San Marco.

Il cavallo murgese (che anche si potrebbero chiamare senza sbagliare murgesi-neapolitani), che certamente conserva il sangue dei famosi cavalli neapolitani (tipici del Regno di Napoli) tra i diversi contributi autoctoni e di importazione per la sua ottimizzazione, è stato poi alla base del miglioramento e della nascita di altre famose razze come quella lipizzana nella quale, si pensi, il mantello dominante è il grigio, ma i puledri nascono morelli (colore tipico dei murgesi) o baio scuro per imbiancarsi gradualmente nel giro di 7-10 anni.

U Cavaddhu sturnu
mi racconta Pasquale Urso di Poggiardo (provincia di Lecce), esperto conoscitore del mondo rurale locale, della presenza nei decenni passati spesso nel basso Salento, oltre che dei cavalli morelli e quelli grigi testa di moro tipici della razza apula Murgese, cavalli da lavoro e traino, anche dei cavalli storni, “sturni” detti in vernacolo salentino, cioè dal pelo grigio pomellato di bianco, che invecchiando tendevano verso un mantello più omogeneamente candido (link: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Grigio_(cavallo)).
Ed effettivamente ricordo da bambino di questi cavalli nella zona di Maglie, come cavalli per attacchi agli ultimi “traini” e nei lavori agricoli per tirar gli ultimi aratri non a motore che ebbi fortuna di vedere anch’ io, echi millenari che affievoliti svanivano.
Quando mi avventuravo nelle incuriosite epiche escursioni fanciullesche per le campagne, passando di podere in podere, come se mi fosse sconosciuto assolutamente nella landa salentina il concetto di proprietà privata che minava la scoperta, ed entrando in quegli antri di antichi casolari, richiamato da suoni di zoccoli e sfiati di cavalli, nella penombra, tra il ronzio di guardiane mosche davanti agli occhi e il sottofondo ipnotico di galline lentamente razzolanti,
che sussulti nel petto veder vibrare la pelle che rendeva vive sagome misteriose di presenze ancestrali, altissime e imponenti per me bambino oltre una staccionata di interni recinti; alzavano la loro testa dalla paglia brucata, e mi facevano entrare nei loro immensi scuri occhi, sfere di viva arcana magia!
Pasquale Urso osserva come questo carattere del mantello già fosse attestato nel Salento antico, terra da sempre di cavalli, da quei cavalli bianchi dei Messapi che, Virgilio scrive nell’ Eneide, Enea e Anchise videro sulle coste salentine durante il loro primo approdo in terra italica.
Mantello pomellato come il piumaggio degli storni, da cui il suo nome.
Il poeta Pascoli non mancò di cantare di queste suggestioni equestri italiche nella sua poesia intitolata proprio “La Cavalla storna”.
E il nome storno, oltre l’ uccello i cui stormi descrivono coreografie affascinanti nel cielo del tramonto in Italia, mi ricorda anche di un famoso brigante del Sud Italia chiamato “u Sturnu” (nato a Parabita e le cui gesta sono strettamente legate anche a quella foresta Belvedere nel cuore del basso Salento in cui trovò rifugio datosi alla macchia (link: articolo nel sito https://culturasalentina.wordpress.com).

In questo approfondimento sugli animali domestici più caratteristici del Salento vorrei ricordare il tipico asino pugliese della razza nota come “Asino martinese”, un asino di grandi dimensioni che suggestivamente ci fa pensare al grande asino selvatico della specie “Equus asinus hydruntinus” appunto battezzato che viveva nel Paleolitico nella penisola salentina e più in generale nel Sud Italia, come i reperti fossili dimostrano, e che con tutta probabilità è lo stesso asino selvatico, l’onagro chiamato con nome di origine latina, che ancora vive nelle steppe asiatiche.

 

Asini martinesi, Puglia – foto dal Web, link foto.
Asino idruntino (Equus asinus hydruntinus), in un graffito preistorico di Grotta Niscemi (Palermo) posta sul Versante Occidentale di Monte Pellegrino.

 

Scriveva lo scrittore Varrone (116-27 a.C.), in latino, nella sua opera intitolata “Res Rusticae”: “Mandrie di Asini sono di norma possedute dai mercanti, come quelli che dalla regione di Brindisi e dall’ Apulia trasportano al mare olio o vino o altri prodotti con asini da soma”.

