Il Cavallo Murgese il moro orgoglio di Puglia, in lui il sangue del cavallo di Artas!
Il Cavallo Murgese il moro orgoglio di Puglia, in lui il sangue del cavallo di Artas!

Forse tale dominante carattere scuro degli stupendi Cavalli Murgesi, dal mantello morello quasi corvino, (in taluni casi più rari a mantello testa di moro), dalle lunghe criniere, cavalli dagli zoccoli forti, profilo talvolta montonino, sanguigni, eleganti e possenti al contempo, era già un connotato dei cavalli dei messapi. Scrive Teofrasto (Ereso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.), filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele: “in certi luoghi gli animali nascono di colore scuro, (…), come presso i Messapi” (passo riportato dall’autore latino Plinio il Vecchio nella sua opera intitolata “Storia Naturale”).
Mi piace qui ricordare come idem viraggio al nero si osserva nel mantello degli Scoiattoli della specie autoctona Sciurus vulgaris; scendendo in Europa lungo la Penisola italiana esso assume colorazione sempre più scura, a partire dal bruno rossiccio più caratteristico delle popolazioni settentrionali, fino a giungere ad un pieno nero in Calabria nella varietà Sciurus vulgaris subspecie meridionalis. Una colorazione intermedia tra questi due estremi nel centro Italia.
Virgilio nell’Eneide ricorda di Messapo, eroe invincibile, domatore di cavalli, e parla anche di un cavallo chiamato iapigio, “equo Iapyge”!
Il loro nome deriva, si ritiene, da quello delle zone collinari pugliesi, le Murge, dove maggiore è il loro allevamento oggi, allevamento bucolico brado/semibrado. Ma se si tiene conto che Virgilio chiamava già forse gli antenati degli odierni cavalli di Puglia “Cavalli Iapigi”, e che i Morgeti (nome legato etimologicamente pare proprio a quello di “murge”) erano popoli presenti nel sud Italia, fino alla stessa Puglia, nell’ Età del Bronzo, prima ancora degli Iapigi abitatori della Puglia nell’ Età del Ferro, capiamo, nei corsi e ricorsi storici, quanto sia meraviglioso il nome di questi cavalli che rimanda a epoche così antiche, almeno all’ Età del Bronzo nella Puglia.
Artas, il cui nome abbiamo ricordato evocativamente nel titolo, fu un importante signore messapico. Non ne abbiamo conferme ad oggi genetiche di una piena discendenza di questo cavallo da quello dei Messapi negli stessi luoghi, ma è assai probabile che nonostante i continui apporti di cavalli da altrove a migliorare/modificare le razze locali una matrice di fondo autoctona possa esser rimasta con continuità ininterrotta.
Questi rinomatissimi e stupendi cavalli di Puglia il cui centro fulcro di allevamento è Martina Franca, nell’ottocento e forse anche prima erano probabilmente allevati allo stato brado anche nella Foresta del Belvedere e di Cutrofiano, nel cuore del basso Salento.
Estraiamo e riportiamo qui di seguito tra virgolette alcuni dati dall’articolo online dal titolo “Il Cavallo di Cutrofiano del Salento leccese: discende dai puledri di Anchise” del dottore agronomo studioso del territorio Antonio Bruno:
“Il famoso Bosco Belvedere, disteso nei Comuni di Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Supersano, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia. (…) Immenso latifondo boschivo, che al suo proprietario, il principe Gallone di Tricase, assicurava la pingue rendita di L. 42.500 e a tutti i Comuni confinanti gli usi civici. Smembrato, nel 1851, e suddiviso fra i Comuni interessati, a Supersano, dopo Scorrano e Nociglia, toccò la quota maggiore e forse la più bella, non solo per impianto e varietà di piante, ma anche per i pascoli eccellenti.“
Quel famoso bosco era la porzione meridionale della più vasto selva, (la “silva” anche chiamata probabilmente come ci ricorda un relitto toponimo di una contrada tra i feudi di Scorrano e Supersano), che occupava in passato il cuore del basso Salento. Una foresta tanto più vasta quanto più si va indietro nel tempo; si congiungeva pertanto a Nord con la Foresta di Cutrofiano, dai locali anche ricordata come “la Macchia-Foresta”, tanto che oggi utilizziamo il nome di Belvedere, nome assai gradevole al di là della sua vera origine etimologica, anche per indicare quella Foresta di Cutrofiano.
In merito alla Foresta di Cutrofiano e al suo feudo nell’articolo sopra citato di Antonio Bruno leggiamo:
“La foresta di Cutrofiano, che era ancora demanio nel Quattrocento, faceva parte della vasta macchia mediterranea che un tempo ricopriva il basso Salento. Si estendeva a sud del casale per 1000 tomoli corrispondenti a circa 716 ettari, procurando la legna che alimentava i forni per la produzione della terracotta [n.d.r. realizzati con l’argilla che si ritrova geologicamente lì in situ]. Oggi sono ancora visibili alcune parti come il “Boschetto” di querce a ovest del paese.”
“Nel 1484 il casale di Cutrofiano fu ceduto dalla corona Aragonese alla famiglia Del Croce-Capece fino al 1664 quando il feudo fu acquistato dai Filomarini che governarono fino al 1806, anno in cui fu soppressa la feudalità. Questa famiglia si distinse per gli allevamenti di cavalli di razza, molto ricercati nel Regno di Napoli.“
Lo studioso locale Aldo De Bernart ci riporta i passi scritti dal marchese Carlo Ulisse de Salis signore di Marschilins (1760 – 1818, un naturalista e viaggiatore svizzero) a commento dello spettacolo che gli apparve nel 1798 mirando la piana di Supersano dove si estendeva l’immenso “Bosco Belvedere”, tra questi il seguente: «Nei pascoli sopra queste alture – scrisse il De Salis nel suo libro raccolta di note di di viaggio “Nel Regno di Napoli” – e nella foresta di Supersano, sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente».
E nell’ apprezzamento del signore di Supersano dell’epoca, ovvero il nobile Carafa, il De Salis scrive “tiene en la tierra una cavallerizza del Baron de cinquanta cavallos”.
“La razza di Cavalli di Cutrofiano godette di largo prestigio per lungo tempo non solo nel regno di Napoli, ma soprattutto in Inghilterra” scrive Antonio Bruno nel suo articolo già sopra citato “Il Cavallo di Cutrofiano del Salento leccese: discende dai puledri di Anchise“.

