Il “Detto del Gatto lupesco” un poemetto del ‘200 ispirato dal mosaico di Otranto e dal mistero su Re Artù in Italia che esso cela?

Il “Detto del Gatto lupesco” un poemetto del ‘200 ispirato dal mosaico di Otranto e dal mistero su Re Artù in Italia che esso cela?

Dagli studi intorno al mosaico idruntino

di Oreste Caroppo

 

Il felide che assalta Re Artù nel mosaico di Otranto del XII sec. d.C. – confronto con il leopardo sopra a destra, la lince sopra a sinistra e il gatto selvatico a centro in basso. La coda del felide rappresentato non è corta come nella lince, né gonfia come quella del gatto selvatico, ma più paragonabile a quella del leopardo, ma è pur troppo corta rispetto a quella del leopardo. Nella scena del felide che morde alla gola il cavaliere di Re Artù o il Re Artù stesso le orecchie non a punta possono ricordare i ciuffi di peli sulle orecchie che ha proprio la lince, come nella scena del felide che salta verso Artù le orecchie potrebbero essere compatibili con la lince. Un felide intermedio artisticamente parlando tra leopardo e lince. O un grosso gatto domestico inselvatichito. Il leopardo e la lince sono associati nel mito e rito greco a Dioniso. Due tipologie animali presenti in Salento nel passato remoto, e la lince ancora fino a pochi secoli or sono; mentre dovrebbero ancora esser presenti i gatti selvatici, come sono presenti i gatti domestici (varietà catus del gatto selvatico). Si tenga anche presente poi nei confronti che un gatto per quanto grosso non ha in Europa mantello pardino ma tigrato. Mentre è pardino il mantello del “gattone” che salta alla gola di Re Artù.

 

Di grande rilievo è nel contesto degli studi sul ciclo arturiano e su Artù in sud Italia la rilettura di un’opera troppo trascurata ad oggi, anche simpatica nel ritmo, e per certi versi misteriosa, che ha posto non pochi problemi letterari, ma che ora possiamo rileggere in una chiave illuminante: si tratta del testo anonimo intitolato “Detto del gatto lupesco”, un poemetto di 144 versi, che è contenuto in un codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. E’ attribuito a un rimatore fiorentino ed è databile agli ultimi decenni del XIII secolo. (Per il testo intero vedi: da “Poeti del Duecento”,  a cura di Gianfranco Contini Ricciardi, Milano-Napoli, 1960 – riporto il testo intero anche in calce). Il componimento fu provvisto del cartellino «Detto» dal suo primo editore ottocentesco (T. Casini «Rime inedite dei secoli XIII e XIV», in “Il Propugnatore”, 15, 1882, pp. 335-339).

 

Condivido questo bel video di un bravo attore, il poemetto il cui testo intero qui trovate; è ben recitato in adeguata ambientazione. Il commento al video fornisce ulteriori dati sul “Detto del Gatto lupesco“.

Nota: nel “Detto del Gatto lupesco” quel verso tra gli iniziali “per lo mondo tuttavia” non può che richiamarci alla mente anche un’altra opera molto famosa che sarà scritta secoli dopo, e che tra i primi versi ha questo “che si fugge tuttavia“, cioè il componimento poetico “Il trionfo di Bacco e Arianna“, o Canzona di Bacco, scritto probabilmente nel 1490 da Lorenzo il Magnifico, fa parte dei Canti carnascialeschi (canti di carnevale) e ha vari aspetti di tipo popolaresco con la presenza di figure mitologiche come Bacco, divinità dell’ebbrezza e del vino, Arianna ed anche di satiri e ninfe.

Alcune note sul poemetto da uno studio “GIULLARI D’ITALIA UNA LETTURA DEL DETTO DEL GATTO LUPESCO” di Michelangelo Picone dell’Università di Zurigo, edito nel 1995: “Contrassegnato dalle abituali marche giullaresche, metriche (il ricorso al distico di otto-novenari, a imitazione dell’ octosyllabe oitanico, qui passibile addirittura di un’escursione decasillabica), stilistiche (la ripetizione di parole, sintagmi e motivi [ad esempio quello del saluto, attestato ai vv. 13, 35, 38, 48, 82]) e ricezionali (la trasmissione anonima affidata al foglio di guardia di un ms., il magliabechiano della Nazionale di Firenze siglato n.iv.lll, datato 1274 per la parte organica contenente opere a carattere didattico e morale), il Detto del Gatto lupesco si presenta all’interprete come il testo più ambivalente fra quelli ricordati finora; e questo nonostante la semplicità della sua composizione e la limpidezza della sua espressione. In realtà la critica specialistica registra in questo caso un’oscillazione fra due interpretazioni manifestamente inconciliabili fra di loro: quella seria e allegorica avanzata da C. Guerrieri Crocetti, per il quale il Detto sarebbe addirittura un «antesignano della Commedia» dantesca; e quella burlesca e ironica difesa da L. Spitzer, che vede invece nel Detto l’inizio di una tradizione comica che porterà a Rabelais e Cervantes”.

L’opera il “Detto del Gatto lupesco” sembra scritta, possiamo oggi qui dire e proporre, da un poeta che era giunto a Otranto e aveva visitato proprio la Cattedrale rimanendone molto colpito, impressionato dal suo mosaico pavimentale del XII sec. d.C., e dalle storie che vi senti lì narrare. Egli non cita né Otranto, né il mosaico, ma vediamo i particolari che fanno supporre questo suo legame con la realtà idruntina.

Nel brano poetico è il “Gatto lupesco” stesso a parlare, il poeta si presenta in queste vesti, e racconta di essersi imbattuto d’un tratto lungo un sentiero in due cavalieri della corte di Re Artù.

Grande la similitudine con i due cavalieri guerrieri che si incontrano a Otranto nel mosaico della navata centrale al suo inizio. Vicino vi è quello che sembra un cavallo imbizzarrito con la criniera al vento, ma non ha i tipici zoccoli dei cavalli e che correttamente si osservano negli altri equini del mosaico; potrebbe essere la leucrota dei bestiari antichi? Vedi per approfondimento “Il “Bestiario” del mosaico medioevale di Otranto: approfondimenti su alcune creature raffigurate (mostri, animali, piante, ecc.)“.

 

 

Nei loro pressi vediamo anche qui sulla destra in alto un gatto, pare il Gatto con gli stivali, figura fiabesca lì ante-litteram (cui dedico un approfondimento anche qui in questo mio articolo al link).

 

Gatto con gli stivali, mosaico pavimentale medioevale della Cattedrale di Otranto, nelle parti iniziali della navata centrale prossime all’ingresso. Una rappresentazione pertanto precedente alla messa per iscritto della fiaba del gatto degli stivali nelle versioni a noi giunte. Certo se un gatto è un gatto con la coda mozzata, e se ne vedono di esemplari con questa amputazione accidentale, ma volendo leggere l’aspetto come invece una caratterizzazione tassonomica naturalistica e dato anche il colore del mantello (comunque compatibile anche con un gatto) allora si dovrebbe dire che è una lince.

 

Già il mosaico di Otranto ha anticipato in figure quelle che saranno leggende messe per iscritto tempo dopo o delle quali si son perse oggi le fonti scritte più antiche, è ad esempio il caso, perlomeno parrebbe, della figura del “Gatto con gli stivali“.

Quella del “Gatto con gli stivali” è una fiaba popolare europea della quale la più antica attestazione scritta risale a Giovanni Francesco Straparola (Caravaggio in Lombardia, 1480 – 1557 o più tardi), che la incluse nella raccolta intitolata “Le piacevoli notti” (pubblicate a partire dal 1550) con il titolo di Costantino Fortunato.

 

Il Gatto con gli stivali e il suo padrone in un’illustrazione ottocentesca di Carl Offterdinger.

 

Era incerto se Straparola avesse inventato la fiaba o avesse semplicemente trascritto un racconto della tradizione orale, ma a meno di una strana coincidenza quanto si osserva a Otranto lascia ipotizzare che sia più valida la seconda ipotesi. Un secolo più tardi la fiaba fu messa per iscritto nella versione di Giambattista Basile (Giugliano in Campania, 1566 – Giugliano in Campania, 1632) un letterato e scrittore napoletano di epoca barocca.

C’era comunque, possiamo dire, un immaginario medioevale favolistico che parlava di felini gatti (o magari anche linci) che provavano ad emulare l’uomo e che fu il sostrato per lo sviluppo della leggenda del gatto degli stivali nelle forme messe secoli dopo per iscritto anche nello stesso Regno del sud Italia, il Regno di Napoli di cui la Terra d’Otranto fece parte. Esistevano leggende più antiche, raccontate da Plinio il Vecchio nella sua opera “Naturalis Historia“, sulla emulazione da parte delle scimmie dei comportamenti umani, si diceva che se vedevano uomini indossare stivali e poi trovavano stivali incustoditi provavano a calzarli, tanto che ci fu chi si era ingegnato a riempirli di colla di vischio così che la scimmia non riusciva più a scappar via agilmente e rifugiarsi sugli alberi e la si poteva catturare, ne era nata, racconta Plinio, una tecnica venatoria verso le scimmie. Qui le orecchie a punta sulla sommità del capo ci permettono di dire che una scimmia non è! Scimmie nel mosaico idruntino son raffigurate (una con lunga coda, una senza, quella senza forse allora un macaco silvano – specie che nel Pleistocene viveva anche in Europa) nel mosaico sul pavimento dell’abside della Cattedrale di Otranto.

Un inizio del mosaico idruntino compatibile dunque con la suggestione di un felide antropomorfizzato quale la figura del poeta che si dice un “Gatto lupesco” nel suo poemetto. Inoltre nel vasto mosaico idruntino non mancano raffigurazioni di lupi e grossi cani. E vedremo di altri felini, in particolare per la suggestione sul poeta quello che assalta Artù.

Il felide lupesco (della finzione poetica) nel rivolgersi ai due cavalieri che incontra, è come se lasci intendere che non li aggredirà se loro gli diranno la verità alle domande che lui porrà.

«Io cerco – dice il Gatto lupesco – di adescare, di cogliere in fallo, quelli che non mi dicono la verità».