Il nome discende da quello della città di Marina Franca i provincia di Lecce, importante centro ippico sia per l’allevamento oggi del Cavallo Murgese che di questo asino tipicamente pugliese. Martina, un nome che discende, come anche quello della città di Martano in provincia di Lecce, da Marte, il nome del dio della guerra romano-italico. Non è forse un caso che San Martino venerato nel cristianesimo sia un santo guerriero.

Non sarebbe peregrina l’idea di avviare un ri-inselvatichimento dell’Asino in Puglia, magari a partire dall’asino martinese, o importando onagri e magari anche lasciandoli incrociare con asini martinesi in selvatico. In ogni caso l’Asino martinese oggi pur in domestico allevato allo stato brado-bucolico occupa la nicchia ecologica in passato occupata in Puglia dagli Asini selvatici!

Tra le specie di cani come non ricordare il compagno fedele del pastore del sud Italia, Puglia inclusa, il grande cane pastore della razza chiamata maremmano-abruzzese, pastore maremmano-abruzzese, o dai pastori propriamente chiamato, sia da ricerche etnografiche che da documenti storici “mastino”, “cane mastino” o “cane da masseria” (“masseria” nel sud Italia è sinonimo di fattoria).

 

Pastore maremmano-abruzzese con ‘‘vreccale” al collo anti-morsi del lupo. Immagine dal link.

 

E’ il cane difensore delle greggi dall’attacco di lupi, linci e orsi; una razza canina antichissima di cani coraggiosi e di gran forza fisica, di grande stazza e dal lungo pelo bianco, che i pastori difendevano al collo dai morsi dei lupi con il vraccale” (o “vreccale”) un collare di acciaio irto di spuntoni metallici.. Oltre alle pecore essi difendono anche il resto del bestiame: le capre, i bovini, i cavalli, gli asini, i muli, gli animali di bassa corte, anticamente anche le mandrie di bufali.

 

Spicca per graziosità la bianca Capra ionica tipica del Salento con le sue enormi orecchie pendenti in un gregge di razze caprine assortite. Nelle campagne tra i feudi di Scorrano e Botrugno, pomeriggio del 9 maggio 2023. Foto di Oreste Caroppo.

 

E noto da tempo immemorabile ai pastori è più in generale ai “massari” del Sud Italia un comportamento etologico misterioso, che par quasi un rito, effettuato dei cani pastori maremmani quando si trovano all’interno di un recinto con le pecore e in esso si intrufolano dei lupi che uccidono alcuni capi di bestiame. In questo caso l’intervento coraggioso dei cani pastori da difesa del gregge è all’ultimo sangue e se ad avere la peggio è il lupo in quei luoghi chiusi recintati questi cani attuano un comportamento che pare non facciano invece nel caso in cui l’attacco si è verificato in luogo aperto. I cani trascinano i cadaveri delle pecore morte mettendole una sull’altra posizionandole sopra il cadavere del lupo o dei lupi uccisi formando una sorta di catasta.
Si tratta di un intervento animale che in qualche modo mi richiama alla memoria, chissà perché, quella strana pila di pietre, il tumulo, che le leggende medievali dicevano fosse stato eretto da Re Artù per mettervi sopra la pietra sulla quale il suo cane aveva lasciato le orme.

 

Cane corso.

 

E non si può non ricordare poi il Cane Corso, una razza di cane molosside, (imparentato con la razza di cane molosside del sud Italia sempre chiamato “mastino napoletano”), adoperato per la guardia e per la caccia al cinghiale di origine proprio pugliese e anche Salentina. Il termine “corso” utilizzato in Puglia per chiamare questa razza canina deriva dal latino “cohors” che significa appunto protettore, guardia, o dal latino “cursus” che è termine legato all’atto del correre, forse per le corse, gli scatti rapidi e veloci, che questi cani facevano durante la caccia al cinghiale o per il loro correre al fianco dei cacciatori a cavallo, o durante l’uso militare sul campo di battaglia dei loro antenati cani molossi da guerra da parte dei Romani e delle genti italiche. In molti dialetti pugliesi la parola “corso” significa “coraggioso”. Tra le altre interessanti e antiche razze italiane mi piace qui ricordare di quella del Levriero italiano e del Cirneco dell’Etna, ecc. ecc., da qui l’importanza dei randagi e del randagismo crogiuolo di elementi delle varie razze, e da cui si possono riselezionare le antiche e ottenerne di nuove.