Il nostro pensiero corre pertanto ai bellissimi Cavalli Murgesi dal mantello scuro vanto di Puglia, che a Supersano son ancor oggi allevati dai figli e nipoti dei “trainieri” del recente passato (“lu tràinu” in dialetto locale il tipico carro in legno da trasporto a trazione equina) e corre proprio a Martina Franca, (che è in provincia di Taranto ma un tempo facente parte della Terra d’Otranto), che è il fulcro dell’allevamento del Cavallo murgese ieri come oggi.
E dell’eroe eponimo dei Messapi (sinonimo di Salentini), da cui il grande poeta Ennio si vantava di discendere, Messapo, ecco cosa scrisse Virgilio nell’Eneide: “(…) At Messapum equum domitor Neptunia proles / quem neque fas igni cuiquam nec sternere ferro / iam pridem resides populos desuetaque bello / agmina in arma vocat subito ferrumque retractat.”, che tradotto significa: “Ma Messapo, domator di cavalli, prole nettunia, che a nessuno è lecito stendere né col fuoco né col ferro, chiama alle armi popoli già da tempo pigri e schiere disabituate alla guerra e subito riprende il ferro.” Proprio al Dio greco Poseidone (Nettuno per i latini), era sacro il cavallo. I Messapi eran dunque rinomati in antichità quali grandi leggendari allevatori e domatori di cavalli; essi, raccontano le antiche fonti, sacrificavano, gettandolo vivo in una grande pira di fuoco, un cavallo, in sacrificio al Dio “Juppiter Menzana”, (Giove Menzano, Zeus Stallone signore dei Cavalli, Zeus Cavallo);