Ai cavalieri il gatto lupesco chiede dunque perché siano lì, in terra Italica, cosa vanno cercando così lontano da casa. E loro gli rispondono che son Cavalieri di Bretagna, che sono stati sul monte Etna per lungo tempo “per apparare ed invenire / la veritade di nostro sire / lo re Artù, k’avemo perduto / e non sapemo ke·ssia venuto. / Or ne torniamo in nostra terra, / ne lo reame d’Inghilterra.

L’ Etna è chiamato nel “Detto del Gatto lupesco”, “Mongibello”, il nome con cui lo chiama anche Gervasio da Tilbury, che precisava che era il nome dato volgarmente proprio all’Etna, vedi per approfondimento il mio paragrafo intitolato “Le leggende medioevali che narravano della presenza di Re Artù sul monte Etna“.

Se immaginiamo, (e vedremo come altri particolari rafforzeranno questa ipotesi), che le suggestioni ispiratrici dell’opera vengano in gran parte al poeta da Otranto, è dunque come se il rimatore si sia immedesimato nel felide (pantera/lince/gatto) che nel mosaico di Otranto ha visto raffigurato come se l’animale fosse incappato di fronte a Re Artù, signore dei cavalieri, (che è a cavallo del caprone), e al suo paggio-cavaliere magari palafreniere (che appare nudo), sul medesimo sentiero e sui quali di lì a poco balzerà sopra aggressivo.

Particolare del mosaico pavimentale della navata centrale della Cattedrale di Otranto con la scena di Artù in groppa la caprone durante l’assalto del felide, sotto lo sguardo atterrito di un potenziale giovane Parsifal:

 

Scena di Re Artù con scettro sul caprone e dell’assalto di un felide con una figura nuda fanciullesca, mosaico pavimentale medioevale di Otranto.

 

Il rimatore anonimo aggiunge poi, nella versione in rima che ci narra, proprio quel mistero e quella confusione che aleggiava nei racconti nel sud Italia su Re Artù, la cui dimora finale veniva posta in terre del Sud, e in particolare sul misterioso monte Etna catalizzatore di miti da sempre per la sua natura di immenso vulcano. Perché proprio in sud Italia?! E i suoi due cavalieri son venuti in Italia, parafrasando i versi precedenti in cui loro rispondono: “per apprendere e per scoprire la verità sul nostro sire, re Artù, che abbiamo perduto e di cui non conosciamo la sorte.” E senza aver trovato la verità se ne tornano sconsolati in Inghilterra! Il dubbio sollevato da questa apparizione del mito di Artù e della figura della fata Morgana in sud Italia e Sicilia si rafforzava con un altro dilemma: non solo non si sapeva storicamente che fine avesse fatto Artù, ma sin dagli albori del medioevale letterario ciclo arturiano fu chiaro che la storia dell’Artù bretone era fumosa, senza solide basi storiche, a differenza invece dell’altra parallela famosa saga cavalleresca medioevale, quella di Re Carlomagno e i suoi Paladini, comunque fondata su personaggi realmente vissuti, alcuni se non tutti, che pur nell’epicizzazione e finzione letteraria erano collocabili nella spazio e nel tempo con una certa precisione storiografica. I dubbi si insinuavano negli uomini di lettere, storici, rimatori, giullari, uomini di chiesa, ecc., e forse più d’uno percepì, come anche l’autore del “Detto del Gatto lupesco“, che la soluzione andasse cercata nel sud Italia dove stranamente il mito di Artù e Morgana, che teoricamente doveva esser giunto da poco, dopo la conquista normanna del XI sec. d.C., appariva invece quasi come ben radicato e popolarmente famigliare, stesso dubbio che poi con un’ipotesi più solida verrà esposto dal mago Tafuri qualche secolo dopo (nel XVI sec. d.C.): “In la provincia nostra de Terra d’Otranto fu un re per nome Re Artù – e fosse lo medesimo o un altro de quel Artù Re del Inghilterra nol so“. Ipotesi a cui noi aggiungiamo l’identificazione di quel Re Artù di Terra d’Otranto di cui parla il Tafuri con il Re Artos il Grande dei Messapi antichi salentini ben noto dalle fonti storiografiche antiche!

L’ enigma da un lato, ma anche la ricerca della veritas dall’altro, dell’aletheia potremmo dire, (ἀλήθεια, è una parola greca tradotta in più maniere come “dischiudimento”, “svelamento”, “rivelazione” o “verità”), su Re Artù.

Per approfondimento di questi aspetti rimando al mio saggio intitolato: “Artù l’antico re di un regno italiano la cui leggenda conquistò la Britannia?“.

Nel seguito della poesia il “gatto lupesco” narra d’aver deciso di andare in Terra Santa, e durante il suo cammino, viene ospitato da un “romito”, un monaco eremita che gli dà ostello nel suo luogo di eremitaggio. La scena mi ricorda anche quella di Perceval che incontra l’eremita nel romanzo di Chrétien de Troyes. Il poeta fornisce anche particolari sulla dimora dell’eremita, come ad esempio il fatto che essa avesse uno sportello: scrive che esce dal “rumitag[g]io / per un sportello k’avea la porta”, (parafrasi: dal luogo-dimora dell’eremita che lo aveva ospitato esce attraverso un passaggio che aveva una porta). L’autore del “gatto lupesco” utilizza suggestioni di immagini viste e di narrazioni di cui ha fatto esperienza a Otranto e nel sud Italia, questa è la nostra ipotesi.

Questa descrizione mi fa suggestivamente pensare ad una scena effigiata nell’abside del mosaico otrantino ancora enigmatica che la si potrebbe dire per le sue sembianze a prima vista “scena dell’eremita”, dove però un’analisi iconografica più attenta mi porta ad ipotizzare che si tratti di una scena di resurrezione del Cristo e anastasi; ne ho discusso in questo mio scritto “CRISTO RISORTO è raffigurato sul mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto?!” (e anche in questo “Il GRAAL e ARTÙ nel mosaico pavimentale medioevale della CATTEDRALE di OTRANTO? L’enigma di una raffigurazione che precederebbe di alcuni anni l’opera di Chrétien de Troyes la quale rese universalmente famoso il tema del Graal in tutta Europa. Ma dove nacque quella storia allora?“).

 

Misteriosa scena che diciamo suggestivamente “scena dell’eremita”, uomo con barba e bastone/croce a T (tau) e fanciullo, rappresentati dietro quelli che dovrebbero essere sportelli tenendo conto di come altre porte sono rappresentate nel medesimo mosaico, ad esempio le porte del Paradiso ben identificabili dal contesto iconografico (ad indicare che sono all’interno di un edificio, forse una chiesa o una cripta eremitica, una grotta o sepolcro?), nel mosaico pavimentale del XII sec. d.C. nell’abside della Cattedrale di Otranto. Per approfondire vedi “CRISTO RISORTO è raffigurato sul mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto?!“.

 

In  quella scena del mosaico c’è un particolare che non era stato sottolineato adeguatamente ad oggi, i due, l’uomo barbuto come un eremita con bastone croce a tau e un possibile giovane stan dietro due porticine: la si potrebbe credere la rappresentazione del fatto che son dentro un luogo di eremitaggio/chiesetta? Così si potrebbe pensare se si interpreta come eremita l’uomo barbuto, ma per questa scena rimando all’approfondimento sopra linkato.

L’ eremita spiega al “gatto lupesco”, che gli chiede informazioni, la strada per la Terra Santa, e gli indica con la mano una croce all’orizzonte che il “Gatto lupesco” deve raggiungere.

Ritroviamo questo aspetto della richiesta di informazioni e l’immagine dell’interrogato che con il dito indica una direzione in risposta nella scena prossima dei due uomini su una barchetta nell’abside della Cattedrale idruntina, di cui abbiam trattato interrogandoci sull’ispirazione che il mosaico di Otranto ha dato per la nascita del romanzo sul Graal, e comunque dal confronto con il ciclo di Giona nel mosaico di Aquileia precedente a quello di Otranto quella scena degli uomini in barca che pescano si inserisce senza problemi nell’iconografia nei cicli musivi di Giona, dove l’eventuale indicazione data a Giona sulla riva si riferisce alla direzione che il profeta Giona deve seguire per raggiungere Ninive. Scena che abbiamo pure immaginato abbia ispirato Chétrien nella costruzione del suo favolistico racconto del Graal e Perceval.

L’eremita, rivolto quindi al “Gatto lupesco”,

co la mano mi mostròe
una croce nel diserto,
[lungi] ben diece miglia certo,
e disse: «Colà è lo cammino
onde va catuno pelegrino
ke vada o vegna d’oltremare»

Il “deserto”? Forse aree del Salento brulle e disboscate che si incontravano in quel tempo? O una suggestione poetica a richiamo dei territori africani e medio-orientali verso cui era diretto.

 

Mappa con posizione dei principali centri nel Bacino del Mediterraneo nell’ XII e XIII secolo d.C. rispetto a Otranto. E’ dunque Otranto il luogo indicato da questi versi: «Colà è lo cammino / onde va catuno pelegrino / ke vada o vegna d’oltremare»?

 

Il “gatto lupesco” aveva trovato i cavalieri di Re Artù in Italia, è dunque ancora in Italia, e l’eremita gli indica una croce posta a circa dieci miglia di distanza, lì dove troverà un porto per imbarcarsi.

 

Otranto, Cattedrale facciata con la sua croce in cima e campanile al lato.

 

E la croce, possiamo intuire nei versi successivi, è quella della Cattedrale di Otranto, il cui territorio circostante pullulava di monaci eremiti, soprattutto basiliani e non solo, e di eremi, nel medioevo. Lungo la costa rocciosa a nord di Otranto, solo ad esempio, una grotta porta ancora il nome, qui per noi suggestivo, di “Grotta dell’ Eremita”.

Infatti il “Gatto lupesco” scrive dopo: “E a l’andare k’io facea / verso la croce tuttavia / sì vidi bestie ragunate, / ke tutte stavaro aparechiate / per pigliare ke divorassero, / se alcuna pastura trovassero. / Ed io ristetti per vedere, / per conoscere e per sapere / ke bestie fosser tutte queste / ke mi pareano molte alpestre; / sì vi vidi un grande leofante / ed un verre molto grande / ed un orso molto superbio / ed un leone ed un gran cerbio; / e vidivi quattro leopardi / e due dragoni cun rei sguardi; / e sì vi vidi lo tigro e ’l tasso / e una lonça e un tinasso; / e sì vi vidi una bestia strana, / ch’uomo appella baldivana; / e sì vi vidi la pantera / e la giraffa e la paupera / e ’l gatto padule e la lea / e la gran bestia baradinera; / ed altre bestie vi vidi assai, / le quali ora non vi dirai, /
ké nonn·è tempo né stagione. / Ma·ssì vi dico, per san Simone, / ke mi partii per maestria / da le bestie ed anda’ via,” imbarcandosi da lì e raggiungendo i paesi orientali delle avventure crociate.”