E molto probabile che nel passato Salentino esistessero anche capre allo stato selvatico nei secoli scorsi come quelle che ancora oggi si osservano su alcune isole Mediterraneo, come sull’ Isola di Montecristo in Italia nel Mare Tirreno (Mediterraneo occidentale) e sull’ Isola di Creta nel Mediterraneo orientale, si tratta di capre selvatiche chiamate egagro (anche chiamate “Kri-kri” a Creta) o inselvatichite, appartenenti alla specie Capra aegagrus/hircus, dalle lunghe corna.

 

Capre selvatiche/inselvatichite dell’Isola di Montecristo.

 

L’ Isola di Capraia nelle Isole Tremiti ha un toponimo che è un chiaro ricordo della presenza delle capre selvatiche anche nelle isole pugliesi. Nel mito antico, Zeus da piccolo, fu allattato da una capra chiamata Amaltea. Al suo corno si ricollegava miticamente il simbolo della cornucopia, il corno vuoto da cui emergono frutti e delizie della terra.

 

Becco, un caprone con caratteristica barbetta nel mosaico pavimentale del XII sec. d.C. nella Cattedrale di Otranto. Il caprone è detto anche “zimbaru” nel dialetto dell’odierna religione Calabria, e “jazzu” in dialetto salentino. Interessante sarebbe approfondire le relazioni linguistiche tra becco, bacca e Bacco (Iacco) epiteti di Dioniso dio a cui eran sacre le bacche, le capre, gli acini di uva.

 

Nel testo che descrive il Salento dei secoli ‘500 e ‘600, “Descrizione, origini e successi della
provincia d’ Otranto
” del filosofo e medico vissuto a cavallo tra cinquecento e seicento Girolamo Marciano di Leverano (Leverano, 1571 – Leverano, 1628) con aggiunte del filosofo e medico seicentesco sempre Domenico Albanese di Oria, tra gli animali selvatici presenti vengono indicati i cosiddetti “caprii”, ma è probabile si riferisca ai caprioli che sappiamo esser presenti al tempo in selvatico.

Nota naturalistica: un reperto osseo riconducibile ad un Egagro (Capra aegagrus), la Capra selvatica progenitrice delle capre domestiche italiane è stato ritrovato nel sito di Favella della Corte (Cosenza) e risale al Neolitico antico I dell’Italia meridionale, datato intorno a 7000 BP.
Un oggetto di origine venatoria importato in quel contesto insediativo neolitico dal Mediterraneo orientale o segno della presenza della Capra selvatica a quel tempo nel meridione d’Italia o delle prime Capre domestiche ancora in una fase di transizione con spiccati caratteri selvatici in Italia! Pensate dunque che attentato culturale e naturalistico la demonizzazione della presenza di capre sulle isole italiane, dove vi vivono da secoli ormai, introdotte dai marinai per averne degli allevamenti-dispesa venatoria a cielo aperto, da cui persino derivano i nomi di tante nostre isole. Isole che come l’allevamento sul continente sono arche di Noè. Pensate dunque, se ve ne fosse bisogno di ulteriori dati, che attentato la denigrazione delle Capre selvatiche e inselvatichite dell’Isola di Montecristo che hanno spiccate caratteristiche proprio dell’Egagro ancestrale!
Opportuni progetti di rinaturalizzazione, dobbiamo chiedere la creazione di popolamenti di Capre selvatiche-inselvatichite nel Sud Italia nei parchi naturali di Terra d’Otranto, attingendo alle Capre di Montecristo e partendo da quelle domestiche pugliesi (joniche e garganiche) da fare inselvatichire!

 

Il muflone (Ovis musimon).

 

Nelle isole mediterranee altrettanto importante anche la sopravvivenza, come in Sardegna, Corsica, Cipro e Rodi (per citare solo le più grandi),  ad esempio, dei Mufloni (Ovis musimon), le pecore selvatiche, di cui una comunità favorita dall’ uomo esiste anche oggi fortunatamente pare sul Gargano, ma urge diffonderlo in selvatico anche in Puglia con gruppi riproduttivi. Gli antenati delle pecore domestiche, che nel Salento si mostrano con la varietà alta e dalla pelle scura, chiamata pecora moscia leccese, grande produttrice di lana.

 

Pecore di razza moscia leccese, Masseria Paletta tra Minervino di Lecce e Palmariggi, 11 febbraio 2007, foto di Oreste Caroppo.

 

Nel mosaico pavimentale del XII sec. d.C. della Cattedrale di Otranto ritroviamo le pecore con degli arieti nel tondo dedicato al mese di aprile che mostra un pastore che porta al pascolo il suo gregge:

 

 

 

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