I Messapi grande popolo di allevatori di cavalli e forse non a caso ancora oggi il cavallo è una delle pietanze immancabili della cucina salentina, i cosiddetti pezzetti di cavallo al sugo.
e ancora fino ai nostri giorni quasi, nella lingua chiamata localmente “griko”, (il greco salentino di antichissima origine, parlato in bilinguismo insieme al dialetto romanzo locale), il termine “mandzano” indica lo stallone , (vedi il “Vocabolario griko-italiano”, di Don Mauro Cassoni). Non è forse neppure un caso che nel Salento sia molto radicata la consumazione di carne di cavallo, (“pezzetti di cavallo al sugo”, un piatto tipico immancabile nelle osterie del Salento tutt’oggi, e non solo nelle osterie).
L’eroe acheo Diomede legato al Salento e ancor più alla Puglia del Nord, la Daunia, dai miti antichi che narravano le vicende degli eroi dopo la Guerra di Troia vede intrecciarsi la sua storia con quella dell’eroe troiano Enea anche lui approdato poi nel Capo Japigio (il Capo di Leuca) secondo il mito; Diomede si appropria in guerra a Troia dei cavalli di Enea, come racconta Omero. Inoltre Diomede è anche il nome di un gigante re di Tracia che aveva delle cavalle feroci che l’eroe greco Eracle (Ercole per i latini) dovette rubare in una delle sue mitiche fatiche. Eracle che pure dai miti antichi viene legato alla terra salentina.

Anche la variante “testa di moro”, oltre quella nera-morella, del mantello equino par ritrovarsi nei cavalli paleolitici europei, qui alcuni dipinti del Paleolitico superiore nella Grotta di Chauvet nella Francia del Sud, sempre che la scelta del colore risponda come il tratto ad una fedele rappresentazione realistica:

La Puglia è terra produttiva di cavalli, tanto che il condottiero cartaginese Annibale durante le sue scorribande in Italia ai danni di Roma, inviò, non a caso, presso i Sallentini, dei suoi guerrieri, per razziare cavalli per la sua cavalleria. (Da “la Puglia nel mondo romano storia di una periferia” di Francesco Grelle e Maria Silvestrini).

La presenza del cavallo in Puglia risale a molti millenni or sono. Basti pensare che i cavalli selvatici erano già presenti in questa terra fortunata e dalla grande biodiversità da epoche paleolitiche, come testimoniato dai reperti fossili rinvenuti nel Salento, (vedi solo ad esempio le esposizioni di fossili nel Museo Paleontologico di Maglie), e in tutta la Puglia, e dai dipinti paleolitici che li ritraggono sulle pareti di grotte sul Gargano (Grotta Paglicci).

A testimonianza di quanto la Puglia fosse terra di cavalli lo storico romano Tito Livio racconta che Annibale mandò sue truppe a predare nel territorio dei Sallentini e nelle boscaglie dell’Apulia, e che vi catturarono soprattutto mandrie di cavalli.
Osservando il cavallo di Marco Aurelio nella sua statua equestre a Roma in Campidoglio c’è chi vi ha visto caratteristiche che si conservano nei cavalli murgesi. E l’imperatore Marco Aurelio vantava di discendere per parte di madre da dinastie regali messapiche.