Si potrebbe usare come guida il “Detto del Gatto lupesco” da rileggere nella Cattedrale cercando quanto raccontato nel mosaico.

 

Seguendo il mosaico dall’ingresso della navata centrale vediamo quasi proprio gli stessi animali citati dal poeta e quasi nell’ordine medesimo, a cominciare proprio con gli elefanti, e poi si potrebbe quasi per ogni animale e mostro citato andare a cercarlo nel mosaico.

E’ vero che per i pellegrini e crociati, che visitavano la Cattedrale, i suoi animali e mostri sul pavimento musivo rappresentavano, quasi in una sorta di film horror, i pericoli per l’anima, i vizi, i peccati, ma anche i pericoli reali da cui guardarsi nel periglioso viaggio per ed in Terra Santa, una scuola spirituale prima del viaggio, ma qui capiamo da questa nostra analisi dell’opera del “Gatto lupesco”, che non son solo allegorie, ma la descrizione di una suggestione impressionante proprio provata nel percorrere le navate della Cattedrale, verso la croce finalmente nell’abside. Una suggestione iniziatica che si può avere ancora oggi in quella chiesa, e che il poeta vivifica, facendo sparire le mura della chiesa e rappresentando come vive quelle creature insidiose.

Non solo gran parte degli animali e mostri citati sarebbe ben individuabile nel bestiario figurato del mosaico di Otranto, ma vi troviamo anche questa immagine:  “e vi divi quattro leopardi”, che par quasi la descrizione dell’enigmatico leone dai quattro corpi convergenti in un’unica testa, grande figura nel mosaico della navata centrale.

 

Leone quadri-corporeo, immagine in bianco-nero, mosaico pavimentale medioevale della Cattedrale di Otranto, navata centrale.

 

Il “Detto del gatto lupesco” cita il trattamento come ladrone crocifisso di Cristo e nel mosaico di Otranto è raffigurato San Disma (il buon ladrone dei Vangeli); “l’uomo per kui Cristo è atenduto”, forse è l’Ebreo errante e mi piace qui ricordare come al tempo vi fosse in Otranto una fiorente comunità ebraica, e tanto era il suo prestigio che presso gli ebrei si diceva che «la parola del signore uscirà da Otranto», vi ospitava infatti uno scriptorium ebraico di testi giuridici per le accademie (una densità culturale a Otranto notevole se pensiamo che era presente anche la cristiana biblioteca con operosità di diversi copisti nel monastero di monaci basiliani di San Nicola di Casole, monastero che tra XII e XIII sec. d.C. vide anche fiorirvi un circolo di poeti intorno al maestro il monaco Nettario). Il poeta descrive “quattro leopardi” tra gli animali incontrati mentre si reca verso la Croce, che par quasi un riferimento al grande leone quadricorporeo ritratto nel mosaico di Otranto nella navata centrale; cita persino l’incontro di un “gatto padule”, lui che già suggestivamente si fa chiamare “gatto lupesco”. Il “gatto padule” tenendo contro del ciclo arturiano doveva essere proprio l’animale con cui veniva più facilmente identificato dai conoscitori della saga arturiana il felide che si vede lanciarsi su Re Artù nel mosaico idruntino, nonostante comunque le difficoltà ermeneutiche che pone quella scena musiva idruntina molto peculiare e misteriosa con il Re senza spada ma con scettro bastone clavato-pomato e a dorso di caprone (vedi il concetto del “gatto di palude”, “gatto di Palug” di cui ho approfondito in “Il GRAAL e ARTÙ nel mosaico pavimentale medioevale della CATTEDRALE di OTRANTO?“).

L’opera del “Gatto lupesco” è si un’ opera vagamente iniziatica, giullaresca, animata dal piacer giocoso del rimare, ma non è un mero parto della fantasia dell’autore, come ad oggi invece banalmente creduto, e anche quella trovata che par interamente fantasiosa dell’ essere ibridamente zoomorfo del “Gatto lupesco”, rivela invece, in  queste nostre ipotesi esegetiche di lettura, tutta una profonda connessione ispiratrice con l’opera musiva idruntina.

Il poeta anonimo cita l’Etna in Sicilia, l’analisi del testo ha portato gli studiosi recenti del poemetto a immaginare che il suo autore fosse un fiorentino che scrive in volgare fiorentino, anche perché il poemetto è stato ritrovato in Toscana, ma siamo sicuri non si trattasse comunque di un poeta della Scuola poetica Siciliana fiorita proprio nel duecento intorno alla corte nel sud Italia e Sicilia, Puglia inclusa, del Re Federico II di Svevia e che quindi aveva modo di visitare la Puglia e ascoltare le leggende su Artù circolanti in Sicilia e non solo? Le poesie prodotte dai poeti della scuola siciliana non mancarono di avere ampia diffusione nella Penisola italiana.

 

Castel del Monte, fatto edificare da Re Federico II di Svevia (appellato il Puer Apuliae) su un colle in feudo di Andria (nord Puglia).

 

Dobbiamo anche ricordare l’importanza del monastero di San Nicola di Casole a Otranto per la poesia nel duecento con il circolo poetico sorto intorno al suo monaco Nettario, un gruppo di poeti che era comunque correlato mi pare di poter dire alla Scuola siciliana, Giovanni da Otranto ad esempio, discepolo di Nettario di Casole, e poeta era un notaio della corte di Federico II.

La lingua volgare utilizzata dai poeti della corte di Federico II era un siciliano aulico; ricordiamo qui come il dialetto salentino appartiene con i dialetti calabri e siciliani ad uno stesso gruppo affine di dialetti detto dei “dialetti meridionali estremi” (forse ciò favorito dalla comune appartenenza per diversi secoli all’impero bizantino di queste terre, che non subirono pertanto una piena invasione da parte dei Longobardi come accaduto invece nei territorio del sud Italia peninsulare che rientrarono nei confini del longobardo Ducato di Benevento, o anche ipotizzo a causa di una comune koiné ancor più antica di popolazioni ausoniche stanziate nel sud Italia precedentemente alle invasioni degli Japigi, e che furono in parte costrette, a seguito dell’arrivo di questi, a spostarsi dal sud Italia anche verso la Sicilia). Sempre più oggi si rivela che quel volgare aulico sviluppatosi e utilizzato dalla Scuola poetica Siciliana è stato la lingua alla base della produzione letteraria che oggi diciamo in volgare italiano aulico utilizzato dai poeti toscani del Dolce Stil Novo e dal poeta Dante. Che gli albori della lingua italiana si manifestarono nella “Scuola siciliana”, lo riconobbe lo stesso Dante, il quale considerava il volgare siciliano “lingua illustre”. Vedi anche questo articolo: “La lingua italiana è nata in Sud Italia e Sicilia presso la corte del Re Federico II di Svevia“.

Il mosaico idruntino è un profondo trionfo artistico del medioevo italiano e mondiale. Prende anche dall’iconografia bizantina ma con disinvoltura spezzando il rispetto dei canoni estetici del tempo, il rigore iconografico cristiano all’epoca profondamente ancora bizantino nella locale arte dell’affresco, tanto che nel mosaico angeli, (forse anche santi), patriarchi e profeti son effigiati senza aureola. Pesca anche da innumerevoli fonti figurative pagane, classiche, laiche, persino licenziose, nella creazione di un unicum creativo profondo e naïf allo stesso tempo, ora ieratico ora vivacizzante, che non mancò di ispirare immediatamente altri grandi mosaici pavimentali in Puglia, a Brindisi e Trani, ad esempio. Ciò rivela una voglia di emulazione che ne evidenzia l’originalità ed apprezzamento che ebbe.

 

E se ebbe tale carica emulativa e di ispirazione nell’arte musiva in Salento e non solo, immaginiamo quanto grande essa fu anche verso opere poetiche e letterarie del tempo, specie poi in un luogo crocevia per pellegrini, mercanti, chierici e crociati quale era allora Otranto porta portuale verso l’Oriente per l’Italia e tanta parte dell’Europa.

Sullo stile formale di Pantaleo c’è da dire che è del tutto personale. Spontaneo, da autodidatta, ma non per questo meno importante. Non si riconosce alcuna scuola in lui, se non un vago riferimento ai mosaici bizantini e ai tratti del disegno medioevale. La sua vena è popolaresca e ingenua, libera, estremamente sintetica e semplificativa, fantastica. Pantaleone ama contornare con segni secchi le sue immagini. Il contorno è l’ essenza del mosaico ma, al contrario dei mosaici tradizionali, dove le tessere si allineano al contorno principale ripercorrendolo, qui troviamo una libera disposizione delle particelle colorate, che conferiscono dinamismo all’ opera” (testo di Rubens Pitt).

E’ interessante riflettere su quanto abbia influenzato quel mosaico idruntino la storia della nostra cultura occidentale. Solo ad esempio, senza andate troppo indietro nel tempo, pensiamo al semiologo Umberto Eco nel suo famoso romanzo “Il Nome della Rosa”, dove vi cita un monaco, di invenzione narrativa, molto bravo nel disegnare bestie immaginarie, come miniature su copie dell’Apocalisse, un tal Adelmo d’Otranto; Eco si sarà ispirato a Pantaleone?

 

Tramite l’ipotesi idruntina anche una risoluzione degli enigmi letterari nell’analisi del “Detto del Gatto lupesco

La pista dell’influenza delle suggestioni otrantine e delle leggende circolanti nel sud Italia e Sicilia in merito ad Artù per lo sviluppo dell’opera “Detto del Gatto lupesco” permetterebbe anche di risolvere aspetti che oggi paiono oscuri in questo poemetto tra il giullaresco e l’allegorico-didascalico, leggiamo ad esempio cosa se ne scrive oggi in studi volti alla sua analisi, riporto questi passi dall’articolo al link intitolatoGIULLARI D’ITALIA UNA LETTURA DEL DETTO DEL GATTO LUPESCO” di Michelangelo Picone dell’Università di Zurigo, edito nel 1995:

“Il Detto si lascia facilmente scomporre in tre segmenti narrativi, in cui sono descritte tre successive avventure del protagonista: l’incontro coi cavalieri bretoni (vv. 8-38); l’incontro con l’eremita, a sua volta suddiviso in due parti (vv. 39-80 e 81-105) ); e infine l’incontro con le bestie selvagge (vv. 106-137). La narrazione è preceduta da un breve prologo di sette versi, e sigillata da un epilogo di uguale estensione (vv. 138-144). A questa equilibrata distribuzione del materiale narrativo non sembra corrispondere né una concatenazione logica dei temi né una progressione lineare degli eventi”.

Tutti questi accostamenti invece avrebbero almeno nell’ipotesi della suggestione di Otranto città crocevia sulla via pellegrinale dall’Italia verso la Terra Santa una spiegazione razionale.

Lo studioso non ha poi modo di ricondurre ad alcun paese dell’epoca la possibilità di incontrare liberi e tutti assieme gli animali reali che l’autore cita nel suo poemetto e che vivevano in zone differenti anche ancora nel XIII sec. d.C. e per cui parla di “accostamento stravagante”. Ma altrettanto stravagante non sarebbe se si considerasse il tutto l’effetto delle suggestioni ad Otranto provocate nello spettatore dal suo meraviglioso e ricco mosaico figurato romanico della Cattedrale!

Ultima nota su un animale fantastico inventato dal poeta: la “baldivana” che dice essere “una bestia strana”, io proporrei di considerare lo stemma araldico con leone rampante dei Conti di Fiandra dal nome Baldovino le cui storie e relazioni sono strettamente legate alle crociate. Di essi fece parte anche quel Filippo I di Fiandra o Filippo d’Alsazia detto tanto legato al romanzo sul Graal di  Chrétien de Troyes, di cui fu il mecenate.

Non devo poi meravigliare che il poeta dica di aver incontrato anche animali strani se si pensa che il mosaico di Otranto inizia già persino alla sua base con la presenza accanto agli elefanti della minacciosa leucrota dei bestiari, per poi continuare con tantissimi altri essere reali e fantasiosi!

 

La lotta tra Artù ed un felide nelle fonti letterarie

Si deve oggi giungere ad oltre 50 anni dopo il completamente del mosaico idruntino per vedere la scrittura e diffusione letteraria di racconti che collegavano Artù alla lotta con un grosso felide. Si tratta a sentir la leggenda di un gattino che per prodigio è diventato enorme selvaggio violento e famelico, tanto da terrorizzare una terra intera, quella della città svizzera di Losanna sul Lago Lemàno. Da lì passò un giorno Re Artù che fu informato dell’impossibilità di valicare i monti per la presenza del felino. Il Re accettò la sfida ed ingaggiò una tremenda vittoriosa battaglia con la bestia. Trovatosi quindi di fronte al gatto di Losanna, senza ombra di paura Re Artù lo affrontò e rotolò con lui nella polvere, lottando furiosamente. Quando ormai le forze stavano quasi per abbandonar il grande eroico re, questi con un ultimo disperato sforzò riuscì a piantar nel cuore delle bestia uno stiletto fatato. Dal gatto sgorgò copioso un sangue nero e denso, che si andò rapprendendo velocemente dando vita a un gigante bellissimo e ignudo, che rivelò di essere stato vittima di un incantesimo e giurò che da quel momento avrebbe speso la sua vita in difesa di re Artù.

Tale leggenda è tramandata con la massima dovizia di particolari nel “Livre d’Artus” compreso nella “Vulgata” o “Prose Lancelot” che fece la sua apparizione tra il 1220 e 1230.

E’ ciò esattamente quanto rappresentato a Otranto nel mosaico?

La battaglia avviene con esito vittorioso per il sovrano nel racconto letterario preso a confronto contrariamente a quanto parrebbe rappresentato nel racconto del mosaico otrantino. Inoltre il mosaico salentino non trasmette l’ idea che Artù fosse armato a battaglia per affrontare il felide, ma sembra più vittima di un assalto inatteso da parte della bestia, che ha così la meglio su di lui. Né il fanciullo nudo vicino ad Artù nel mosaico idruntino, che guarda la scena atterrito, si può dire essere un gigante per le sue dimensioni grossomodo simili a quelle di Artù in groppa al caprone.

Quale è la collocazione di Artù nel mosaico di Otranto? Le due figure sulla sua sinistra, fan parte di un’altra scena staccata, quella veterotestamentale (Genesi) della cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva, quindi, vi è la scena di Artù sul caprone con assalto del felide e un forse Perceval nudo perché puro senza preconcetti che guarda la scena o forse quel giovane nudo rappresenta proprio il gigante che si dice uscire nudo dal gatto nella leggenda su Artù e il Gatto di Losanna, gatto che in tal caso verrebbe ucciso da Artù, quindi segue la scena di Caino e Abele e dell’efferato omicidio fratricida di Caino che uccide Abele con un bastone clavato. Questa ubicazione della scena di Artù, scena già di per sé così anomala, è anacronistica e fuori luogo rispetto ad una narrazione che segue quella del libro della Genesi della Bibbia, dove si dice che i fratelli Caino e Abele erano figli dei progenitori Adamo ed Eva. Ma una tale collocazione fa assumere valenze semantiche al racconto arturiano mostrato: ma quali?

C’entra il peccato originale da cui occorre riscattarsi, ricercando la Grazia divina/perdono/purezza rappresentata dalla ricerca del Graal e dal suo mistero eucaristico, Graal guaritore?! Non lo sappiamo.

L’ubicazione del mito del Re e del Gatto di Losanna in questo caso in area elvetica, nel centro Europa, ci fa capire ancor di più come il mito di Artù divenne da subito un mito “best-seller” esportabile ovunque, con cui contaminare leggende locali o su cui inventarne di nuove, da parte di bardi cantastorie, girovaghi e romanzieri, o al contrario il mio del Gatto di Losanna si colloca in una tradizione più vasta ed estesa, quella del Cath palug.

Pare che prima del racconto scritto accennato della lotta di Artù contro il Gatto di Losanna non esiste alcun altro racconto scritto od episodio o iconografia (eccezion fatta per il caso musivo idruntino) che citi una lotta tra il re ed un felide; tanto meno un’ iconografia di Artù su un caprone, o con un grande scettro a pomo enorme, per il quale non si trova nulla di accostabile, e non solo nell’iconografia ma anche nella letteratura arturiana precedente e successiva! Quanto alla possibilità di un esito invece mortale per il re, del combattimento con il Gatto di Losanna, se ne fa fugacemente parola, pare, soltanto in due altri romanzi, sempre successivi. Ma si narra di accadimenti del tutto differenti da quello tragico che troviamo sul mosaico. In uno si parla della sottrazione de re da parte del mostruoso felino dopo il combattimento; nell’altro “si da notizia del fatto che egli sarebbe successivamente scomparso dalla circolazione”, (dati tratti dalle note dal testo descrittivo e di studio del mosaico idruntino intitolato “LEnigma di Otranto”, di Carl Arnold Willemsen, Mario Congedo Editore, 2002).  Erano quindi dei racconti, quelli raffigurati a Otranto, già noti al tempo della realizzazione del mosaico, già noti in tutta Europa? In un codice di Helmstadt, contenente il poema De diversitate Fortunae di Arrigo da Settimello, si trova una nota dove è detto che Artù, combattendo contro certa belva, perdette i suoi cavalieri, e avendo ucciso la belva, non fece più ritorno a casa; per cui i Brettoni lo aspettano ancora. Del luogo dove egli possa essere andato non vi è più cenno. Il topos letterario della lotta dell’eroe contro belve feroci che insidiavano territori è molto diffuso nei miti greci e latini come nel ciclo arturiano. La stessa caccia al grande furioso cinghiale che devasta i territori può farsi rientrare nella stessa categoria mitica. Questo topos letterario è sicuramente alla base del mito di Artù che sconfigge il cinghiale Troit raccontato da Nennio e che ci fa guardare con attenzione alla scena venatoria, sempre idruntina, della caccia al grosso cinghiale nel mosaico pavimentale nell’abside della Cattedrale.

 

Caccia al cinghiale, mosaico pavimentale medioevale nell’abside della Cattedrale di Otranto. Particolare.

 

Caccia al cinghiale che è rappresentata a Otranto secondo schemi artistici assai consueti sin da tempi antichi, nell’arte musiva e non, con uomini a cavallo, lance, cani e battitori a piedi anche con bastoni e/o scuri. Nel caso idruntino l’uomo a cavallo ricorda fortemente l’Artù raffigurato nella navata centrale, e l’uomo a piedi nudo ricorda lo stesso uomo nudo della scena dell’assalto del felide; se non è Perceval è allora il gigante che si dice diventerà l’aiutante di Artù di cui abbiamo letto prima? E questo in certe versioni verrà per caso identificato con Perceval? Nel caso idruntino il battitore ha un bastone clavato-pomato simile forse a quello che aveva Artù nella scena sul caprone/capra.

L’idea che emerge è comunque quella di una originalità di quanto effigiato ad Otranto nella scena del felide.

Si rappresentò un’episodio della leggendaria vita di Artù noto solo nell’Italia meridionale, nel Salento, per tradizione letteraria, iconografica, o orale locale, medioevale, o forse anche più antica, o se ne volle dare comunque localmente una interpretazione originale? E perché?

La scena idruntina del felide e la storia del Gatto di Losanna potrebbero persino essere del tutto indipendenti, anche per le diversità tra le due iconografie/narrazioni? Vi era forse una tradizione precedente implicante l’incontro periglioso tra Artù ed un grosso felino, e che, forse dopo, nota e trasmessa dai bardi, favorì in Svizzera la connessione della figura di Artù, con la leggenda locale didascalica del grosso Gatto di Losanna?

Tanti interrogativi senza oggi valide risposte!

Inoltre mentre il topos letterario che connota la storia del Gatto di Losanna è quello del cavaliere-eroe che libera la città dalle insidie di una terribile bestia, questo topos non ricompare pienamente nella mera scena arturiana idruntina del caprone, dove Artù sembrerebbe a prima vista soccombe al felide!

 

Confronti iconografici per il felide che aggredisce Artù

 

 

Seconda immagine del felide che aggredisce Artù nel mosaico di Otranto. Immagine linkata da questo articolo.

 

Prima immagine del felide che aggredisce Artù nel mosaico di Otranto. Immagine linkata da questo articolo.

 

A supporto del tentativo di identificazione del felide che compare nella scena di Artù a Otranto confrontiamo con questa immagine del leopardo dai bestiari medioevali:

 

Bestiari, Bibliothèque Nationale de France, Latin 3630, fol. 75v, faune léopard, “pardus sanguinis sititor“, (il leopardo, animale assetato di sangue). Da un bestiario manoscritto proveniente dall’Inghilterra e datato al terzo quarto del XIII secolo d.C.

 

Nel mosaico idruntino compare un leopardo quasi inequivocabilmente in un tondo nell’area del presbiterio, un grosso felide che insidia un animale che sta predando; il predatore è a mantello pardino senza criniera;

 

 

Leopardo nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto che preda probabilmente un agnello (vedi similitudine con le pecore del gregge raffigurato nel tondo del mese di aprile). Immagine linkata da questo articolo.

 

Rispetto al reale leopardo la rappresentazione artistica idruntina si discosta per la coda a ciuffo rigonfiato al vertice come la ha il leone solitamente; alla raffigurazione del leopardo comunque si addice biologicamente una coda più uniforme anche in punta. Ma il leone non ha mantello pardato.

Consideriamo in questa rassegna anche il Ghepardo per completezza.

 

Ghepardo

 

“Il ghepardo è diviso tassonomicamente in varie sottospecie, tra le quali, le più minacciate (per il rischio di estinzione) sono: il Ghepardo Asiatico (Acinonyx jubatus venaticus) ed il Ghepardo del Nordafrica (Acinonyx jubatus hecki). In India veniva soprattutto catturato per essere addomesticato e aiutare l’uomo nelle battute di caccia. Nel Medioevo questa usanza venne introdotta anche in alcune corti europee dove però l’allevamento e il mantenimento in cattività di questi animali presentò molte difficoltà. Il ghepardo è relativamente addomesticabile, e spesso i sovrani dei paesi mediorientali antichi li allevavano nelle proprie regge. Diversi ghepardi, ad esempio, erano presenti alla corte dei sovrani di Persia. È infatti molto più mansueto e meno pericoloso del leopardo. Inoltre ancora oggi viene allevato e riprodotto con successo in cattività sia per essere reintrodotto sia per la caccia con il felino.Un tempo il ghepardo era diffuso in quasi tutte le regioni dell’Africa e nelle steppe dell’Asia minore e centrale, oggi è estinto in molte zone dell’India e dell’Arabia ed è attualmente seriamente minacciato anche in varie regioni dell’Africa [n.d.r.: urge il ripopolamento rinaturalizzante ove estinto!]” (passo estrapolato dall’articolo al link).

La lince è più piccola del leopardo e più grande del gatto. Di seguito una rappresentazione della lince nei bestiari medioevali che possiamo notare si discosta da quanto rappresentato a Otranto, ma anche dalla lince reale che ha corda corta:

 

Bestiari, Bibliothèque Nationale de France, Latin 3630, fol. 76v, faune lynx.

 

Il gatto per quanto grosso non ha in Europa mantello pardino ma tigrato. Non mancano comunque nell’arte medioevale anche gatti con mantello raffigurato à pois:

 

Miniatura medievale di un cane che aggredisce un gatto, il quale, a sua volta, dà la caccia a dei topi (XII secolo). Non mancavano dunque all’epoca nelle rappresentazioni artistiche anche gatti con il mantello pardino.

 

Gatti nelle miniature del medioevo in Europa. L’ultima “Gatto con topo”, miniatura tratta dall’Erbario Sloane 4016 (1440 circa), British Library, Londra. Accanto alla miniatura raffigurante il felino leggiamo una doppia didascalia: “Gatus” e “Musipula“. Questo secondo termine, usato per la prima volta da Isidoro da Siviglia nel VII secolo d.C., era adottato dagli autori che scrivevano in latino e permetteva di sottolineare la funzione essenziale del gatto nella società medievale: quella di cacciatore di topi (“mus“). La parola “Gattus“, di etimologia incerta, aveva una connotazione meno dotta ed era propria delle letterature in volgare.

 

Gatto, particolare di mosaico, dalla Casa del Fauno – Pompei romana.

 

Gatto domestico e topo/ratto, mosaico pavimentale medioevale nel presbiterio della Cattedrale di Otranto. Si tratta di un piccolo felino assai meno pericoloso del feroce felide che azzanna Artù.

 

E sul “gatto lupesco”? I felini dell’antico Salento e la lince

Premettiamo come oggi popolarmente viene letto il felide che azzanna Artù. Qualche nonna salentina in visita con i nipoti alla chiesa idruntina di fronte all’immagine di quel gattone selvaggio e feroce lì raffigurato racconta che si tratta del “gattomammone”, è ad esempio questo il ricordo di Sergio Cezza di Maglie (città nell’entroterra di Otranto) e mi aggiunge che sua nonna gli precisava che gatto-mammone va scritto tutto unito. Il gattomammone è uno spauracchio per bambini nell’area di Maglie, ed è molto interessante fosse usato lì per la scena di Artù.

Delle varie etimologie che vengono proposte la più interessante per il discorso che qui viene sviluppato potrebbe essere quella sarda che collega “mammone” a toponimi indicanti presenza di acqua, in tal caso gattomammone se così fosse la corretta etimologia vorrebbe indicare un grosso gatto di zone umide, acquose, e questo si ricondurrebbe a quel “gatto di palude” mostruoso che compare nelle saghe arturiane! “Nell’isola di Sardegna è ricorrente il legame del termine Maimone (con tutte le sue varianti) con numerosi toponimi relativi a fonti e/o sorgenti, legame forse derivante dall’antica parola fenicia “mem” (in ebraico, “mayim”), che significa appunto “acqua”, e ad una divinità ad essa collegata, e che si ritrova anche in varie altre località del Mediterraneo (ad esempio, Fonte Maimonide a Paternò in provincia di Catania, Sicilia)” (dal link).
Personalmente quando sento parlare di gatto mammone utilizzato a Maglie come spauracchio per bambini penso a un grosso gatto nero. Forse il tutto deriva da pantere? (la forma melanica di qualche leopardo europeo)? O dalla demonizzazione del gatto nero?
Altre etimologie legano quel “mammone” ad dio egizio Amon tenendo conto della sacralità del gatto nell’antico Egitto, altre etimologie lo collegano a “Mammona” termine usato nel Nuovo Testamento per personificare come allegoria demoniaca il profitto, il guadagno e la ricchezza materiale, generalmente con connotazioni negative, e cioè accumulato in maniera rapida e disonesta ed altrettanto sprecato in lussi e piaceri, il termine deriverebbe dalla lingua aramaica, in tal caso etimologicamente potrebbe essere legato a mamon che veniva tradotto come “tesoro sotterrato”; in salentino il tesoro sotterraneo viene detto l’ “acchiatura“, esso nei racconti popolari a volte è protetto da demoni o folletti (come il salentino “scazzamurieddhu“), poteva svanire dopo averlo visto non ritrovandone più l’accesso e perdendolo per sempre, per procurarselo erano spesso necessari riti anche comportanti vittime e sacrilegi, come ad esempio dare l’ostia consacrata in chiesa ad una capra.

La perifrasi “gatto lupesco” è inventata dal poeta, non possiamo dire con precisione a quale felide si riferisca, è un felino più grosso di un gatto, viene da pensare, e che ha caratteristiche del lupo, magari con questo ad indicare una potenzialità aggressiva e di nuocere superiore per l’uomo a quella di un gatto. Un’immagine che ben può calzare con la descrizione del felide che si vede nel mosaico aggredire Artù. Vien da pensare che il “gatto lupesco” si possa identificare con la lince comune/pardina, un grosso felino presente in Salento, che era chiamata in passato “lupo cerviero”, in fonti del ‘600 di autori salentini; nel Pleistocene in Puglia pare fossero presenti tanto linci comuni quanto linci pardine, ciò dagli studi paleontologici.

Ma tra gli animali che il poeta incontra e che cita nel suo poemetto vi è la “lonza” e questa ben pare anche dal nome e dalla descrizione che ne darà nei primi del ‘300 il poeta fiorentino Dante Alighieri nella sua “Divina Commedia”  (“una lonza leggiera e presta molto, che di pel maculato era coverta“) che si possa identificare con la lince.

Tra gli animali incontrati nel suo terrificante bestiario il poeta incontra anche il “gatto padule”, e per chi conosceva le narrazioni del ciclo arturiano probabilmente si poteva riconoscere nel misterioso felide che aggredisce Artù a Otranto il famoso “Cath Palug” (“gatto di palude”) che Artù incontra nelle sue avventure.

Ma non sappiamo con quale specie identificare tale “gatto di palude” che affronta Artù, o che lo aggredisce di sorpresa parrebbe nel mosaico di Otranto, non sappiamo quale felino fosse, forse il leopardo, forse il gatto selvatico, forse una lince?

 

Leopardo (Panthera pardus) che si tuffa per pescare. Dalla paleontologia è attestata almeno nel Pleistocene la presenza del leopardo in Salento. Oggi in Europa vivono ancora dei leopardi liberi nell’area del Caucaso dove è in corso un importante progetto di reintroduzione che sarebbe il caso di estendere anche in Italia.

 

In ogni caso la lince non ha la coda lunga come il felide nel mosaico idruntino a voler essere tassonomicamente precisi. E il leopardo potrebbe essere più grosso del felide ritratto in proporzione al corpo di Artù. Entrambe le specie, leopardo e lince, han pelo maculato e di colori giallo-rossicci di fondo, il tutto compatibile con le caratteristiche del mantello del felide che aggredisce Artù, tenendo conto delle due rappresentazioni dell’animale nella scena di Artù, sempre che non siano due felidi diversi quelli mostrati sul mosaico e non lo stesso felide ritratto in due momenti diversi.

Lo scrittore si identifica con un “gatto lupesco” che favolisticamente umanizza. Ma sull’identificazione tassonomica di questo “gatto lupesco” altro non possiam dire. La sensazione forte è che l’ispirazione poetica l’abbia tratta dal mosaico idruntino. E non sarebbe in tale ipotesi un caso che il mosaico e il suo poemetto hanno in comune Artù nel sud Italia, hanno in comune un felide che si trova sul sentiero di Artù nella raffigurazione di Otranto e sul sentiero di due cavalieri di Artù nel poemetto, più le altre coincidente dette … difficile pensare non vi sia una relazione con il mosaico!

Passiamo ora a considerazioni naturalistiche con l’occasione in merito a grossi felidi presenti nel sud Italia ancora in tempi medioevali e nei secoli recenti.

La lince era chiamata in Salento ancora nell’ ‘800, (vedi gli scritti del botanico ottocentesco pugliese Martino Marinosci di Martina), quando ancora era presente, “lupo cerviero”, poiché assalitrice di cervidi. Un altro nome nel sud Italia della lince è “gattopardo”, o anche “pardo”, o anche proprio “gatto lupo” (nome assai vicino al poetico “gatto lupesco” del poema in oggetto) come vedremo dagli scritti del fisico/naturalista Michael Rupert Besler del ‘600.

Su un antico documento viene citato che una “Lonza” o “Leonza” veniva tenuta in una gabbia nel Comune di Firenze (Palazzo Vecchio), al tempo di Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321).

Dante colloca la “Lonza” nei primi versi del suo “Inferno” (Divina Commedia), che così descrive: “una lonza leggiera e presta molto, che di pel maculato era coverta”. E’ con tutta probabilità la Lince, del resto anche il nome Lonza sembrerebbe avere la stessa etimologia di Lince; nella confusione tassonomica medioevale però è bene dire che con quel nome, Lonza, potevano essere indicati anche altri feroci felini. Dante di certo con Lonza non intendeva il Leone che colloca pochi versi dopo quelli dedicati alla Lonza. La presenza in area appenninica della Lince ancora nel medioevo e la descrizione che ne da Dante della Lonza permettono di ben dire che egli volesse indicare la Lince (o al più un Leopardo, nome scientifico Panthera pardus, (curiosità naturalistica: pure il leopardo in antichità specie presente in Europa e in tempi Paleolitici ben documentato nelle faune fossili del Salento come anche la Lince, il Leone e il Gatto selvatico; ecco alcuni link di approfondimento sulle faune pleistoceniche del Salento: link1 e link2).

 

Di Joseph Anton Koch, ”Dante nella selva oscura trova le tre fiere, e quindi incontra Virgilio”, affreschi del 1825-28, Stanza di Dante in Casino Giustiniani Massimo a Roma. I tre animali che incontra sono la lonza, la lupa e il leone secondo il testo dantesco. Notiamo la difficoltà dell’artista nel verso della corretta rappresentazione della lonza e qui addirittura ricorre per essa ad un giaguaro a giudicare dal tipo di mantello, giaguaro che è un felide americano! La graduale rarefazione della presenza di linci in Italia comportava questi errori. Avesse ritratto un leopardo almeno si sarebbe trattato di felide del Vecchio Mondo, più facile da vedere anche in serragli in Italia da parte anche dello stesso Dante prima della scoperta dell’America del 1492.

 

Dante nei primi versi della sua Divina Commedia, nel Canto Primo dell’ “Inferno” così scrive:

Mi ritrovai per una selva oscura,
   Che la diritta via era smarrita.
È, quanto a dir qual era, cosa dura
Questa selva selvaggia e aspra e forte,
Che nel pensier rinnova la paura!

(…)

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
     Una lonza leggiera e presta molto,
     Che di pel maculato era coverta;
E non mi si partìa dinanzi al volto;
     Anzi impediva tanto il mio cammino,
     Ch’io fui per ritornar più volte volto.”

Le somiglianze con sia quanto avviene nel “Detto del Gatto lupesco” sia con la scena di Artù nel mosaico idruntino dove tutto si svolge sotto le chiome di fitti alberi musivi sono forti. E poiché si può ben ipotizzare che il poemetto circolasse in Toscana dato che lì è stato ritrovato non è escluso che Dante lo avesse ascoltato o letto il “Detto del Gatto lupesco”.

Non solo vi è poi lo strano ante-litteram “gatto con gli stivali” all’inizio della navata centrale nel mosaico di Otranto, che non sappiamo se sia magari proprio una lince. La sua coda corta e il suo colore lo rendono pur compatibile con la lince comune europea (Lynx lynx), ergo in tal caso proprio una lonza all’inizio della selva del mosaico.

 

“Gatto con gli stivali”, mosaico pavimentale medioevale della Cattedrale di Otranto, nelle parti iniziali della navata centrale prossimi all’ingresso.

 

Questa mia impressione di un legame tra il Detto e la Commedia scopro esser condivisa anche dallo studioso C. Guerrieri Crocetti, per il quale il Detto sarebbe addirittura un «antesignano della Commedia» dantesca.

C’è poi anche un filone di studi sul mosaico di Otranto legato alla figura di Don Grazio Gianfreda (1912-2007) che immagina che Dante prima della scrittura della sua Divina Commedia fosse giunto a Otranto e qui avesse visitato il mosaico idruntino, restando impressionato anche dalla rappresentazione dell’inferno da cui trasse ispirazione. Se così per la scena della lonza dal pel maculato che gli sbarra il cammino l’ispirazione sarebbe potuta venirgli proprio dalla scena di Artù a cui certo lui come tutti non poteva restare indifferente. Mosaico dove non mancano lupi e leoni.

Vi è poi un filone di interpretazioni esoteriche che vorrebbe che il mosaico di Otranto celasse sotto il suo primo livello di interpretazione delle immagini una semantica nascosta con valori iniziatici compresi da pochi eletti che ne hanno le chiavi di decodifica, questo, sostengono tali studi, ciò verrebbe ad esempio evidenziato dal simbolo della scacchiera che si incontra nelle prime porzioni della navata centrale,

 

Pseudo-centauro con scacchiera e cervo colpito da freccia lanciata da amazzone. Navata centrale della Cattedrale, mosaico del XII sec. d.C., Otranto.

 

e la scacchiera è considerata in tali studi un simbolo dei Cavalieri Templari legato ai loro riti. Assumendo qui per ipotesi valida questa teoria iniziatica, in tale filone la cui consistenza e validità qui non approfondisco, invito come input anche ad approfondire se il “gatto con gli stivali”, che si incontra proprio all’inizio della navata principale, nelle sue prime porzioni, ancor prima della scacchiera, gatto (o lince, “lonza” data la corta coda e il colore del mantello, come una “lonza” incontra Dante all’inizio del suo viaggio misterico) non indossi gli stivali, solo gli arti sinistri anteriori e posteriori, con un rimando a quei riti che prevedono per gli iniziati che entrano nel tempio massonico per il rito di iniziazione il passo dello zoppo, “zoppia iniziatica” con monosandalismo. In tal caso con similitudine tra ingresso del tempio massonico e ingresso nella cattedrale. Cito qui il rito massonico in quanto più noto e con l’idea che esso abbia potuto prendere tale usanza rituale da riti esoterici-iniziatici misterici più antichi.

Faccio poi notare anche come vi è una figura con monosandalismo nel mosaico di Otranto, la Regina di Saba mostrata scalza da un piede e con il sandalo in mano; ritroviamo lì forse il simbolo della zoppia non solo per il fatto che si toglie un sandalo ma anche perché sembra mostrare un piede monco o deforme-mostruoso equino, ma la spiegazione che se ne da non è prettamente esoterica, né essa si trova nelle parti iniziali del mosaico, ma in quelle superiori, e in tali congetture speculative iniziatico-esoteriche, dovremmo allora forse pensare che indica la possibilità a quel punto di rimettersi il sandalo per l’iniziato ormai iniziato attraverso il suo opportuno viaggio sul mosaico:

 

Clipeo con la Regina di Saba, zona presbiterio, mosaico pavimentale del XII sec. d.C., Cattedrale di Otranto. In due medaglioni si fronteggiano la Regina di Saba e Re Salomone, citati nei testi biblici, coranici e nell’etiope Kebra Nagast. Bibbia e Corano non attribuiscono alcun nome proprio alla Regina di Saba, chiamandola talvolta Regina del Sud, come fa il mosaico otrantino che la indica con epigrafe come Regina Austri, il vento che spira da Sud; nel mosaico la regina di Saba adorna di ricchi e vistosi gioielli e belle vesti è scalza e stringe tra le mani una sua scarpa, e il piede scalzo appare come equino. Re Salomone la ascolta assiso sullo scranno regale e adorno dei segni del comando: scettro, corona e ricche vesti. E’ stanca per il lungo viaggio e si toglie una scarpa (come ipotizza Franco Meraglia) o ci si è ispirati lì sul mosaico ad antiche leggende islamiche (extra-bibliche) che narrano che la regina era bellissima, ma aveva gambe e piedi deformi, nascosti sotto le ricche vesti? Re Salomone ricorre ad uno stratagemma per costringere la regina a scoprire le gambe e rivelare la sua imperfezione: riveste il pavimento della sua regia di lastre di cristallo, paiono acqua, e la bellissima regina distratta dal preservare le proprie belle vesti, le solleva rivelando, a seconda delle fonti, gambe pelose o zampe d’oca. Interpretazione questa del piede raffigurato come deforme per la Regina di Saba a Otranto tratta dall’articolo “PANTALEONE E LA REGINA SCALZA” in raccontidalsalento.wordpress.com.

 

Tornando alla questione della lince in Appennino nei secoli passati scriveva così il duca di Pescolanciano in Molise nel 1723 di questo felino del sud Italia:  “Nei luoghi più rigidi e boscosi di questo regno [è il Regno di Napoli nel sud Italia] vi è un raro animale che ha le fattezze di un pardo e l’ unghie cristalline. L’ è agile e fiero, sale gli alberi come un gatto, da ivi si lancia improvviso su la schiena della giovenche, e tanto fa finché l’ ammazza. Molti sonosi i nomi a lui adattati: Gattopardo, Pardo, Iattone e anco Lupo cerviero.”

 

Tra i vari scritti vi è anche una Carta della Marsica con a fianco l’iscrizione “Felipardus prope Opium occisus mense aprile anni 1735” che ricorda l’uccisione di un cosiddetto “Feli-pardus”, e il disegno che lo ritrae è quello di una lince a pelo corto molto maculato. Tratto dallo studio “La Lince nell’Appenino“.

 

In Abruzzo una località ha il nome di Colle-pardo. Sono numerose le testimonianze storiche che documentano l’ esistenza di un grande felino in Abruzzo.

Nel testo che descrive il Salento dei secoli ‘500 e ‘600, “Descrizione, origini e successi della
provincia d’ Otranto
” del filosofo e medico vissuto a cavallo tra cinquecento e seicento Girolamo Marciano di Leverano (Leverano, 1571 – Leverano, 1628) con aggiunte del filosofo e medico seicentesco sempre Domenico Albanese di Oria, leggiamo tra gli “Animali quadrupedi selvaggi”, proprio menzionati “Gatti selvaggi”, “Lupi Cervieri”, a sgombrare il campo da chi potrebbe pensare che si trattasse di semplici gatti selvaggi! Stessa presenza di entrambe le specie per il Salento la troviamo in Marinosci solo ad esempio.

I gatti selvatici (Felis silvestris) si trovano già nelle faune pleistoceniche del Salento.

Il naturalista svizzero Carl Ulisses von Salis-Marschlins (o Karl or Charles,1762 – 1818) dedica numerose pagine “sulla lince, speciale, delle provincie dell’Abruzzi.” Ma di essa si trovano cenni in merito alla sua presenza nella penisola italiana negli scritti di molti studiosi e viaggiatori stranieri, come anche in studiosi italiani del XIX secolo. Tra questi oltre al botanico Marinosci, ricordiamo i grandi zoologi della fauna del Regno di Napoli, padre e figlio: Oronzo Gabriele Costa e Alessandro Costa, provenienti da Alessano nel Salento.

I racconti dei testimoni che hanno riferito con buona precisione l’avvistamento, e che descrivono un animale di medie dimensioni, d’aspetto snello, solitamente con mantello molto maculato.

Gli studiosi dei secoli scorsi, in particolare . M. R. Besler, O.G. Costa, evidenziarono il fatto che la Lince della Penisola italiana differiva da quella alpina. Così numerose segnalazioni di avvistamenti la descrivono di medie dimensioni, d’aspetto snello, solitamente con mantello molto maculato.

 

“Lupo Cerviero o Gatto Lupo”, da Michael Rupert Besler (1607-1661), incisione da un’ edizione del 1716 dell’ opera “Gazophylacium rerum naturalium e regno vegetabili, animali et minerali”, Norimberga, del 1642, relativa alle raccolte del “Museum Beslerianum” in Norimberga iniziato dal farmacista e botanico Basil Besler (1561 – 1629), e proseguito dal nipote, il fisico Michael Rupert Besler (1607 – 1661).
Qui alcune descrizioni vengon date sulla lince in Italia da M. R. Besler, che scrive: “Lupus Cervarius, Italice magis proprie”.

 

U. De Salis Marschlins parlando della lince, scrive così nel 1790: «…sulla lince, speciale, delle provincie dell’Abruzzo. Si trova questa spesso, nei boschi dell’Abruzzo Ultra, dove vien chiamata comunemente il “Gatto Pardo” ed è un poco più piccola di quella che è stata vista non di rado nelle montagne dei Grigioni [il Cantone dei Grigioni in Svizzera]. (…) La lince dell’Abruzzo è un poco più scura, è alta dai diciotto ai venti pollici, [45-50 cm] ed è lunga dai ventiquattro ai ventisette pollici [60-68 cm], sino alla radice della coda, la quale è lunga quattro pollici [10cm]. (…) Dopo tutto ciò, io credo che la lince dell’Abruzzo si possa classificare in quella specie che lo Schreber chiama lince-gatto: è in verità più piccola ed ha le macchie più distinte (…). »

Un felino quindi intermedio tra il gatto selvatico e la lince comune europea, ben simile alla Lince pardina.

(Vedi per ulteriori dati anche “La Lince nell’Appennino: possibile sottospecie della Lince euroasiatica (Lynx lynx)” di Francesco Mossolin).

Incredibilmente ricca di flora e fauna era qualche secolo fa la terra salentina; in particolare con riferimento qui al comprensorio dell’Arneo, poi oggetto di interventi di prosciugamento delle paludi e di dissodamento dei terreni, il botanico Martino Marinosci di Martina Franca, (conosciuto per la sua importante opera pubblicata postuma intitolata “La Flora Salentina”, che descrive la presenza in quell’epoca nel Salento ancora forestato di numerose specie oggi presenti in aree garganiche, appenniniche e della Pianura Padana), all’inizio dell’Ottocento, giunto dal mare a San Pietro in Bevagna, narra che: “gli animali selvaggi sono qui copiosi fino ad Arneo… I lepri, le volpi, le viverre [furetti], i daini, le melogne [tassi] vi sono da per tutto. Abbondano pure i lupi, i lupi cervieri [linci, varietà locali delle specie europee, la Lynx lynx o la Lynx pardinus], gl’ istrici o porcospini e tanti altri, come i gatti selvaggi, le faine, le puzzole [la puzzola europea], le donnole, le lontre, i conigli, le talpe, i topi, i sorci, i moscardini, i ricci, gli scoiattoli [delle varietà proprie del meridione d’Italia della specie Sciurus vulgaris], i cervi e caprioli e potremo a detti quadrupedi aggiungere cheiropteri, come l’orecchiuto e la nottola, come pure gli anfibi e quadrupedi ovipari, come le numerose e varie testuggini, i rospi, le lucertole… oltre poi innumerevoli serpenti, come le serpi, le vipere, i colubri.” (Vedi di Fulco Pratesi e Franco Tassi “Guida alla Natura della Puglia Basilicata e Calabria”, Oscar Mondadori, seconda edizione 1986).

 

Gatto selvatico – Italia.  Ergo il Gatto selvatico (Felis silvestris) non disdegna di entrare in acqua e nuotare! Foto tratta dall’articolo al link.

 

Per completare ulteriormente il quadro della meraviglia della natura Salentina nell’ Ottocento riporto anche questi passi tratti da uno studio del professor Aldo De Bernart (da un su articolo intitolato “Supersano romantica”, pubblicato su “Il Nostro Giornale”, anno XI-numero 26, 8 maggio 1987). De Bernart ci riporta i passi scritti dal marchese Carlo Ulisse de Salis Marschilins a commento dello spettacolo che gli apparve mirando la piana di Supersano dove si estendeva l’immenso “Bosco Belvedere” ricco di delizie, dal bel balcone della Serra di Supersano, nel cuore del basso Salento. Una foresta di lussureggiante vegetazione, “ricoperta di secolari piante di leccio, di rovere, di quercia, di pino”, in cui allignano “il prugnolo, il corbezzolo, il melo, il pero, la apruzia, la vite selvaggia, il sorbo, il nespolo”, con un intricato sottobosco ricoperto di “marruca” (la leggendaria Spina Christi) e di “vitalbe” rampicanti, come anche di asparagi e ciclamini campestri. Dai profondi canaloni che sfociano in un grande lago vivevano “rane, rospi, salamandre, orbettini, bisce acquatiche, folaghe, gallinelle d’acqua, polli sultani [nota dello scrivente: nei mosaici medioevali del V sec. d. C. della chiesa di Casaranello a Casarano, si mostrano anatre, pesci, conigli/lepri che mangian uva, colombi, e quello che pare proprio un Pollo sultano], porciglione, germani reali, marzaiola, beccaccini, coccoloni, aironi, gambette, fagiani, starne, pernici, cigni, cicogne e pellicani, [l’ultimo esemplare fu abbattuto nel 1865]”. Il bosco era altresì la tana preferita di “volpi, lepri, conigli, tassi, istrici, ricci, faina, martore, puzzole, lupi, cinghiali [l’ultimo esemplare abbattuto nel 1864]”. In quel territorio ricco anche gli ulivi, i verdi pascoli del Belvedere ospitavano pecore, capre e cavalli, sia di sella che da tiro. In proposito il De Salis scrive “ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente”. E nell’ apprezzamento del signore di Supersano dell’epoca ovvero il nobile Carafa, il De Salis scrive “tiene en la tierra una cavallerizza del Baron de cinquanta cavallos”.

La “foresta” così la chiama il Conte Carlo Ulisse de Salis Marschlins che, percorrendo le contrade del Salento nel 1789, annota come «nella foresta di Supersano sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente» (C. U. de Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di G.Donno, Lecce 1999, p. 140-141).

E il pensiero corre ai bellissimi Cavalli Murgesi vanto di Puglia, e alla “Foresta” di Cutrofiano, città che fu grosso centro di allevamento equino tanto che la sua piazza è chiamata ancor oggi “Cavallerizza”, e un cavallo scuro è nello stemma civico di Cutrofiano.

Nel testo che scrive il Salento dei secoli ‘500 e ‘600, “Descrizione, origini e successi della provincia d’ Otranto” del filosofo e medico vissuto a cavallo tra cinquecento e seicento Girolamo Marciano di Leverano (Leverano, 1571 – Leverano, 1628) con aggiunte del filosofo e medico seicentesco sempre Domenico Albanese di Oria, leggiamo: “Animali quadrupedi selvaggi: Caprii, Cervi, Cignali cioè porci selvaggi [nota dello scrivente: in alcuni catasti dei secoli scorsi si parla dei “neri” che pascolavano nel Bosco Belvedere, dovevano essere così chiamati i cinghiali o incroci di cinghiali e maiali domestici, il toponimo “Porcarizza” rimanda probabilmente a quell’ importante allevamento di maiali ubicato nel bosco per cui era famosa Supersano], Damme, Daini, Istrici, Grinacei cioè Ricci, Faine, Gatti selvaggi, Lepri, Lupi, Lupi Cervieri, Martore, Mustele cioè Donnole, Talpe cioè Toponi, Tassi cioè Melogne, Topi di casa, Topi di campi, Topi Moscarelli, Testuggini, Testuggini salarie, Viverre cioè Furetti, Volpi”.

 

Gatto selvatico europeo-mediterraneo, progenitore del gatto domestico.

 

Oggi abbiamo una visione omologata appiattita e standardizzata del mondo vegetale in Salento ispirata soprattutto da mode commerciali vivaistiche e vale questo anche per gli interventi forestali purtroppo ancora. Il paesaggio vegetale invece non era così, il Gargano incontaminato nel nord della Puglia e le caratteristiche vegetali dell’ antica Foresta Belvedere nel cuore del basso Salento ci mostrano e insegnano come le associazioni vegetali cambiavano di luogo in luogo a seconda delle caratteristiche microclimatiche anche a distanza di pochissimo spazio, e non necessariamente in presenza di montagne; basta una collina, un ruscello, una dolina, un acquitrino, un lago, una fiumara, un piano, una vecchia cava, suoli ora profondi ora rocciosi, una duna, ecc., e la natura mostrava tutta la sua incredibile varietà conservando tanto piante, e non solo, di climi più caldi tropicali quali quelli del Miocene, tanto piante e animali di climi più freschi quali quelli delle epoche glaciali del periodo Quaternario.

Della lince proverbiale è l’acutezza della vista. Poiché acutezza devono avere coloro che si dedicano alle scienze, il nome della lince fu scelto per l’ Accademia Nazionale dei Lincei, con sede a Roma, l’ accademia scientifica più antica del mondo oltre che una delle più antiche accademie italiane. Venne fondata nel 1603. E uno dei suoi fondatori  Francesco Stelluti, ne afferma  con sicurezza la presenza  sui monti di Fabriano (in provincia di Ancona nelle Marche) e negli Abruzzi.

Tornando alla questione della lince nel sud Italia, due sono le specie di linci presenti in Europa, la Lince comune (Lynx lynx) che vive in habitat di dense foreste, e la Lince pardina (Lynx pardinus) che viveva in habitat di macchia mediterranea. La lince pardina era ritenuta una sottospecie della comune, oggi invece la si ritiene una specie a sé. La Lince pardina, lo dice il nome scientifico stesso, ha la caratteristica del mantello leopardato con maggiore contrasto ed evidenza rispetto alla Lince comune. Il pelo della pardina è più corto rispetto al pelo nella lince comune. Recentemente si è avuto un avvistamento di una Lince che pareva proprio una Lince pardina, fotografata nel maggio 2013 sull’Appennino forlinese, nel comune di Santa Sofia. La Lince comune vive oggi in Trentino, Slovenia e Austria. La Lince pardina nella Penisola iberica. Non meraviglierebbe comunque che in Italia possano vivere entrambe le specie, che vivono in habitat diversi; nel Pleistocene si sa che vivevano entrambe ad esempio nell’Europa centrale.

In Italia la presenza della lince è testimoniata da reperti ossei già del Pleistocene medio superiore.

Tra i principali giacimenti paleontologici attestanti la presenza di animali del genere Lynx nel Pleistocene superiore in Italia, vi sono sul Gargano quelli di Grotta Paglicci e Ingarano; nella Puglia  centrale Grotta della Masseria del Monte; nel Salento Grotta delle Striare,  Grotta di Capelvenere, Serra Cicora, Grotta M. Bernardini, e San Sidero (tra i feudi di Maglie e Melpignano).

Nei giacimenti paleontologici pleistocenici nel Salento non solo sono comuni i cervidi fondamentali per l’alimentazione della lince comune, da cui il nome lupo cerviero, ma anche i conigli selvatici (Oryctolagus cuniculus) fondametali per l’alimentazione della lince pardina oggi detta iberica in quanto come i conigli selvatici è diffusa nella penisola iberica.

Indagini genetiche paleontologiche hanno confermato ora ciò che naturalisticamente era plausibile come qui discusso, cioè la presenza non solo della lince comune ma anche della sua varietà/specie pardina!

Ergo reintrodurre in Puglia conigli selvatici e linci pardine un dovere naturalistico!!!

 

Lince pardina

 

Tra i principali giacimenti paleontologici attestanti la presenza di animali del genere Lynx nell’Olocene, la nostra era geologica, successiva a quella pleistocenica, abbiamo quello nel nord del Salento di Santa Maria di Agnano.

Tutto quanto detto fa pensare che la lince più diffusa nel sud Italia in area di macchia, come ad esempio in Arneo nel Salento nell’ ‘800, fosse più simile alla la Lince pardina che alla Lince comune. Questa probabilmente del sud Italia anche per le sue caratteristiche era la specie di Lince ritratta nel mosaico di Otranto nella scena di Re Artù, (se non la più classica Lince comune), perché è in essa ben evidente il particolare del mantello maculato. Certamente una lince ben comune ai tempi del mosaico di Otranto nel Salento e alle quali si son ispirati i mosaicisti oltre che tener conto di vecchie raffigurazioni possibili della scena ritratta con coinvolto re Artù.

Del resto i nomi dati a quelle linci, “gattopardo”, “pardo”, “feli-pardo” in sud Italia da autori del ‘700, ne rimarcano tutti il carattere fortemente leopardato del mantello ben maculato.

 

APPENDICE

Testo intero del

“Detto del Gatto lupesco”

Sì com’ altr’ uomini vanno,
ki per prode e chi per danno,
per lo mondo tuttavia,
così m’andava l’altra dia
5per un cammino trastullando
e d’un mio amor già pensando
e andava a capo chino.
Allora uscìo fuor del cammino
ed intrai in uno sentieri
10ed incontrai duo cavalieri
de la corte de lo re Artù,
ke mi dissero: «Ki·sse’ tu?»
E io rispuosi in salutare:
«Quello k’io sono, ben mi si pare.
15Io sono uno gatto lupesco,
ke a catuno vo dando un esco,
ki non mi dice veritate.
Però saper vogl[i]o ove andate,
e voglio sapere onde sete
20e di qual parte venite».
Quelli mi dissero: «Or intendete,
e vi diremo ciò che volete,
ove gimo e donde siamo;
e vi diremo onde vegnamo.
25Cavalieri siamo di Bretagna,
ke vegnamo de la montagna
ke ll’omo apella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
30la veritade di nostro sire
lo re Artù, k’avemo perduto
e non sapemo ke·ssia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra,
ne lo reame d’Inghilterra.
35A Dio siate voi, ser gatto,
voi con tutto ’l vostro fatto».
E io rispuosi allora insuno:
«A Dio vi comando ciascheduno».
Così da me si dipartiro
40li cavalieri quando ne giro.
E io andai pur oltre addesso
per lo sentiero ond’ iera messo,
e tutto ’l giorno non finai
infin a la sera, k’io albergai
45con un romito nel gran diserto,
lungi ben trenta miglia certo;
ed al mattino mi ne partio,
sì acomandai lo romito a Dio.
Ed ançi k’io mi ne partisse,
50lo romito sì mi disse
verso qual parte io andasse:
veritade non li celasse.
E io li dissi: «Ben mi piace;
non te ne serò fallace
55k’io non ti dica tutto ’l dritto.
Io me ne vo in terra d’Egitto,
e voi’ cercare Saracinia
e tutta terra pagania,
e Arabici e ’Braici e Tedeschi
60. . . . [eschi]
e ’l soldano e ’l Saladino
e ’l Veglio e tutto suo dimino
e terra Vinençium e Belleem
e Montuliveto e Gersalem
65e l’amiraglio e ’l Massamuto,
e l’uomo per kui Cristo è atenduto
dall’ora in qua ke fue pigliato
e ne la croce inchiavellato
da li Giudei ke ’l giano frustando,
70com’ a ladrone battendo e dando.
Allor quell’uomo li puose mente
e sì li disse pietosamente:
“Va’ tosto, ke non ti dean sì spesso”;
e Cristo si rivolse adesso,
75sì li disse: “Io anderòe,
e tu m’aspetta, k’io torneròe”;
e poi fue messo in su la croce
a grido di popolo ed a boce.
Allora tremò tutta la terra:
80così·cci guardi Dio di guerra».
A questa mi dipartìo andando
e da lo romito acomiatando,
a cui dicea lo mio vïag[g]io.
Ed uscìo fuor dello rumitag[g]io
85per un sportello k’avea la porta,
pensando trovare la via scorta
ond’ io andasse sicuramente.
Allor guardai e puosi mente
e non vidi via neuna.
90L’aria era molto scura,
e ’l tempo nero e tenebroso;
e io com’ uomo pauroso
ritornai ver’ lo romito,
da cui m’iera già partito,
95e d’una boce l’appellai,
sì li diss’ io: «Per Dio, se·ttu sai
lo cammino, or lo m’insegna,
k’io non soe dond’ io mi tegna».
Quelli allora mi guardòe,
100co la mano mi mostròe
una croce nel diserto,
[lungi] ben diece miglia certo,
e disse: «Colà è lo cammino
onde va catuno pelegrino
105ke vada o vegna d’oltremare».
A questa mi mossi ad andare
verso la croce bellamente,
e quasi non vedea neente
per lo tempo ch’iera oscuro,
110e ’l diserto aspro e duro.
E a l’andare k’io facea
verso la croce tuttavia
sì vidi bestie ragunate,
ke tutte stavaro aparechiate
115per pigliare ke divorassero,
se alcuna pastura trovassero.
Ed io ristetti per vedere,
per conoscere e per sapere
ke bestie fosser tutte queste
120ke mi pareano molte alpestre;
sì vi vidi un grande leofante
ed un verre molto grande
ed un orso molto superbio
ed un leone ed un gran cerbio;
125e vidivi quattro leopardi
e due dragoni cun rei sguardi;
e sì vi vidi lo tigro e ’l tasso
e una lonça e un tinasso;
e sì vi vidi una bestia strana,
130ch’uomo appella baldivana;
e sì vi vidi la pantera
e la giraffa e la paupera
e ’l gatto padule e la lea
e la gran bestia baradinera;
135ed altre bestie vi vidi assai,
le quali ora non vi dirai,
ké nonn·è tempo né stagione.
Ma·ssì vi dico, per san Simone,
ke mi partii per maestria
140da le bestie ed anda’ via,
e cercai tutti li paesi
ke voi da me avete intesi,
e tornai a lo mi’ ostello.
Però finisco ke·ffa bello.

Edizione“Poeti del Duecento”
a c. di Gianfranco Contini
Ricciardi, Milano-Napoli 1960

 

 

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