All’inizio del sedicesimo secolo, la Repubblica di Venezia scelse le Murge, probabilmente perché terra da sempre vocata all’allevamento equino, per impiantare il più importante dei suoi allevamenti equini. Era “La Cavallerizza”, masseria delle Murge baresi entrata nelle leggenda perché da questa struttura, ancora esistente, sono usciti alcuni fra i più importanti stalloni d’Europa. Sul prospetto della masseria Cavallerizza, nell’agro monopolitano, è incastonato un bassorilievo raffigurante il leone di San Marco.
Il cavallo murgese (che anche si potrebbero chiamare senza sbagliare murgesi-neapolitani), che certamente conserva il sangue dei famosi cavalli neapolitani (tipici del Regno di Napoli) tra i diversi contributi autoctoni e di importazione per la sua ottimizzazione, è stato poi alla base del miglioramento e della nascita di altre famose razze come quella lipizzana nella quale, si pensi, il mantello dominante è il grigio, ma i puledri nascono morelli (colore tipico dei murgesi) o baio scuro per imbiancarsi gradualmente nel giro di 7-10 anni.

In questo approfondimento sugli animali domestici più caratteristici del Salento vorrei ricordare il tipico asino pugliese della razza nota come “Asino martinese”, un asino di grandi dimensioni che suggestivamente ci fa pensare al grande asino selvatico della specie “Equus asinus hydruntinus” appunto battezzato che viveva nel Paleolitico nella penisola salentina e più in generale nel Sud Italia, come i reperti fossili dimostrano, e che con tutta probabilità è lo stesso asino selvatico, l’onagro chiamato con nome di origine latina, che ancora vive nelle steppe asiatiche.


Scriveva lo scrittore Varrone (116-27 a.C.), in latino, nella sua opera intitolata “Res Rusticae”: “Mandrie di Asini sono di norma possedute dai mercanti, come quelli che dalla regione di Brindisi e dall’ Apulia trasportano al mare olio o vino o altri prodotti con asini da soma”.
Il nome discende da quello della città di Marina Franca i provincia di Lecce, importante centro ippico sia per l’allevamento oggi del Cavallo Murgese che di questo asino tipicamente pugliese. Martina, un nome che discende, come anche quello della città di Martano in provincia di Lecce, da Marte, il nome del dio della guerra romano-italico. Non è forse un caso che San Martino venerato nel cristianesimo sia un santo guerriero.
Non sarebbe peregrina l’idea di avviare un ri-inselvatichimento dell’Asino in Puglia, magari a partire dall’asino martinese, o importando onagri e magari anche lasciandoli incrociare con asini martinesi in selvatico. In ogni caso l’Asino martinese oggi pur in domestico allevato allo stato brado-bucolico occupa la nicchia ecologica in passato occupata in Puglia dagli Asini selvatici!
Tra le specie di cani come non ricordare il compagno fedele del pastore del sud Italia, Puglia inclusa, il grande cane pastore della razza chiamata maremmano-abruzzese, pastore maremmano-abruzzese, o dai pastori propriamente chiamato, sia da ricerche etnografiche che da documenti storici “mastino”, “cane mastino” o “cane da masseria” (“masseria” nel sud Italia è sinonimo di fattoria).

E’ il cane difensore delle greggi dall’attacco di lupi, linci e orsi; una razza canina antichissima di cani coraggiosi e di gran forza fisica, di grande stazza e dal lungo pelo bianco, che i pastori difendevano al collo dai morsi dei lupi con il “vraccale” (o “vreccale”) un collare di acciaio irto di spuntoni metallici.. Oltre alle pecore essi difendono anche il resto del bestiame: le capre, i bovini, i cavalli, gli asini, i muli, gli animali di bassa corte, anticamente anche le mandrie di bufali.

E noto da tempo immemorabile ai pastori è più in generale ai “massari” del Sud Italia un comportamento etologico misterioso, che par quasi un rito, effettuato dei cani pastori maremmani quando si trovano all’interno di un recinto con le pecore e in esso si intrufolano dei lupi che uccidono alcuni capi di bestiame. In questo caso l’intervento coraggioso dei cani pastori da difesa del gregge è all’ultimo sangue e se ad avere la peggio è il lupo in quei luoghi chiusi recintati questi cani attuano un comportamento che pare non facciano invece nel caso in cui l’attacco si è verificato in luogo aperto. I cani trascinano i cadaveri delle pecore morte mettendole una sull’altra posizionandole sopra il cadavere del lupo o dei lupi uccisi formando una sorta di catasta.
Si tratta di un intervento animale che in qualche modo mi richiama alla memoria, chissà perché, quella strana pila di pietre, il tumulo, che le leggende medievali dicevano fosse stato eretto da Re Artù per mettervi sopra la pietra sulla quale il suo cane aveva lasciato le orme.

E non si può non ricordare poi il Cane Corso, una razza di cane molosside, (imparentato con la razza di cane molosside del sud Italia sempre chiamato “mastino napoletano”), adoperato per la guardia e per la caccia al cinghiale di origine proprio pugliese e anche Salentina. Il termine “corso” utilizzato in Puglia per chiamare questa razza canina deriva dal latino “cohors” che significa appunto protettore, guardia, o dal latino “cursus” che è termine legato all’atto del correre, forse per le corse, gli scatti rapidi e veloci, che questi cani facevano durante la caccia al cinghiale o per il loro correre al fianco dei cacciatori a cavallo, o durante l’uso militare sul campo di battaglia dei loro antenati cani molossi da guerra da parte dei Romani e delle genti italiche. In molti dialetti pugliesi la parola “corso” significa “coraggioso”. Tra le altre interessanti e antiche razze italiane mi piace qui ricordare di quella del Levriero italiano e del Cirneco dell’Etna, ecc. ecc., da qui l’importanza dei randagi e del randagismo crogiuolo di elementi delle varie razze, e da cui si possono riselezionare le antiche e ottenerne di nuove.
E molto probabile che nel passato Salentino esistessero anche capre allo stato selvatico nei secoli scorsi come quelle che ancora oggi si osservano su alcune isole Mediterraneo, come sull’ Isola di Montecristo in Italia nel Mare Tirreno (Mediterraneo occidentale) e sull’ Isola di Creta nel Mediterraneo orientale, si tratta di capre selvatiche chiamate egagro (anche chiamate “Kri-kri” a Creta) o inselvatichite, appartenenti alla specie Capra aegagrus/hircus, dalle lunghe corna.

L’ Isola di Capraia nelle Isole Tremiti ha un toponimo che è un chiaro ricordo della presenza delle capre selvatiche anche nelle isole pugliesi. Nel mito antico, Zeus da piccolo, fu allattato da una capra chiamata Amaltea. Al suo corno si ricollegava miticamente il simbolo della cornucopia, il corno vuoto da cui emergono frutti e delizie della terra.

Nel testo che descrive il Salento dei secoli ‘500 e ‘600, “Descrizione, origini e successi della
provincia d’ Otranto” del filosofo e medico vissuto a cavallo tra cinquecento e seicento Girolamo Marciano di Leverano (Leverano, 1571 – Leverano, 1628) con aggiunte del filosofo e medico seicentesco sempre Domenico Albanese di Oria, tra gli animali selvatici presenti vengono indicati i cosiddetti “caprii”, ma è probabile si riferisca ai caprioli che sappiamo esser presenti al tempo in selvatico.

Nelle isole mediterranee altrettanto importante anche la sopravvivenza, come in Sardegna, Corsica, Cipro e Rodi (per citare solo le più grandi), ad esempio, dei Mufloni (Ovis musimon), le pecore selvatiche, di cui una comunità favorita dall’ uomo esiste anche oggi fortunatamente pare sul Gargano, ma urge diffonderlo in selvatico anche in Puglia con gruppi riproduttivi. Gli antenati delle pecore domestiche, che nel Salento si mostrano con la varietà alta e dalla pelle scura, chiamata pecora moscia leccese, grande produttrice di lana.

Nel mosaico pavimentale del XII sec. d.C. della Cattedrale di Otranto ritroviamo le pecore con degli arieti nel tondo dedicato al mese di aprile che mostra un pastore che porta al pascolo il suo gregge: