IL SALENTO, LA TERRA DEI DRAGHI – i mostruosi giganteschi serpenti dal capo adorno di corna

IL SALENTO, LA TERRA DEI DRAGHI

i mostruosi giganteschi serpenti dal capo adorno di corna

 

Nell’immagine, a sinistra foto del grande serpente cornuto nel mosaico pavimentale del XII sec. d.C. della Cattedrale di Otranto, in un tondo nella navata centrale a livello del transetto; a destra immagine del Ketos, il drago affrontato dall’eroe semidivino Perseo estratto da un vaso apulo a figure rosse del 340-330 a.C., fabbricato e rinvenuto in Puglia.

 

Il grande poeta latino Virgilio, (70-19 a.C.), nella sua opera intitolata “Georgiche”, dedicata alla celebrazione dell’agricoltura e della vita nei campi, così scriveva del misterioso mostruoso serpente del Salento:

«E vi è anche nelle boscaglie del Salento un malo serpente, che, il busto eretto, contorce lo squamoso dorso e che sul lungo ventre reca grandi macchie; questo, finché i rivi prorompono dalle loro fonti e la terra è madida degli umori primaverili e dei piovosi Austri, frequenta gli stagni e, ponendosi sulle loro sponde, riempie insaziabilmente la nera gola di pesci e rane loquaci; ma quando la palude si è prosciugata e la terra si spacca per il calore, si allontana verso i luoghi asciutti e roteando gli occhi fiammeggianti infierisce nei campi, reso feroce dalla sete e furioso per la calura.» (Georgiche, III vv. 425-434)

Il paesaggio, che descrive Virgilio, per il Salento della sua epoca, era caratterizzato da estati siccitose come ancor oggi; era però una terra ricca di acque dolci superficiali, di rivi, di fonti e foreste, come ancora si presentava diffusamente fino alle sconsiderate opere di disboscamento e di prosciugamento post unitarie, oggi da risanare con sagge e scientifiche opere estese di rinaturalizzazione.

Il passo e la traduzione sono tratte dal libro “I Messapi e la Messapia nelle fonti letterarie greche e latine” dello studioso Mario Lombardo, professore presso l’ Università del Salento (Congedo Editore, Galatina – 1992), che invita a confrontare questo passo con dei versi dello scrittore greco Nicandro di Colofone (II secolo a.C., floruit nella seconda metà), nel suo poemetto didascalico intitolato “Theriaca” (Rimedi contro le morsicature degli animali velenosi”), 359-371.
Sono i passi che lo scrittore Nicandro dedicava al serpente dalle abitudini anfibie chiamato
“Chersydros”, probabilmente dal greco “xeròs” che vuol dire secco più il greco “hydros” che significa appunto acqua, (termine che compare ancora in alcuni toponimi salentini, come ad esempio il fiume Idro ad Otranto) quindi ad indicare le potenzialità anfibie appunto di adattamento dell’animale, capace di passare da habitat secchi ad habitat umidi.

Lo stesso titolo dell’ opera di Virgilio, Georgiche, (in latino “Georgica”, dal greco georgikòs, “abile contadino”, o, più semplicemente, “agricoltura”), probabilmente deriva proprio da un’opera del poeta greco didascalico Nicandro di Colofone, che nelle sue opere, non mancò di scrivere del Salento e dei suoi miti fondativi più arcaici ed importanti, come quello famosissimo “dei fanciulli e delle ninfe alle rocce sacre”.

Il Chersydros è citato poi anche dallo studioso latino Plinio il Vecchio (23 d.C. – 79 d.C.), nella sua opera enciclopedica intitolata “Naturalis Historia” nel libro XXII, dove scrive che è utile applicare un’ opportuna erba il cardo eringio, sulle piaghe causate dal suo morso. Aggiungiamo che l’ eringio cresce anche lungo le coste sabbiose salentine.

Su questo stesso serpente tipicamente salentino fornisce ulteriori dati un alto successivo scrittore latino, Solino (III secolo d. C.), nella sua opera intitolata “Collectanea Rerum Memorabilium” (“Raccolta di cose memorabili”), che così scrive:

«In Salento è assai diffuso il serpente detto chersydros [n.d.r. sorta di serpente anfibio] e vi nascono buoi che permettono a quel serpente di crescere fino a raggiungere dimensioni enormi. Per prima cosa intercetta una mandria di buoi, e attaccatosi alle mammelle della mucca che sia più ricca di latte si ingrassa succhiando senza posa; col passar del tempo, a causa delle copiose suzioni, da ultimo si gonfia tanto che nessuna forza può contrastare la sua mole, sì che finisce, facendo strage di animali, per rendere deserte le regioni cui si sia stabilito.» (Memorab., 2,33. – passo e traduzione tratta sempre dal testo “I Messapi e la Messapia nelle fonti letterarie greche e latine”)

(Nota: osserviamo che nei due passi latini originari di Solino e di Virgilio, essi chiamano la terra salentina, con il suo antico nome: “Calabria”, termine poi, per vicissitudini storiche, passato diversi secoli dopo, ad indicare quella odierna regione del sud Italia, ad occidente del Salento e ad esso vicina, che all’epoca aveva invece ben diverso nome: Bruzio!)

La spettacolarità di questi antichi passi è che essi riportano vivi racconti popolari rurali almeno già vividi in epoca romana, e relativi al Salento, che ritroviamo con una continuità culturale ininterrotta, raccontati, di padre e madre in figlio, e quasi con i medesimi esatti particolari, diffusamente nel Salento ancor oggi, sulla bocca dunque delle persone anziane e non.
Si racconta infatti, nella contemporanea cultura popolare salentina, di un mostruoso gigantesco serpente che vive, si dice, nella penisola della Puglia meridionale, il tacco d’Italia, e che volgarmente, questo rettile serpiforme, viene chiamato “Pastura-vacche”, (una sua variante: “mpastura-vacche”).
Il suo nome discende dalla sua caratteristica abitudine, ovvero quella di nutrirsi proprio di latte vaccino, di latte di mucca, che suggerebbe direttamente dai capezzoli delle vacche. In talune versioni del medesimo racconto, si aggiunge, che questo serpente può raggiungere dimensioni tali da riuscire addirittura, per meglio attuare la sua rapina del latte destinato ai vitelli, a stringere le sue spire intorno alle zampe della mucca, per immobilizzarla e meglio poter nutrirsi del suo nutriente liquido bianco.
Il termine “pastura”, etimologicamente correlato a “pascolo” e “pasto”, indica proprio l’atto del nutrirsi.

[Nota aggiunta successivamente. Lo studioso di Carpignano Salentino Antonio d’Ostuni scrive “Si crede che questo rettile sia ghiotto di latte e si distinguerebbe per la delicatezza diabolica con cui sugge, tanto che, si dice pure, le vacche non restano dispiaciute del trattamento, anche se il serpente blocca i piedi posteriori del bovino con le sue spire. Nel nostro dialetto si chiama mpasturavacche, tale termine deriva dal fatto che il serpente blocca le gambe del bovino, infatti pastura è la pastoia ossia la fune che viene legata alle zampe delle bestie al pascolo perché non si allontanino, per evitare che scappino via; mpastura– quindi dal verbo impastoiare, proprio perché impastoiava i bovini. Pastóia s. f. [lat. tardo pastōria, der. di pastus -us «pascolo, pastura»]. – 1. Fune che viene legata alle zampe anteriori delle bestie al pascolo perché non si allontanino.  ”

Interessante proposta etimologica con una indiretta convergenza con l’altra proposta etimologica (quella di “serpente che si nutre di latte vaccino, che pastura, si alimenta al pascolo con latte vaccino”) se si tiene conto dell’etimologia di pastoia sopra riportata.

Riporto altri particolari interessanti da un post facebook sull’argomento di Antonio d’Ostuni: “quando le vacche non producevano latte subito si dava la colpa a lu ‘mpasturavacche“. Mentre quando un poppante faticava a crescere si dava la colpa a Maglie alla sacara.]

Non entriamo qui, per lo meno subito, nella disquisizione scientificamente interessante, se davvero potrebbe un serpente nutrirsi di latte ben digerendolo, latte che il serpente non secerne poiché anche trattasi di un rettile e non di un mammifero come la mucca.
In ogni caso dal punto di vista etnologico almeno, la correlazione serpente–latte nella cultura popolare salentina è fortissima.
Fermo restando che, nella mitologia popolare salentina odierna, è il “pastura-vacche” il serpente più gigantesco che si possa incontrare nei campi del Salento, rimanendone terrorizzati, impietriti, o fuggendo via abbandonando ogni opera in cui si è impegnati, vi è un altro interessante nome che si da ai serpenti del Salento.
Nel dialetto locale, questo nome è “Sacara”, termine con cui si designano soprattutto serpenti che si crede possano sempre raggiungere cospicue dimensione, ma non tali da eguagliare comunque il “pastura vacche”.
In questa fase etnografica di raccolta di racconti dalla viva voce della gente, o da fonti che si abbeverano alla medesima sorgente popolare, la confusione con la tassonomia scientifica delle specie note alla scienza erpetologia per il Salento è elevatissima, e nei nomi popolari le confusioni son altissime, per questo motivo, in questa fase, ci stiamo limitiamo a indicare le caratteristiche più salienti attribuite ai due tradizionali serpenti indicati con i due nomi sopra esposti: “pasturavecche” e “sacara”.

Il nome “sacara”, pare sia il frutto di una metatesi, spostamento di sillabe, del nome latino “casara”, serpente della casa, un serpente allevato in casa per tener lontani e mangiare i topi, e preservare così le dispense, e i granai. Si racconta che a Maglie nel cuore del basso Salento, ad esempio, nella prima metà del secolo XX, vivesse ancora un’ anziana donna contadina, vista dalle bambine come una sorta di strega, che aveva in casa con sé, sotto lo stesso tetto, oltre al cavallo, anche dei serpenti, che rispondevano alle vibrazione della sua voce, quando li chiamava e le andavano incontro! Una convivenza e semidomesticazione dei serpenti, che ci accumunava ad altre realtà mondiali dove ancor oggi grossi serpenti, ad esempio nei paesi dell’India, vengono allevati proprio al fine principale di contenere le altrimenti esponenzialmente crescenti popolazioni di ratti. Serpenti domesticati come in sorta gatti domestici.
Il termine “casara” ci richiama però alla mente anche un altro termine salentino, quello di “casu”, il formaggio, e al di là dell’assonanza e della etimologia, la Sacara salentina è fortemente legata, nei racconti popolari, al latte, questa volta al latte materno umano.
Si raccontava, e racconta ancora ai nostri giorni, che nottetempo, nel letto dove dormiva una madre con il bambino ancora allattante, poteva risalire una sacara, che scostava dal capezzolo il bambino, mettendogli in bocca la punta della sua coda da suggere, senza poterne però trarre il piccolo alcun nutrimento; la coda a mo’ dunque di succhiotto, ciucciotto; e quindi con la sua ofida bocca il serpente si attaccava al capezzolo del seno gonfio di latte e provvedeva a succhiarne avido ogni goccia, simulando i movimenti della bocca del bambino, per non insospettire la madre dormiente.
Quando il bambino si osservava che non cresceva e non prendeva peso, che era deboluccio e dal colorito che comunicava poca salute, allora subito si gridava alla presenza della Sacara, e si andava in cerca di questa nella casa per ucciderla o allontanarla, rovistando e scrutando per veder se si annidasse nella casa, magari proprio sotto il letto dove magari si tenevano anche ramaglie per il fuoco, o altre masserizie. In tempi passati, ancora nella prima metà del XX secolo, non erano pochi i casi, anzi spesso era la norma per i contadini, quella di condividere gli stessi spazi domestici, le stesse stanze, con galline e altri animali domestici; sotto il letto non mancavano talvolta di trovarvi notturno riparo le stesse galline.
Questa diceria salentina della sacara che collega serpenti e bambini nel letto, raccontata nella terra salentina messapica e magno-greca al contempo, intrisa di grecità, che è il Salento, e dove ancora si parla un antichissimo dialetto grecanico, il “griko” localmente detto, insieme al dialetto romanzo latino, il locale dialetto, (il Salento terra italica più prossima alla Grecia, equidistante sulla stessa direttrice tra Roma ed Atene), ci richiama alla mente la leggenda mitologica del piccolo Eracle (Ercole per i latini), l’eroico semidio greco figlio di Zeus, che da piccolo ancora nella culla, uccise strozzandoli con le sue mani due grandi orribili serpenti sprizzanti veleno, che la dea Era (una dea madre) aveva inviato per ucciderlo, gelosa poiché il piccolo era la carnale testimonianza dell’unione sessuale del suo consorte Zeus con una donna mortale da lui sedotta e fecondata. Fortissimo era il culto di Eracle nel Salento messapico, come dimostra la mitologia trasmessa dalle fonti antiche greco-latine, la toponomastica salentina odierna e antica, ma anche l’archeologia e le innumerevoli rappresentazioni del semidio eroico Eracle, in statuette e pitture dell’antichità.

[Il nome in greco antico  Heraklès, composto da Era, e kléos, gloria, significava in realtà “gloria di Era” a dispetto del racconto, poiché era probabilmente l’epiteto di un originario dio maschile celeste, congiunto alla dea madre terra, Era, nella costituzione della sacra coppia cosmica maschile-femminile. Infatti anche un epiteto di Eracle in Beozia, il Karops, da cui discese un nome comune diffuso in Grecia già da epoca micenea, lo caratterizzava come dio dagli “occhi carismatici”, apportatore di fertilità, o lo legava con i medesimi valori simbolici, alla Dea Madre “Kar”, uno dei suoi tantissimi nomi antichi].

[Nota aggiunta successivamente: lo studioso Antonio d’Ostuni racconta invece che il furto del latte materno orchestrato dal serpente avveniva quando le contadine, che avevano partorito da poco, si addormentavano allattando i propri figli all’ombra di un ulivo durante la pausa dal lavoro.]

Un altro nome, in vernacolo, di serpente salentino, questo forse più facilmente identificabile tassonomicamente, è “Scursune”, termine con cui si designa il comune serpente nero della specie nota più comunemente oggi in Italia come Biacco nero o “Carbonaro” (scientificamente Hierophis viridiflavus).

Ma torniamo al più misterioso “Pastura-vacche”, (talvolta distinto, talvolta identificato popolarmente con la medesima “Sacara”).
Parliamo sì di racconti sulle abitudini alimentari e comportamentali etologiche, come sulla dimensione e forza di questo serpente, che risalgono all’antichità romana, ma il fatto che le medesime leggende e caratteristiche siano state trasmesse anche oralmente, con continuità nei secoli, e raccontate con vivacità, e riferite non ad un animale estinto, ma ad un animale comunque vivo e vegeto e, a sentire i racconti, diffusissimo, aumenta ancor più il fascino investigativo della questione cripto-zoologica che vi si connette e che vi viene sollevata inevitabilmente!

Le descrizioni di avvistamenti anche solo del secolo scorso, persino della seconda metà del XX secolo, e talune anche dei recenti anni del nuovo millennio, raccontati da viventi nostri contemporanei, che riferiscono fatti vissuti sulla loro pelle o di persone che comunque hanno conosciuto personalmente, non si contano! Sono decine, centinaia le segnalazioni di immensi serpenti identificati popolarmente con il misterioso pastura-vacche o con la sacara. Tanti sono pronti a giurarlo su quanto hanno di più caro e sul loro onore, dicono di averlo visto personalmente il grande serpente! E anche una ricerca su media, sui giornali locali e sui servizi delle tv locali porterebbe ad una cospicua raccolta di materiale in merito.
Riportarli qui tutti sarebbe impossibile. Ma cerchiamone una sintesi. Possiamo dire che non vi è quasi paese del Salento, non vi è quasi contrada rurale, dove non si siano avuti avvistamenti di questi immensi squamosi terrificanti draghi salentini serpentiformi, da zone umide, a zone secche, da boscaglie a seminativi, da uliveti a frutteti, persino talvolta in grotte, voragini carsiche, pozzi e cisterne; e poi presso vecchi ruderi e rovine, in vecchie cave, dentro cavità nei muretti a secco; le descrizioni sono impressionanti, serpenti dalle teste a volte descritte grosse “quanto la testa di un uomo”, “quanto la testa di un cane”; corpi di considerevole lunghezza, anche persino, in certi racconti di serpenti solo visti o anche abbattuti, di più di dieci metri (!?); serpenti dalla sezione come di grossi tubi, di “grossi tronchi”; innumerevoli i colori e i disegni talvolta descritti per la loro sgargiante luccicante livrea; talaltra i colori sono più omogenei e meno vivaci, quasi monocromatici nelle descrizioni, di grigio o altre tonalità cromatiche. Di questi serpenti, chi lì ha visti, parla spesso con rispetto, si sente che molti attribuiscono loro una dignità superiore. Sono considerati di età veneranda.
E i racconti son intrisi della paura, dell’ impietrimento, della fretta di fuggir via e mettersi in salvo, magari lasciando ogni impegno in cui si era affaccendati. C’è anche chi andando a caccia, pur avendo con sé il fucile, non ha sparato all’animale impressionante in cui si è imbattuto, soprattutto per la paura che vi si accanisse ferito contro di lui, e se l’è data via a gambe levate. Si racconta anche di persone rimaste talmente scioccate dall’incontro da non essersi più psicologicamente riprese. Se tra chi racconta si può trovare qualche bugiardo, tante persone che raccontano questi avvistamenti son persone degne di fede. E i racconti non vengono necessariamente e solo da parte di contadini semi-analfabeti e poco scolarizzati e acculturati. Avvistamenti avvenuti tanto da parte di uomini, quanto da parte di donne, durante lavori agricoli nei campi, durante attività di caccia, mentre si riposava nelle campagne magari sotto alberi, mentre ci si appartava per un bisogno fisiologico; mentre si stava scavando e si finiva in un antro-tana, o mentre si ripulivano delle cavità, cisterne e pozzi! Si dice che, stesi, talvolta son stati visti in campi arati, e si è osservato lì che eran grossi “quanto un solco d’aratro”, una similitudine dimensionale che ci richiama al mondo della civiltà contadina, o anche mi han detto alcuni contadini, che la loro sezione era grande quanto una “pala de fica” (il tipico cladodo dell’Opunzia Fico d’India). Quando attraversano un campo di grano lasciano, si dice, un riconoscibile solco al loro passaggio poiché piegano ampiamente le spighe. Talvolta son stati visti attraversare stradine campestri bordate da muretti a secco e non si vedeva la loro testa mentre strisciavano lenti, e il loro corpo era lungo quanto l’intera larghezza del tratturo più tutta l’altezza del muretto e dunque oltre, là dove era il loro capo non visto, tanta era la loro lunghezza! Tanto lunghi a volte da esser stati osservati mentre con parte del corpo erano su un albero e scendevano con la restante parte del lunghissimo corpo in pozzi, forse per abbeverarsi.
Erano il terrore dei “trainieri” i conduttori di carretti, (“traini” in dialetto leccese), che temevano la comparsa dei grandi serpenti lungo i sentieri perché potevano imbizzarrirsi i cavalli per la paura, anche con possibili spiacevoli conseguenze per il carico e le persone.
Nel fendere la terra con l’aratro, raccontavano i contadini, si intercettavano con le lame dei coltelli dell’aratro i serpenti che riposavano nelle loro tane sotto terra. E da qui i loro corpi feriti o tranciati finivano per aggrovigliarsi alle lame dell’aratro.

Soltanto racconti spauracchio per incrementare l’immaginario dei bambini? Non pare proprio!
Esagerazioni?! Certo! Suggestioni e paure che portano ad ingigantire i ricordi? Certissimamente!
Ma in parte!
Una cosa è certa, parlare di sola suggestione, come talvolta fanno taluni più scetticamente disinteressati di fronte ad una tale millenaria casistica sarebbe da ben più che stolti!
I grandi serpenti esistono, questo è certo, e bisogna in questa materia e questione distinguere gli aspetti scientifici zoologici, da quelli sempre scientifici ma più prettamente antropologici e psicologici!

Si potrebbe anche nel campo cripto-zoologico immaginare alcuni degli avvistamenti come frutto di deliberate immissioni, liberazioni in natura di animali, serpenti esotici tenuti illegalmente da privati, e probabilmente alcuni casi potrebbero essere ricondotti a questa spiegazione, le cronache odierne non mancano, ma non basterebbe a spiegare perché già in epoca romana il Salento fosse così noto per i suoi immensi serpenti, e così ancora nei primi del ‘900!
E poi forse questa ultima spiegazione facile dell’ “alloctono”, dell’esemplare esotico introdotto, per giustificare ogni volta anomali avvistamenti non verificati, oggi potrebbe corrompere i più recenti avvistamenti dei “pastura vacche”; così oggi, mi è stato detto quest’estate 2013, si favella che qualcuno abbia liberato un’ immensa anaconda nelle aree delle Cenate a Nardò, per spiegare avvistamenti di immensi serpenti lì avvenuti pare in canali bordati da fitti canneti!
Certo, se non un anaconda sud americana proprio, potrebbe essere un altro grosso rettile esotico, ma dato questo sostrato salentino molto interessante potrebbe essere anche un grande serpente salentino tout court, senza necessità di ricorrere alla spiegazione dell’ alieno!

Generalmente non ho raccolto mai casi narrati di gratuite aggressioni da parte dei misteriosi, quasi mitologici pastura-vacche all’uomo, ma solo un caso, mi raccontarono, di una persona, un uomo, che sarebbe stato ucciso e mangiato (tutto da verificare nell’area di Trepuzzi diversi anni or sono!) da uno di questi grossi serpenti perché, era sceso in una cisterna per ripulirla, scoprendo quando era troppo tardi che quel luogo era stato eletto a dimora da un enorme pastura-vacche.

Tutti questi racconti e elementi, da cui la sintesi sopra esposta, sono collegati ad avvistamenti che sarebbero avvenuti grossomodo nel secolo scorso, e alcuni nei primi di questo millennio.

Nella maggior parte dei casi i serpenti in questi avvistamenti vengono lasciati in pace, in alcuni casi invece si racconta della loro barbara uccisione, pratica stupida che ancora vede vittime i serpenti salentini delle varie specie, anche specie assolutamente non velenose! Si ritiene che del serpente siano comunque velenose, oltre ai denti, le punte delle costole, e di altre sporgenze ossee, per cui i corpi delle serpi venivano stesi a decomporsi, una volta uccisi, sui muretti a secco salentini, perché i ladri non osassero oltrepassarli a tutela dei frutti e di altri beni della proprietà privata. Vi ho visto ancora pochi anni fa nell’agro di Maglie, su un muretto a secco, persino un serpente impagliato in posizione aggressiva, un feticcio apotropaico anche per tener lontano il male oltre che i ladri, indubbiamente. Come non fare un parallelismo con i draghi che nei miti greci difendevano tesori in magici giardini e sugli alberi? Penso al mitico Giardino delle Esperidi dove cresceva un misterioso albero dai pomi d’oro che era custodito dal drago dalla cento teste chiamato Ladone; come undicesima fatica, ad Eracle era stato ordinato di cogliere tre mele d’oro da quella pianta e si dovette affrontare e vincere quel drago per cogliere quei frutti. Un albero che apre ad una questione potremmo dire anche di cripto-botanica o comunque di antropologia. Penso poi anche al drago che nella Colchide difendeva il mitico Vello d’oro posato su un grande albero in una foresta, Giasone dovette affrontare il drago per recuperare il Vello d’oro. Quel drago era insonne, Giasone gli spruzzò una pozione ricavata da alcune erbe, datagli da Medea, il drago si addormentò ed egli poté conquistare il Vello d’oro.

Si racconta poi anche che questi grandi serpenti salentini mangiano, divorandole per intero, una o due pecore all’anno, e dopo il pesante abbondante pasto vanno in una sorta di letargico riposo in cavità come grotte e pozzi, o nelle macchie.

Per cui non meraviglia che si arrivi a raccontare di uomini divorati dai pastura-vacche come sopra accennato.

 

 

In merito all’ aggressività nei confronti dell’uomo, riporto la leggenda che si racconta a Maglie, secondo cui nei pressi della antica chiesetta rupestre di San Donato nei pressi di Masseria Muntarrune, vivrebbe un grande serpente “sacara” che tutelerebbe il luogo, innocuo con i puri di spirito, ma spietato con i cattivi di cuore. (Masseria Muntarrune, un luogo dell’agro magliese dove anche si raccontano storie lì ambientate relative al folletto burlone chiamato localmente “scazzamurieddhu”).
Questa leggenda del grande serpente custode del luogo, ricorda quelle greche del drago a tutela del Vello d’Oro d’un ariete in Colchide, o a tutela dell’albero dai pomi d’oro nel Giardino delle Esperidi; due oggetti da recuperare, il vello e i pomi, che troviamo nei miti degli Argonauti, (argonauti dei quali faceva parte anche Eracle), e delle fatiche di Eracle rispettivamente. Miti degli Argonauti legati anche alle rotte commerciali micenee nel mare Adriatico, (mare che prenderebbe il nome, secondo alcune fonti antiche, da Adrio, figlio del re eponimo dei Messapi, Messapo; e leggo anche di un suo secondo figlio, di nome Ionio, che diede invece il nome all’altro mare che bagna sempre la Penisola salentina; una delle tante ipotesi leggendarie sull’origine di questo nome).

E in merito agli avvistamenti di grossi serpenti non identificati con certezza tassonomica, anch’io ho avuto la fanciullesca fortuna di potermi affacciare, per esperienza personale, nel novero di questa immensa casistica.
Ero piccolo, ma già grandemente appassionato alla Natura, ero in macchina, e i miei genitori mi portavano al mare. Ci avevano indicato una scorciatoia di strade asfaltate, ma vicinali, per arrivare più rapidamente nell’area degli Alimini in feudo di Otranto, per noi che venivamo da Maglie, e che imboccavamo a partire dall’area dei paesi di Carpignano-Serrano. Lungo quelle stradine di campagna i miei genitori si fermarono impressionati all’altezza di un canale asciutto; era luglio o agosto; un canale che sfocia nella zona dei laghi Alimini; e lì all’ombra di un albero di fico, sulla strada asfaltata che si snodava tra uliveti e seminativi, bordata da muretti a secco, l’impressionate corpo di un enorme serpente, per me il più grande a mia memoria mai visto in libertà nel Salento. Era stato ucciso da un’ auto che gli aveva schiacciato la testa rendendo molto difficile capire di che specie si trattasse. Ricordo un colore verde scuro di base e macchie rosse, disegni non lineari, e un diametro di sei centimetri almeno del corpo, per una lunghezza  che non saprei dire, ma certamente di almeno un metro e mezzo, ed era di dimensioni comunque ben inferiori a quelle dei tanti racconti di avvistamenti sui pastura-vacche.
Ancora mi rammarico grandemente per non essermene infischiato delle lamentele di mia madre, seppur anche lei estremamente incuriosita dell’avvistamento, per non aver messo in una busta il grosso serpente su cui già svolazzavano delle mosche, e non averlo portato a casa per metterlo e conservarlo in una soluzione di alcool o formalina da acquistare ad hoc, per poterlo poi meglio classificare e studiare con calmare! E invece lo lasciai lì a marcire con mio ancora grande rammarico.
Nel mio ricordo, quella sua grande testa, quei colori, quella sua significativa presenza, tanto mi son stati richiamati alla mente quando mi sono imbattuto nella strabiliante descrizione del Chersydros salentino fatta dal grande Virgilio, che alla terra salentina è legato per la sua morte, avvenuta a Brindisi di ritorno dalla Grecia!

Le strade fanno purtroppo nel Salento parecchie vittime di serpenti, e le stragi maggiori quando si apre una nuova strada ad alto traffico, in questo caso infatti si intercettano i consueti itinerari di tanti serpenti nei loro prima vergini territori, e nel ripercorrere le loro traiettorie i serpenti rischiano così nell’attraversamento della nuova strada di essere uccisi dalle ruote degli autoveicoli. Quando alcuni anni fa, ad esempio, fu costruita la nuova strada provinciale Giuggianello-Palmariggi, ai piedi del Monte di San Giovanni, nell’ entroterra otrantino, la strada fu ribattezzata la “via dei serpenti”, per gli innumerevoli serpenti, piccoli e grandi, che era possibile osservare morti nei primi mesi lungo la stessa!

Ma torniamo al Pastura-vacche che è il medesimo drago Chersydros di Solino, bevitore appunto di latte vaccino. Per i greci il nome “drago”, che è di origine greca, designava talvolta semplicemente un grande serpente.

Siamo con Virgilio e Solino in un’ epoca pre-linneana per così dire, prima che si giungesse ad una maggiore conoscenza scientifica del concetto di specie e prima di una ben precisa ordinazione tassonomica delle diverse specie, (nonostante comunque importati studi in tal senso, ad esempio tanto di studiosi greci, quanto di latini), per questo la confusione era inevitabilmente tanta, ciò non toglie che nelle antiche descrizioni, negli antichi racconti, si possano rintracciare interessanti dati zoologici, misti quasi sempre ad altri orpelli antropologici.

Nei racconti anche ancora novecenteschi di avvistamenti del grande pastura-vacche possiamo distinguere due grandi categorie, avvistamenti di grandi serpenti dal capo provvisto di cornee escrescenze, ed altri grandi serpenti, anche ben osservati nel capo, ma privi di questi ulteriori elementi cornei.

Compaiono dunque nel Salento, in questa casistica, innumerevoli segnalazioni di grossi serpenti dal grosso capo cornuto, dotato di una o più paia di corna simmetriche (sui due lati del capo), o da singoli corni centrali (forse sul muso, forse sul capo), o insieme.

Per caratterizzarli si ritrova addirittura un nome specifico nel vernacolo salentino, in particolare mi è stato detto, diffuso nel Capo di Leuca (la propaggine più meridionale del Salento), il loro nome è: “Caproni”.

Un termine che ne designa la somiglianza ai caproni appunto, per le corna.

Ad esempio, specificatamente, mi parlava di serpenti “Caproni”, la fonte che mi riportava il racconto di questi immensi serpenti, che mangerebbero una o due pecore l’anno, di cui sopra, e sempre di serpenti “caproni”, il racconto di quell’ unica aggressione che sopra ho riportato, nel materiale etnografico in sintesi esposto. Nella descrizione dei caproni, ho colto dalla voce popolare l’attribuzione a loro di una maggiore aggressività. Ma come per i racconti salentini sui pastura-vacche in generale, e sulla sacara, anche per i racconti salentini specificatamente sui “caproni”, non ho mai raccolto elementi riferibili ad una velenosità del loro morso.

Ma il termine “Caproni” ci richiama un recente avvistamento popolare di serpenti cornuti che ci giunge sempre dal sud Italia ed in particolare dalla Calabria, terra legata continentalmente al Salento attraverso la Lucania, e i cui monti del Pollino e della Sila, persino di scorgono al di là del Golfo Tarantino, nell’orizzonte occidentale del Salento nelle giornate in cui il cielo è più terso. Tale avvistamento risale a qualche anno fa, la notizia dell’apparizione, in un bosco calabrese, di un «serpentello», forse un cucciolo, di «color marrone terra, di corporatura spessa, con due cornetti e una specie di barba come una capra», che sarebbe stata preceduta, negli anni Settanta del ‘900 (il secolo scorso), dall’assai più terrificante rinvenimento, in lavori di sterro, di un suo parente egualmente barbuto ma di ben addirittura si è arrivati a dire «quindici metri di lunghezza»; più che probabilmente una esagerazione popolare, ma l’esagerazione ne evidenzia comunque la mole considerevole dell’avvistamento. (Dati su questi avvistamenti nell’odierna Calabria, tratti dall’articolo “Pittura Ellenistica in Italia ed in Sicilia, linguaggi e tradizioni”, Atti del Convegno di Studi, Messina, 24-25 sett. 2009, di Giocchino Francesco La Torre e Mario Torelli – Giorgio Bretschneider Editore, Roma, 2011).
Note interessanti che ancor mettono in risalto le somiglianze di questi misteriosi serpenti, tanto da essere paragonati, nella descrizione e nel nome salentino, a dei caproni.

E di serpenti cornuti, capiamo già da quanto scritto, si parla non solo in Salento, ma in tutto il sud Italia, territorio dove circola anche un altro nome per i grandi serpenti cornuti, questo nome è “Cervoni” termine attestato da almeno il XVI secolo d.C., e con le sue varie varianti, sempre nel sud Italia, “cervone”, “cervu”, “capu-ciervu”, “serpe cervinara” (tutte queste ritrovabili ad esempio ancora in tempi odierni in terra calabrese). Un ulteriore nome “cervone”, che indicava originariamente un grosso serpente terricolo e/o acquatico.
E’ un termine che ne designa il grosso capo cornuto, da cui il paragone con il cervo, e l’uso etimologico della stessa radice del greco “kéras”, che vuol dire “corno”. Dunque animale dal capo cornuto.

Ora tornando al termine “chersydros”, colpisce la somiglianza forse anche etimologica, della prima parte del termine “cher-”, che ci richiama alla mente proprio il nome del corno, delle corna in greco antico. Forse il significato letterale del nome “chersydros” era proprio già in greco, “serpente cornuto terra-acqueo”.
Altra possibile etimologia del termine “chersydros” potrebbe essere dal greco “chersos” che vuol dire “terra arida” più “hydros” che vuol dire “acqua”, col significato dunque di serpente dalla vita anfibia, nel senso che può vivere tanto in ambiente terrestri acquitrinosi quanto in ambienti secchi; abitudini etologiche che corrisponderebbero proprio a quelle del grande serpente di cui scrisse Virgilio, e che egli raccontava vivesse in Salento.

Risulta estremamente difficile poter dipanarla la questione cripto-zoologica sollevata dalla questione dei serpenti cornuti.
Vi è chi ipotizza che l’immagine sia stata suscitata dalla scena naturalistica osservata di un serpente mentre ha semi-ingoiato un uccellino sua preda, semi-ingoiato a partire dalla testa, come fanno in tal caso i serpenti (che non masticano sezionando le piccole come le grandi prede, o le uova, ma le ingoiano solitamente per intero grazie alla mandibola e alle ossa del cranio disarticolabili che permettono enormi aperture della bocca). In tale scena le due zampe della piccola vittima che ancora escono e si aprono con le dita artigliate sui due lati della bocca del serpe, darebbero così l’immagine distratta di un serpente con un palco di corna ramificate come quelle di un cervo appunto. O anche nell’ingoiar sempre dalla testa un ratto predato, se si osserva un serpente che ha ingoiato quasi del tutto questa vittima, e ancora la punta della coda del roditore emerge dalla bocca, questa potrebbe dare, in questo caso, l’ immagine distratta di un serpente con un corno, o con corno e palco di corna, se oltre alla coda ancora sporgono sui lati le zampette del topo semifagocitato.
Altri immaginano che le corna possano essere suggerite, sempre in osservazioni distratte del rettile, quando questi è in fase di muta, dallo strato superficiale dell’ epidermide, il vecchio strato detto exuvia, che si rivolta sulla nuca, una prerogativa di tutti gli ofidi italici.
Anche la loro lingua bifida potrebbe contribuire alla genesi di questa suggestione delle corna.

Nei rettili spesso per rompere il guscio del proprio uovo i piccoli sono dotati di un dente sul muso – noto come “dente dell’uovo” – che permette loro di effettuare l’operazione senza sprecare particolari energie. Difficile pensare che questa piccola escrescenza possa porsi alla base del mito del serpente cornuto, ma non escludiamo qui nulla nell’elenco di ipotesi.

In ogni caso questo particolare delle corna per questi serpenti è così forte, che liquidare il tutto come mera suggestione o effetto di indubbie valenze archetipiche pure presenti, potrebbe essere in un’ analisi seria, troppo azzardato e superficiale.
Nel caso del serpente diffuso in tutto il sud Italia, Salento incluso, chiamato Elaphe quatuorlineata, e volgarmente “Cervone”, delle strisce scure, sul capo avano, che escono dall’ occhio e vanno indietro verso il collo, potrebbero, sempre in una distratta osservazione, dare l’ idea di corna sui lati del capo.

Serpente Cervone (Elaphe quatuorlineata)

Ciò che si deve in ogni caso qui sottolineare è come tra i serpenti se ne annoverano diversi che hanno davvero delle escrescenze dell’ epidermide dalla forte parvenza di corna, sul muso, come corno singolo in alcune specie, o sul capo nella forma di due cornetti.
Alcune vipere italiane hanno ad esempio un’ escrescenza a mo’ di cornetto sul muso, altre viventi nel nord Africa hanno proprio un paio di cornetti a punta sui lati del capo e sopra gli occhi, si tratta della velenosa vipera cornuta del Sahara (Ceraste cerastes – nome scientifico in cui compare la radice greca del termine “corno”!). La vipera cornuta ed altri serpenti privi di corna compaiono tra i geroglifici egiziani.
Alcuni crotali, le velenose vipere americane, hanno anche due escrescenze a mo’di corni sugli occhi.

Ma si tratta nel complesso di serpenti non di dimensioni tali da richiamare i “pasture-vacche” – “caproni”, i draghi ofidi “chersidri” del Salento.

Nel tentativo cripto-zoologico di immaginare quali potrebbero essere questi serpenti celati sotto la terminologia salentina, si immaginano forse grandi senili bisce dal collare, (Natrix natrix), specie non velenosa che vive nel Salento, e in tutto il sud Italia, e che frequenta gli ambienti umidi, o grandi esemplari del colubro della specie chiamata scientificamente Elaphe quatuorlineta (e per designare la quale specie si è affermato il comune uso, proprio, del nome “Cervone”), si tratta anche in questo caso di una specie non velenosa diffusa nel Salento ed in tutto il sud Italia come in Grecia, capace di vivere in ambienti secchi, come in ambienti più umidi freschi e boscosi. Capace anche di salire sugli alberi e muoversi sui rami.

In merito alla precisa specie dell’ Elaphe quatuorlineata, questa è tra le più grandi specie di serpenti europee, e ne sono attestate misure record di 260 cm (registrate in Romania nel 1930). Ma per questa specie si registra, guarda caso proprio nell’Apulia salentina, un esemplare imbalsamato che era, (e mi auguro lo sia ancora), conservato nella città di Gallipoli in provincia di Lecce, e che misurava una lunghezza di ben 340 cm !
Il dato, e questi dati dimensioni sulla specie E. quatuorlineata,  li traggo dal testo “Serpenti”Atlanti Natura Giunti, 2009, dove il redattore osserva in merito alle enormi dimensioni dell’ esemplare salentino: « (…) sebbene (1871, 1893) un soggetto imbalsamato di Gallipoli (Puglia) misurasse 340 cm: anche se ingrandito per cause tassidermiche le sue dimensioni reali dovevano essere certamente cospicue».

Una cosa è dunque certa, anche la scienza biologica positivistica dell’ ‘800 confermava che la Puglia, ed in particolare il Salento, è terra di serpenti giganteschi!

Peccato non saper di più, ad ora, dell’ esemplare gallipolino citato, sarebbe interessante capire se fosse corretta la classificazione nella locale specie, se si trattasse di altre specie, o se la stessa specie dell’ E. quatuorlineata  nel Salento ha evoluto una qualche varietà in grado di raggiungere dimensioni considerevolmente maggiori e forse età più venerande nell’ambito di questa specie! Vi è da sottolineare, che nell’ ‘800, i naturalisti salentini ottocenteschi erano tra i più grandi meticolosi e affidabili naturalisti del Regno di Napoli e di tutt’Europa, assolutamente degni della massima fede.

Le specie tassonomiche del Cervone (Elaphe quatuorlineata) e della Biscia dal collare non presentano escrescenze simili a corna sul capo, e non sappiamo se forse queste potrebbero comparire in esemplari molto vetusti. E’ improbabile.
A giudicare dal recente avvistamento calabrese, anche da piccoli i serpenti “cornuti” del sud Italia richiamanti i salentini mitologici “caproni”, dovrebbero avere già dei cornetti.

La confusione cripto-zoologica è grande, e tante domande sorgono. Forse una o più rarissime specie ignote alla scienza che vivevano, e forse vivono ancora nel Salento? Magari specie presenti anche nel Salento, dove però non son state mai scientificamente rilevate, ma note e presenti in altre prossime aree geografiche euro-afro-asiatiche? O varietà locali di specie comunque note? Forse suggestioni di fronte all’atavica paura per i serpenti, e/o mix mnemonici dei ricordi relativi a particolari di serpenti diversi, poi miscelati nelle narrazioni ingigantite retoricamente di avvistamenti meno eccezionali? L’ emersione di archetipi ancestrali che arricchiscono i ricordi intrisi di paura di avvistamenti di esemplari comunque veramente cospicui per dimensioni? Ecc. ecc.

Domande d’obbligo!

Il legame serpente-latte, nasconde inconsci valori simbolici legati alla fertilità, dato il simbolo fallico indubbio a livello inconscio del serpe, come del corno del bue, o nasce dall’analogia tra corna dei grandi forti serpenti “caproni”, e corna dei grandi forti buoi, e dunque da qui segue immaginare che anche i serpenti si nutrano del medesimo alimento di base dei vitelli, il latte vaccino, e poi quindi anche del latte di donna? In ogni caso, si deve citare qui la segnalazione di persone che asseriscono di aver visto personalmente, con i loro occhi, nel secolo scorso nel Salento, la indelebile scena del serpente intento a suggere il latte da un biberon in una culla, e che teneva la sua coda come ciucciotto nella bocca del lattante cui apparteneva il biberon!
Si racconta persino che si mettevano delle sentinelle per vegliare sulle donne che allattavano e che si potevano addormentare nell’atto, o sui bambini con biberon, per controllare che non si avvicinasse il serpente avido di latte; probabilmente attratto con i suoi sensi , verso  la fonte del bianco liquido.

Che dei mostruosi serpenti cornuti nel Salento non si favelli solo dai secoli recenti, lo fa anche pensare la radice “cher-”, nel nome Chersydros, già usato in epoca greco-romana per la zoologia apulo-salentina,
e che potrebbe essere una radice indicante proprio l’attributo delle corna, o valori semantici comunque legati alle corna.

Non solo, il legame della cultura salentina, non solo popolare, ma anche dotta di ambiente clericale, con i serpenti cornuti, lo dimostra anche un’ opera medioevale salentina, un tondo nel mosaico pavimentale della basilica di Otranto, ubicato nella navata centrale, all’altezza del transetto, dove si mostra esattamente un grande serpente cornuto dalla livrea avana punteggiata di punti bianchi, rossi e neri, striato con sottili distanziate striature trasversali celesti adese grossomodo ciascuna ad un’ altra parallela altrettanto sottile striatura di color verde-marrone; è mostrato mentre è intento a divorare un coniglio o una lepre (o forse un capra, ma a giudicare dalle zampette si direbbe più un lagomorfo) già semifagocitata nella sua parte inferiore del corpo, avvolta tra le fila di lunghi bianchi denti acuminati del mostruoso essere, e che si dimena disperatamente senza scampo. Il serpente è mostrato nell’ iconografia circolare dell’ uroburo (letteralmente dal greco: il serpente che si “mangia la coda”, dove “urà” sta per “coda” e “boròs”, sta per “mordace”, aggettivo riferito al serpente; simbolo antico dell’eterna ciclicità, e che è effigiato in bassorilievo sul timpano del bellissimo frontone templare d’ingresso, neoclassico, del cimitero di Maglie), anche se nel caso otrantino la forma non è chiusa in quanto il serpente non si mangia o morde la propria coda, ma divora un altro animale.
Il serpente cornuto otrantino è visto di fianco, e si scorge un solo lungo corno bicromo, a fasce trasversali alterne, grigio-verdi e marroni, e due orecchie appuntite più basse, orecchie e non cornini nell’ intenzione dell’artista probabilmente, dato che han lo stesso colore del corpo del rettile, a differenza del più lungo corno. Difficile dire se trattasi di un serpente unicorno, o se nella rappresentazione di lato una delle corna non appare poiché coperta dalla antistante.

[In foto a destra in questo post si mostra proprio il tondo del serpente cornuto nel mosaico otrantino.]

La rappresentazione del Chersydros otrantino, del serpente cornuto risale dunque al secolo XII d. C. quando fu realizzato il grandissimo mosaico pavimentale nella chiesa.  Il famosissimo mosaico della Cattedrale di Santa Maria Annunziata di Otranto ricopre il pavimento delle tre navate ed è opera del monaco Pantaleone, eseguito su commissione del Vescovo di Otranto, fra il 1163 e il 1165.
Quel vastissimo mosaico è un’ immensa enciclopedia musiva per immagini della Natura del mondo all’ epoca conosciuto, e della storia umana e religiosa, come della cultura salentina, europea, mediterranea e greco-latina; un’ opera ricca di innumerevoli rappresentazioni di animali mitologici dei bestiari medioevali, tra cui in questa sede ricordiamo, gli aggressivi enormi serpenti, i basilischi, e draghi alati.

Nella navata di destra per chi entra nella chiesa, si può osserva sul pavimento la raffigurazione di un’ enorme aggressivo serpente color marrone dagli occhi diabolici con due piccole corna appuntite sul capo (o sorta di orecchie), e ai lati di questo una sorta di fiammelle, forse di crini, forse squame; sta fagocitando un’ intera viva capra selvatica barbuta con corna, che bela disperata, a partire dalla porzione posteriore; già quasi tutto l’arto inferiore sinistro del corpo della capra è scomparso nelle sue fameliche fauci spalancate, e intanto un leone insidia l’immenso serpente mordendogli a sua volta la coda!
Interessante qui ancora l’ associazione, sebbene qui alimentare e conflittuale, tra serpente e capra con la barbetta, la presenza del leone poi chiude un cerchio anche compositivo tra i tre animali molto interessante dal punto di vista mitologico e allegorico: la mitica Chimera (letteralmente in greco “capra”), l’animale mostruoso delle mitologia greca antica fusione di tre animali insieme, proprio il serpente, la capra e il leone, che invece nel mosaico medioevale otrantino appaiono separati e in un circolare verso antiorario nell’ordine, leone-serpente-capra.
Forse un’ allegoria archetipica, come la chmera, delle stagioni che si susseguono e insieme formano l’ anno; l’inverno-autunno rappresentato dal serpente, simbolo di morte da veleno, e quindi del cadere delle foglie, serpente che in inverno si rifugia in tane sotto terra, dove come quasi un fallo del dio solare che entra nell’utero della terra, la feconda, da qui ne segue la rinascita la primavera, la nuova vegetazione brucata dalle capre, e quindi l’estate, rappresentato dal solare leone dalla criniera fiammeggiante come il sole che brucia e fa maturare e seccare le messi, non a caso il periodo più caldo dell’estate è chiamato anche solleone; il tutto anche con correlazioni astrologiche zodiacali.
Della chimera le più note antiche rappresentazioni nella forma con testa e corpo di leone, una testa di capra sulla schiena e la coda di serpente, vengono proprio dalla Puglia e dalla Magna-Grecia (sud Italia):  la chimera raffigurata in un piatto apulo a figure rosse, ca. 350-340 a.C., conservato oggi a Parigi, nel Museo del Louvre, e la statua in bronzo della chimera ritrovata nella etrusca Arezzo e prodotta quasi certamente in un’ officina magno-greca nella seconda metà o fine V sec. a.C. circa, oggi conservata nel Museo archeologico nazionale di Firenze.
(Link per i due reperti citati: http://it.wikipedia.org/wiki/Chimera_%28mitologia%29 )

Nell’ abside della cattedrale di Otranto, sempre sull’immenso mosaico pavimentale, appare poi la rappresentazione di un grande squamoso drago con un solo paio di zampe, cornuto ed alato, dal corpo ampiamente serpentiforme, che avvolge nelle spire della sua lunga coda un daino, o comunque un cervo maculato, dal ramificato palco, che bela disperato.  Un Drago grossomodo con elementi morfologici, corna, ali, due sole zampe, coda serpentiformi propri del drago che compare frequentemente nel Salento in affreschi ed icone-bizantineggianti, su tele, vetrate in chiese, come in statue in pietra, cartapesta o legno, in relazione alla consueta iconografia agiografica di San Giorgio che combatte a cavallo e con lancia contro il Drago. Un santo greco molto venerato da sempre nel Salento, il cui nome stesso, Giorgio, pare legato etimologicamente alla coltivazione della terra, all’agricoltura, attraverso la sua etimologia greca, e quindi ad un arcaico Dio pagano, sempre della fertilità, ed in particolare della buona resa dell’agricoltura! La lotta tra San Giorgio ed il drago, richiama quella, sempre cristiana, dell’Arcangelo Michele armato di spada e che sconfigge il demonio in forma di Drago.

La Leggenda Aurea del santo narra che vicino alla città di Silene, in Libia, vi era un grande lago dove si nascondeva un drago, che quando si avvicinava alla città, uccideva col fiato tutti gli uomini che incontrava. I cittadini, per placare l’ira della bestia, gli offrivano ogni giorno due pecore, ma quando incominciarono a scarseggiare, una pecora e un giovane estratto a sorte. Fu così che toccò alla giovane principessa della città. Il re suo padre cercò di riscattarla, ma non riuscì a evitargli il sacrificio. Allora la giovane si diresse piangente al lago. Ma ecco che si trovava a passare il cavaliere Giorgio che saputa la triste vicenda la salvò sconfiggendo con la sua lancia il drago, tramortendolo e da lì addomesticandolo, tanto da poterlo condurre indocilito al guinzaglio.

Riecheggia profondamente il mito pre-cristiano dell’eroe semidivino Perseo che sul suo mitologico cavallo , Pegaso, salva la bella fanciulla Andromeda, principessa d’Etiopia, dal mostruoso “Ketos” draghiforme, cui era stata offerta viva in sacrificio. Il mito di Perseo era ben noto e diffuso nell’antica Apulia come mostra la raffigurazione di Andromeda e di Perseo che sconfigge con una spada il Ketos, su un importante vaso apulo a figure rosse; si tratta di un loutrophoros (contenitore rituale per l’acqua del bagno), una terracotta del 340-330 a.C. proveniente dalla Puglia e gelosamente custodito nella Villa Getty a Malibu, in California. http://tanogaboblog.it/portalino/wp-content/uploads/2012/05/Loutrophoros-Perseo-Andromeda-e-Ketos.jpg
Il Ketos era un mostruoso drago marino raffigurato in questa rappresentazione magno-greca apula con lunghe corna sul capo, dal corpo squamoso scaglioso a metà tra un enorme pesce ed un serpente.
Non di poca importanza è il possibile sostrato culturale locale apulo e greco in merito ai draghi e ai grandi serpenti cornuti dell’antichità, per la possibile genesi fantasiosa di questa rappresentazione del mitologico Ketos, come per altre rappresentazioni del medesimo drago in ambiente magno-greco.

[In foto, a destra, in questo post è proprio mostrato il cornuto serpentiforme mostro marino Ketos, estrapolato dal vaso apulo a figure rosse qui citato.]

Un sostrato culturale che pare emergere quando si entra ad esempio nella bella ed antica chiesetta di San Vito ad Ortelle, in provincia di Lecce, e ci si ritrova di fronte, sulla parete di sinistra, un grande dipinto murale del ‘700, di Santa Marina, con un enorme serpente di color grigio, veramente possente, dal corpo in spire strette e che discende da un alto albero dalla bella chioma. Dalla sua bocca semi aperta guizza fuori una lingua rossa. Un serpente gigante che la Santa tiene incatenato al guinzaglio con una cinghia. Il tutto ambientato in un gradevole paesaggio agreste. Nella leggenda agiografica della Santa Martire si racconta che quand’era prigioniera, le apparve un drago per sbranarla, che però scomparve appena ella si fece il segno della croce. O anche leggiamo la tradizione agiografica secondo cui, in carcere, a Margherita, appare il demonio sotto forma di un terribile drago, che la inghiotte, ma lei armata da una croce che teneva tra le mani, squarcia il ventre del mostro sconfiggendolo. Da questo fantastico episodio, nacque nella devozione popolare quella virtù riconosciuta a Margherita, di ottenere, per la sua intercessione, un parto facile alle donne che la invocano prima dell’inizio delle doglie. La sensazione che l’artista sconosciuto, probabilmente locale, dell’antico affresco sia stato influenzato da un lato dall’iconografia di San Giorgio che mette al guinzaglio il drago, e dall’altro proprio dalle leggende popolari salentine diffusissime in ambiente contadino e non, in merito all’avvistamento e ai racconti degli enormi serpenti, è fortissima! La stessa scelta in quella antica chiesetta rurale salentina di questa insolita iconografia, lascia immaginare l’ impronta e l’influsso di forti vividi racconti locali sui mostruosi serpenti salentini. L’iconografia di Santa Marina con il drago è molto diffusa nel Salento. Con un vero e proprio drago medioevale al guinzaglio, ad esempio, negli affreschi della Santa nelle cripte a lei dedicate a Parabita e a Miggiano. Schiacciato sotto i suoi piedi in una statua della Santa nel santuario della stessa a Ruggiano.

L’influsso sugli artisti salentini, della cultura popolare locale sui grandi serpenti cornuti e non, sembra in qualche moto anche presente, ad esempio, a Maglie nella stupenda serie di draghi in ferro battuto, ubicati sul fronte del palazzo del Municipio, realizzati, pare, da un mastro artigiano magliese nel ‘900. Draghi decorativi e apotropaici porta luce. Da ciascuno di essi, dalla bocca, pende sospesa ad un’asta, il cui anello in sommità essi stringono tra i denti, una sfera vitrea di luce gialla, il lampione. Il drago Custode della Luce. Son draghi con ali, zampe e lunghi colli squamosi, e la testa con la bocca semi aperta che lascia ben vedere i denti e i feroci aguzzi canini; hanno un cornetto sul muso, e ai lati del capo terrificanti corna spiraleggianti da ariete. Occhi diabolici.

Il termine di origine greca “drago”, usato per designare rettili, e soprattutto grandi serpenti in origine, deriverebbe secondo alcune interpretazioni etimologiche da una radice indicante vista, occhio, vedere, così come per l’ origine greca del termine ofidi, (dal greco “ophis”=serpente), sinonimo di serpenti, che deriva da radici etimologiche legate sempre a occhio, vista, vedere. Questo per la credenza popolare che attribuiva ai serpenti una vista eccezionale, come anche la possibilità di guardare al di là del tempo nel futuro, e pertanto di divinare.

Nel Salento il termine “drago” è ancora presente popolarmente nei diletti grecanici, se è vero, che da alcuni contadini del basso Salento il locale camaleonte mediterraneo (Chamaeleo chamaeleon) è talvolta chiamato: “dracuddhi”, ovvero piccolo drago; e non meraviglierebbe data anche l’etimologia che lega il nome alla vista, e la vista del camaleonte stupisce per la sua capacità di ruotare indipendentemente l’un dall’ altro i due bulbi oculari. Camaleonte che nel Salento è molto probabilmente identificabile anche con il mostruoso piccolo locale e letale essere semi-leggendario, (come il pastura-vacche), chiamato “fasciuliscu”, in grado di uccidere a distanza con gli occhi, con lo sguardo, e che altri non è che il più noto basilisco che compare anche nei bestiari medioevali e nelle più antiche fonti latine, animale fantastico ma identificabile proprio con il reale camaleonte. Il fantasioso basilisco è poi nello stemma civico del Comune salentino di Sternatia, come in alcune raffigurazione scultore in bassorilievo in alcune antiche chiese salentine. Così sculture naturalistiche del camaleonte appaiono invece nel barocco centro storico di Lecce in bassorilievi su portali.

Sconfiggere il drago, ucciderlo, o sottometterlo ed addomesticarlo, è un mito archetipico, che ritroviamo dunque nel paganesimo, come nella religiosità cristiana. E’ un simbolo di iniziazione, di crescita, di maturata consapevolezza, nel verso di quel motto che era inciso sul Tempio dell’ Oracolo pitico di Delfi: “conosci te stesso” (in greco antico: “gnôthi seautón”), attribuito al grande saggio dell’antichità greca, Talete. L’ intera frase era “Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’Universo e gli Dei”.

E il drago, diventa pertanto personificazione del proprio inconscio, delle passioni, dell’istinto, che vanno conosciute dal conscio, perché l’ iniziazione, la maturazione, sia completata è l’ eroe ascenda ad uno stato di luminosa divinità!
Valenze del drago, del rettile, sia per la valenza fallica sessuale del serpente, sia per, nei fatti, l’arcaicità filogenetica che il rettile rappresenta per l’uomo dal punto di vista evolutivo.

Tanti altri serpenti nel mosaico otrantino paion cornuti o provvisti di piccole orecchie (vedi ad esempio il nero serpente che si dirige verso l’ Arca di Noè prediluviana nella navata centrale), difficile distinguere con precisione se trattasi di corna, eccezion fatta per l’inequivocabile tondo che abbiamo definito del Chersydros otrantino.

Altri serpenti invece nel mosaico son privi di corna e protuberanze sul capo interpretabili come orecchie.   E’ il caso ad esempio del serpente dell’ Eden, che si avvolge spiraleggiando elicoidalmente attorno all’albero del Paradiso, albero della conoscenza, del bene e del male, e attorno al quale vi sono i progenitori biblici Adamo ed Eva, famosa scena biblica del libro della Genesi, raffigurata sempre nella navata centrale. Qui il serpente fa fuoriuscire sensualmente la sua bifida lingua dalla bocca aperta mentre si rivolge seduttivamente ad Eva; è di color grigio-verde con il corpo intervallato da sottili striature distanziate, ognuno formata da due o tre fascette parallele una bianca, una grigia e l’altra celeste. (Nota: i colori per le immagini qui descritte del mosaico sono da considerarsi approssimativamente e complessivamente, poiché frutto della fusione percettiva di tessere di più colori).

Ad Otranto il serpente che si avvolge attorno all’albero richiama lo stemma civico della città, che raffigura un serpente elicoidalmente spiraleggiato attorno ad una torre!
E’ l’antica torre di avvistamento costiera e antico faro, nota proprio come “Torre del Serpe”, per la leggenda otrantina che narra di un gigantesco serpente che usciva quasi la notte dalle acque del Canale d’Otranto, dove si incontrano il Mare Adriatico ed Mare Ionio, e risalita la scogliera, e raggiunta la torre, spiraleggiandovi attorno, portava in sommità la sua testa dove vi beveva vorace l’ olio della lampada che lì ardendo faceva da faro per i naviganti. Quella torre di pianta circolare di origine romana pare, poi restaurata-riadattata in epoca medioevale, fungeva pare anche da faro oltre che da torre di avvistamento. La costa rappresentava spesso un pericolo per chi solcava i mari, specialmente durante le tempeste come nel buio della notte, e specialmente poi nel non tranquillissimo Canale Idruntino. Alcune vedette sorvegliavano il sito e si assicuravano che la luce fosse sempre accesa. Durante la notte, mentre i soldati si concedevano un po’ di riposo e cadevano in un sonno profondo, il serpente saliva puntualmente dalla scogliera per bere tutto l’olio lampante della grande lanterna, privandola del prezioso liquido che la teneva accesa. Il fanale smetteva di emanare la sua luce vitale e il serpe sazio poteva ritornare al mare. Lo spegnimento del faro causò talvolta il naufragio delle imbarcazioni che si infrangevano sugli scogli, talaltra mascherando la terraferma di notte ai naviganti, protesse la città e la gente di Otranto da scorrerie piratesche, tanto che quel serpente mitizzato con la torre divenne il simbolo e quasi il nume tutelare della città, a seguito di queste leggende.
La torre sull’altura con la luce in sommità del faro, una costruzione pertanto dalle forti simboliche valenze del sacro magico bethilos apportatore di vita, benessere e fertilità (e anche dell’albero sacro elevato tra cielo e terra a congiungerle), cui partecipa anche in parte il simbolo del serpente! E avere nello stemma civico proprio un simbolo, o simboli di tale forza magica, è un atto  propiziatorio, (magari anche frutto di una scelta inconscia del potente simbolo), di magica fortuna e benessere per la comunità!

E’ questa idruntina, una interessante leggenda sui serpenti giganti nel Salento, che correla anche il mare a questa famiglia di mostri serpentiformi. Mentre nelle precedenti leggende citate il serpente al più è legato ai luoghi umidi d’acque dolci, e più in generale all’entroterra.
Questo Drago della costa Otrantina ci richiama alla mente un altro drago della tradizione antica che si credeva vivesse sull’isola di Fanò, l’ isola greca più prossima ad Otranto, ed ubicata nel Canale d’Otranto. Lì lo storico e letterato bizantino Esichio di Mileto (detto Illustrio, V-VI secolo), racconta che quando era ancora disabitata, dopo la guerra di Troia vi trovò rifugio Elefenore, re degli Abanti di Eubea che, dopo aver ucciso accidentalmente il nonno Abantee era stato costretto all’esilio, ma fu cacciato dall’isola per opera di un drago. Secondo alcuni studi sarebbe quella l’isola omerica Ogigia, mai identificata con certezza, in cui la ninfa Calipso tenne impedito dai venti contrari a prendere il lago, e come suo amante per sette anni, con un sortilegio, l’ eroe acheo Ulisse, secondo il racconto dell’ Odissea di Omero. E’ Fanò, che si staglia ieratica in mezzo all’ azzurro del cielo e del celeste del mare salentino, (e così anche Corfù), l’ isola di un Drago! E immaginifica terra di Draghi, il Salento!
E di un altro drago nell’area prossima al Salento, ci parla l’ autore greco Licofrone (III sec a.C.). Egli narra nella sua opera intitolata “Alessandra”, di come l’eroe acheo Diomede uccise il drago, e lo chiama propri con questo termine (“dràkonta”). che infestava il paese dei Feaci, ovvero l’ isola di Corcira (l’odierna Corfù), che come Fanò si possano vedere meravigliosamente dal Capo Japigio, il Capo di Leuca, quando il cielo è Terso, innalzarsi meravigliosamente dal mare. Diomede fondò Brindisi, secondo alcune antiche leggende, e conquistò la Daunia, la Puglia del Nord. Aveva partecipato alla guerra di Troia dove si era distinto tra i principali eroi achei. Con Ulisse compì l’ impresa di impossessarsi del Palladio di Troia. Era un simulacro che secondo le credenze dell’antichità era capace di difendere l’intera città. Il più famoso era custodito in Troia, e infatti la città fu distrutta quando Ulisse e Diomede riuscirono a rubarlo. Un altro talismano famoso, anch’esso chiamato Palladio, era custodito nell’antica Roma.
Diomede morì nell’Apulia settentrionale e fu seppellito su una delle isole Tremiti, gli si racconta che i suoi compagni piangenti furono mutati in uccelli delle tempeste, nelle berte che lì hanno da tempo immemore una delle colonie più grandi del Mediterraneo. In tal modo le berte, che da allora furono chiamate “diomedee”, nel loro canto lamentoso, ricordano ancora la disperazione mai sopita dei compagni di Diomede per la perdita dell’amico eroe. Le Diomedee della colonia delle Tremiti raggiungono spesso il Canale d’Otranto, una delle loro principali aree di alimentazione in mare. Le Berte maggiori, uccelli dell’avifauna marina pugliese, hanno pertanto anche come nome scientifico: Calonectris diomedea.
Il santuario sepolcrale di Diomedee nelle Tremiti, era famoso poi anche per degli enormi monumentali alberi della specie Platano orientale, che lo adornavano, e che in quanto sacri nessuno osava potare o tagliare da secoli ormai al tempo di Plinio il Vecchio che lì descrisse come vere e proprie attrazioni ambientali.
La città di Brindisi da Diomede fondata seconda una antica leggenda, deriverebbe il suo nome da “brendos”, vocabolo dei Messapi, che significherebbe “cervo” o “corna del cervo”. O per la presenza di cervi molto diffusi in passato in Puglia, o più specificatamente per la forma del suo porto conformato come le corna di un cervo. Una testa di cervo con palco di corna è nello stemma civico della città di Brindisi.

E sempre da Otranto, dalla cronaca storica, ci giungono segnalazioni di grandi serpenti. «Nel 1481, quando gli aragonesi contrassaltarono la Città di Otranto tenuta dai turchi, la sottoposero ad un serratissimo bombardamento, durante il quale, in seguito al crollo di un muro, riporta una relazione del periodo, emerse “un serpente di smisurata grandezza”» (dallo studioso magliese Vincenzo Scarpello). Un ritrovamento di grandi serpenti all’interno di antichi muri, che caratterizza anche le  narrazioni di alcune segnalazioni più recenti, come il caso di un lungo serpente, che si racconta di aver trovato all’interno di un muro a secco, quattro/cinque anni fa, nei pressi dei ruderi dell’ Abbazia di Centoporte in feudo di Giurdignano, nell’ immediato entroterra otrantino; fu ucciso, e si raccontò in paese che la sua testa era grande quanto quella di un cane, tanto era grosso.

Dalla storia di Puglia, ci giungono anche segnalazioni di invasioni di serpenti, anche proprio di grossi serpenti, ma non solo!
«Quando le famose Vore di Barbarano, la Grande e la Piccola, [nota del  redattore: due grandi voragini carsiche, inghiottitoi nel Capo di Leuca], per abbondanti piogge riversarono le loro acque nell’ampio bacino endoreico [n.d.r.: bacino idrografico i cui rivi non hanno sbocco al mare] esteso fino a Maglie, si racconta (documentato da fonti storiche) riportarono in superficie grandi serpenti che strisciavano minacciosi nelle campagne per lungo tempo. Da qui la presenza di draghi e serpenti nell’iconografia religiosa del Salento.» (Così scrive lo studioso magliese Nunzio Pacella).
Un dato molto interessante e suggestivo! Par che quell’evento scatenò grandi paure tra gli abitanti del tanto carsico quanto paludoso Salento, forse quasi come se si fossero riversate, per l’immaginario religioso del popolino, le potenze infernali attribuite dai salentini da sempre al mondo ctono, sulla superficie. In realtà, semplicemente, i grandi serpenti si ritrovarono con le loro secolari tane ipogee inondate, e per questo dovettero vagare in superficie in attesa dell’assorbimento di quell’alluvione. I cittadini, mi pare di capire, pregarono e addirittura realizzarono opere d’arte sacra volte a far sì che più non si verificasse un tale sconvolgimento (ambientale, sebbene un’ alluvione rientra nelle possibilità climatiche del Salento!) con l’aiuto di dio, santi e madonne, affinché quasi le porte dell’inferno restassero chiuse per sempre!
«Cicogna sacra [e la serpe]. Secondo un’antica credenza la cicogna fa il nido solo in Puglia e la sua caccia era severamente proibita – pena la morte – per i benefici che arrecava “con il tenere netto il paese dalle serpi”. (…) Palazzo Lanzilao. Il più completo esempio leccese di dimora tardocinquecentesca a tre livelli. Nell’ architrave del portale è scolpita due volte la cicogna che becca serpi», dal testo di Mario Cazzato “Guida della Lecce Fantastica” – Congedo Editore”. Le cicogne catturano e mangiano i serpenti, aiutate in questo dalle loro lunghe zampe e lungo becco. E speriamo e dobbiamo operare perché ritorni sempre più la Cicogna bianca e quella nera, a nidificare nel Salento, terra di loro ancora importante passo migratorio per fortuna!
Tutto questo legame della cicogna col serpente ci ricorda anche un’ altra tradizione  pugliese quella della dauna città di Cerignola, situata nella Valle dell’ Ofanto, che nel suo stemma civico riproduce una cicogna che spezza un serpente, in ricordo della leggenda che narra la salvezza della città ad opera delle cicogne durante un’invasione di serpenti.
Ceriniola (o Keriniola) fu un centro normanno di notevole importanza sorto sulle ceneri di un insediamento del 300 a.C. noto con il nome di Cerina (o Kerina).  Tra le ipotesi avanzate nel spiegare l’etimologia del nome della città, la teoria che prevede che il nome derivi probabilmente da Cerere, dea delle messi.

La simbologia del serpente spiraleggiato elicoidalmente attorno ad un supporto, come ad esempio la torre otrantina, è molte forte e diffusa nella cultura greco-latina; si pensi al simbolo ed oggetto chiamato Bastone di Asclepio, il dio medico, un antico simbolo greco associato alla medicina. Consiste in un serpente attorcigliato intorno ad una verga, che risale. Asclepio era il dio della salute nell’ antico pantheon greco. Il nome latinizzato del dio era Esculapio. Fu istruito nell’arte medica dal centauro Chirone, che fu anche mentore degli eroi semidivini Eracle ed Achille. Il bastone di Asclepio simboleggia le arti sanitarie, combinando la verga con il serpente, che con il cambiamento della pelle simboleggia la rinascita e la fertilità. Si riteneva quel simbolo oggetto dotato di poteri magici guaritivi. In ogni tempio dedicato ad Aslepio nel mondo greco e magno-greco, e al corrispettivo dio Esculapio nel mondo latino, si allevava e curava un sacro serpente.
Nell’ iconografia di Aslepio compare il bastone, il serpente, ed un cane. Colpisce come questa figura ricordi, quella di San Rocco e la sua iconografia, nel grande sincretismo religioso che connota il cristianesimo, rispetto agli, ora combattuti, ora assimilati e cristianizzati, religioni, pratiche e credenze, e persino luoghi e oggetti di culto pagani. L’iconografia di San Rocco, santo venerato per la sua agiografia contro le epidemie, e in generale per la cura dalle malattie, e che reca con se proprio un bastone ed un cane fedele, e la cui devozione è altissima in moltissimi paesi del Salento. Il serpente, demonizzato dal cristianesimo, forse non poteva facilmente restare, come invece il cane ed il bastone!
Diffuso è ad esempio presso i farmacisti salentini il simbolo del serpente, tanto legato alla medicina, che si avvolge e sale attorno al calice-graal verso il cui contenuto piega il capo.
La verga di legno, il bastone del comando, o strumento simbolo di una qualche autorità che rappresenta, e che ha in sé simbologia betiliche e di potere: il pastorale, il bastone del pastore conduttore di greggi, e per estensione di uomini, autorità sugli uomini o in qualche specifico campo, e strumento anche di offesa e difesa, di controllo saggio del potere, della forza! Simbolo del “capubastuni” il capo delle ndrine della ndrangheta nel meridione d’Italia, intrise di popolare cultura greca. Il termine “ndrina” viene dal greco “andros”, maschio, e vuol dire gruppo di uomini, e “ndragreta” deriverebbe dal greco “andros agathos”, “uomo virtuoso”, nel senso di “onorata società”, “unione di uomini d’onore”.   Si richiama il concetto greco del “kalòs kai agathòs” che significa, letteralmente, bello e buono, sintetizzante l’ideale ellenico di perfezione umana. Anche il termine meridionale “cosca”, sinonimo di “ndrina”, viene da quello dell’insieme delle foglie del finocchio adese tra loro e unite al torsolo, o dei vari germogli adesi tra loro della cicoria. Un allegoria dell’ unità d’azione e dei legami forti tra gli uomini di queste società nella società.
Verga che pertanto già di per sé si associa al serpente anche solo per la forma, e ricordiamo il biblico bastone di Mosé che gettato per terra prodigiosamente si trasformava in un vivo serpente!

Così ricordiamo il bastone sacro e scettro lineare intorno al quale si annodano due serpenti sinusoidalmente ed in maniera intrecciata e simmetrica tra loro per poi affrontarsi faccia a faccia nella parte alta del bastone, che ricordano la molecola del DNA vista di lato.
Era lo scettro del dio greco Hermes (Mercurio per i latini), e divenuto già in antichità scettro degli araldi, e simbolo del commercio, il cui dio tutelare era proprio Hermes; simbolo propiziatore dunque delle buone relazioni tra gli uomini. I due serpenti intrecciati tra loro rappresentavano l’accordo tra le due parti, tra due o più maschi in una transazione, in una vertenza politica o commerciale. Il serpente per la sua forma fallica è simbolo del maschile da sempre, e politica e commercio erano affar di maschi solitamente in epoca greco-romana. Infatti il mito così ne descrive l’ origine: un giorno Mercurio sul monte Citerone, avendo visto due serpi che si azzuffavano, gettò loro la verga, intorno a cui si attorcigliarono, rappacificati, i due serpenti. Così il caduceo, o verga alata, con i due rettili attorcigliati e in atto quasi di baciarsi, restò simbolo di pace.
Il termine latino latino caduceus, riprende il greco antico karykaion, aggettivo di karix o kerix, traducibile come araldo.
Famoso è il caduceo bronzeo del V secolo a.C. rinvenuto a Brindisi durante la costruzione del piazzale, adiacente la stazione cittadina. Testimoniava l’alleanza fra la messapica Brindisi e la colonia greca della città di Thurii, probabilmente per contrastare la colonia magno greca dorica di Taranto in terra apulo-lucana.
Una bella rappresentazione del caduceo si può vedere nel Salento anche scolpita in bassorilievo su un balcone nel centro storico della città di Soleto.

Simboli oltre che oggetti simbolici, che comparivano su monete e vasi antichi già in epoca antica e poi usati e giunti sino alla nostra contemporaneità quasi con immutato valore semantico.
I serpenti avevano nella cultura greca anche grande valore oracolare. Pensiamo al serpente chiamato  Pitone, una figura mitologia greca, un drago-serpente di dimensioni impressionanti, figlio di Gea, la Dea Madre della Terra, prodotto dal fango della terra dopo il Diluvio Universale (diluvio presente anche nei miti greci), e che custodiva il famosissimo Oracolo di Delfi in Grecia. La sacerdotessa-profetessa del santuario oracolare di Delfi anche per questo aveva il nome di “Pizia” (Pitonessa). Il Dio maschile Apollo si impossessò, secondo il mito, dell’antico oracolo legato dalle origini ai culti della Dea Madre, e uccise il serpente. Ciò nonostante in alcune rappresentazioni simboliche connesse al santuario pitico di Delfi, Apollo e il Pitone appaiono insieme e con il grande serpente vivo.

 

Si narra che la Pizia per vaticinare i suoi responsi ai supplici che la interrogavano, e che a tal fine si recavano nel I millennio a.C., e non solo dalla Grecia, ma da gran parte del Mediterraneo, anche dal Salento certamente, e dalla Magna Grecia,  all’ oracolo di Delfi, inalasse dei vapori che giungevano dal sottosuolo attraverso una cavità geologica che si apriva nel santuario. Una leggenda voleva essere quelle esalazioni geologiche, provenienti dal corpo in decomposizione del drago serpiforme Pitone che Apollo aveva gettato dopo averlo ucciso in una locale voragine. (Spesso con la putrefazione di grandi corpi nel sottosuolo i greci spiegavano nei miti, esalazioni ctone geologiche, come ad esempio i vapori sulfurei ancor oggi presenti nella zona di Santa Cesarea Terme nel Salento, che esalano da grotte costiere. Le fonti antiche greche spiegavano essere quelle le esalazioni dei corpi in putrefazioni dei giganti figli della Madre Terra, che Eracle aveva battuto e ferito mortalmente in Salento, dove vivevano, e che avevano trovato rifugio, nelle viscere della loro madre, per lì morirvi).
In realtà si crede che la Pizia per andare in trance divinatoria e vaticinare si drogasse con varie sostanze; droghe tra cui, e non soltanto, forse il papavero da oppio, il papavero della specie “Papaveru somniferum” che cresce spontaneo anche in Puglia, in Daunia come Salento, e nella Grecia. Si pensa a questa pianta perché statue micenee del millennio precedente (II millennio a.C.), della dea madre, la mostravano con papaveri da oppio sulla testa.  Che la droga fosse usata anche nella Puglia del I millennio a.C. lo rivela la rappresentazione scolpita e incisa dell’ inconfondibile pianta, (dalle capsule tondeggianti sormontate da un con cappellino circolare), sulle statue stele antropomorfe della Daunia. Nel Salento ancora  nei decenni passati il papavero da oppio era somministrato come calmante, persino ai bambini dalle madri, e prendeva in vernacolo il nome di “papagna”.  Nel Salento ancor più diffuso è poi il papavero comune (Papaver rhoeas), che ha foglie eduli che vengono raccolte e mangiate cotte, e a cui si da il nome nel Salento di “paparina”.
Il legame del serpente con la Dea Madre richiama alla mente la famosa statua della Dea dei serpenti cretese, tra i reperti archeologici del Palazzo di Cnosso, risalente alla civiltà minoica. Essa è una rappresentazione della figura femminile della Potnia (altro nome della grande dea), a seno scoperto, con le braccia protese e allargate, con le mani che impugnano ciascuna un serpente. Una civiltà che insieme a quella micenea  fu di fondamentale importanza per la genesi della civiltà e delle genti del Salento antico, sia come raccontano le fonti greche e latine più antiche, si per quanto mostra sempre più l’archeologia: si pensi che recentemente ad esempio il più rappresentativo simbolo della cultura minoica, e poi micenea, la “labrys” l’ ascia bipenne da cui prendeva il nome il mitico labirinto di Cnosso a Creta, è stata ritrovata incisa sulle pareti della Grotta della Poesia a roca Vecchia nel Salento, che fu un importante base degli achei micenei nel Salento nell’ età del bronzo. Non solo, su alcuni trulli della Valle d’Itria, ancora nel secolo scorso, tra i vari simboli ricalcati in calce bianca sul tetto conico dei trulli, compariva anche proprio l’ ascia bipenne; quasi ogni trullo aveva un suo simbolo associato.
Le genti Japige, di cui facevano parte i Messapi (ma anche i Peuceti, stanziati nel centro dell’ Apulia, e i Dauni stanziati nel Nord), vedono alle loro origini, l’arrivo di genti cretesi, micenee-greche, e illiriche, in Salento, dove trovarono e certamente in parte si fusero con le locali genti più indigene degli Ausoni, legati ai costruttori di dolmen, specchie e menhir, e dai quali addirittura prendeva il nome il Mare Ionio, che era detto originariamente, come ricordano sempre le antiche fonti, Mare Ausono. Vicende genealogiche con punti in comune con quelle dei vicini Enotri abitatori invece della Lucania.
La Dea Mater è la dea della Natura, signora delle belve, e può presentarsi in ogni creatura vivente, in molteplici epifanie.
Il legame della Madre, Gea, Gaia, la Potnia mediterranea, (e comunque rappresentata quasi da ogni divinità femminile), con il serpente è molto forte, e le sacerdotesse dell’antica Grecia, ma certamente anche in ambiente italico, erano spesso veneratrici di serpenti, che accudivano, e addomesticavano nei santuari.
Nei testi già in lingua greca del II millennio a. C. della cultura micenea nell’alfabeto chiamato “lineare B”, compaiono spesso associati i termini di “maka” e di “erpetoi”. “Maka”, corrisponde a “maga” abbreviazione di Madre della terra, Gea; “erpetoi” sono i serpenti, i rettili, e il termine è collegato etimologicamente al verbo greco “erpo”, ossia “strisciare”. E a Micene in dei luoghi di culto si son ritrovate, negli scavi archeologici, tanto statuette della Dea Madre, quanto statuette di serpenti attorcigliati.
Tra queste sacerdotesse adoratrici di serpenti, anche Olimpiade (375 a.C. – 316 a.C.) la madre del re macedone Alessandro Magno. Era una principessa epirota, dell’ Epiro, la Regione della Grecia del nord, i cui monti si possono vedere alti all’orizzonte orientale del Salento, al di là del Canale d’Otranto, nelle giornate in cui il cielo è più terso. Olimpiade era solita praticare riti orfici e dionisiaci tipici delle popolazioni degli Edoni e dei Traci, e pare fosse poligama. Nelle processioni portava grandi serpenti addomesticati. Fu moglie di Filippo II di Macedonia. Al suo primogenito Alessandro, fu molto legata. Secondo alcune leggende, esposte sinteticamente da Plutarco, Olimpiade non lo avrebbe generato da Filippo ma bensì dal sommo Dio Zeus, che aveva copulato con lei assumendo in forma di divino serpente, una versione che propagandava lo stesso Alessandro.
Il serpente è un forte simbolo di fertilità, e associato alla dea ne completava il simbolismo sacro, apportandovi l’elemento maschile-fallico che rappresenta, il fallo del Dio, del maschile dio del cielo-sole, che feconda la terra-femminile, con i suoi raggi, saette e pioggia-umida saliva-sangue-sperma, (come col serpente che scende e si rifugia in tane e cavità della terra, o in tane di altri animali che caccia), così che la terra può vedere germogliare i semi affidati alle sue pieghe, alla sue cavità-utero; e tutto questo incontro della terra e del cielo, simbolizzato e propiziato anche dal bethilos-menhir, come dal vivo sacro albero, e che era archetipo, era ritenuto, più o meno consapevolmente, fondamentale per il prosieguo della vita di tutte le creature, doveva essere propiziato magicamente con ogni ritualità e cerimonia, per il benessere degli uomini, la loro fertilità, per il benessere della società, per allontanare di conseguenza apotropaicamente il male e la sventura, e anche per i defunti affidati alla terra perché rinascessero a nuova vita, come le piante dal seme, e nel risveglio primaverile.
Il fortissimo legame del serpente con la Dea madre, il cui incontro, che è l’incontro di maschile e femminile, della coppia dicotomica, la sacra coppia dei due principi complementari, la cui unione sessuale e magica è essenziale per la genesi o creazione di ogni cosa, e ogni volta per la continuazione rigenerativa della vita, è alla base del bellissimo e suggestivo mito pelasgico della creazione. La leggenda di Eurinome e della Danza del Vento. Eurinome è una delle più antiche divinità adorata dai popoli nativi della Grecia, i pelasgi, già prima delle invasioni elleniche del II millennio a.C. Della presenza di genti pelasgiche in Salento vi è un’ eco anche nel nome di un bastione di fortificazione ad Otranto, chiamato, evocativamente, il Bastione dei Pelasgi. Il nome Pelasgi è stato utilizzato da alcuni antichi scrittori greci in riferimento a popolazioni proto-elleniche che hanno preceduto le popolazioni elleniche in Grecia e a Creta, un termine indicante delle antiche, primitive e presumibilmente autoctone popolazioni nel mondo miceneo.
Il nome di Eurinome, epiteto della Dea Mater, significa “Colei che vaga in ampi spazi” o “Colei che abita le altezze”, Quello che qui riportiamo è il mito cosmogonico, come ci è stato tramandato, della sua danza alla creazione del mondo.
“All’inizio Eurinome, Dea di tutte le cose, emerse nuda dal Caos (per i greci il caos primordiale era sinonimo di “abisso” dove sono “tenebrosità, oscurità”). Ella aveva tantissima voglia di danzare, ma nessuna superficie dove posare i piedi. Allora per prima cosa divise il cielo dal mare e, sola, intrecciò una danza sulle onde. Da quel suo volteggiare venne a crearsi un vortice attorno al suo bel corpo, ed era questo il Vento di Borea. Eurinome lo afferrò, lo avvolse torcendolo come una corda e così facendo lo trasformò nel serpente primordiale di nome Ofione. Il serpente fu tanto preso dal desiderio di fronte alla danza della dea che si unì a lei. E così, come in seguito è raccontato nella mitologia greca, del fecondo vento del nord che ingravida le giumente passando loro accanto, Eurinome rimase incinta. Allora la dea si trasformò in divina colomba e a tempo debito depose l’Uovo universale. Per suo ordine Ofione vi si avvolse intorno sette volte, e lo tenne stretto fino a che si schiuse e ne uscirono tutte le meraviglie del creato: Le galassie e le stelle, i pianeti e la Terra con i suoi monti, le piante e gli animali.
Eurinome e Ofione si stabilirono sul monte Olimpo, ma il serpente si vantò di essere il solo artefice della creazione ed Eurinome si arrabbiò: gli sferrò un forte calcio alla bocca facendogli cadere tutti i denti e lo relegò nelle caverne sotterranee.
La dea poi creò le sette potenze planetarie e mise a capo di ciascuna di esse un Titano e una Titanessa: Tia e Iperione al Sole: Febe e Atlante alla Luna; Dione e Crio al pianeta Marte; Meti e Ceo al pianeta Mercurio; Temi e Eurimedonte al pianeta Giove; Teti e Oceano a Venere: Rea e Crono al pianeta Saturno.  In seguito però Eurinome e Ofione furono spodestati e precipitati nell’oceano, e a loro subentrarono Rea e crono come sovrani dei Titani.
I denti del serpente Ofione, toccata terra, si trasformarono in esseri umani.  Il primo uomo fu Pelasgo, capostipite dei Pelasgi; egli emerse dal suolo d’Arcadia, subito seguito da altri uomini ai quali Pelasgo insegnò come fabbricare capanne e come nutrirsi di ghiande e cucire tuniche di pelle di porco, simili a quelle indossate dalla gente del contado nell’Eubea e nella Focide.”
La danza di Eurinome sulla cresta delle onde, una volta separati cielo e mare, e il vento vorticoso da cui formò il serpente è, in effetti, lo stesso mito narrato nel biblico libro della “Genesi” (Gen1, 1-7), in cui lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, ed Egli separò le acque dalle acque.
In seguito si trova anche un parallelismo con la figura di Eva, la stirpe della donna e la Vergine; emblematica la frase di Genesi, contro il serpente tentatore causa della cacciata dal Paradiso e della rottura dello stato di convivenza in beatitudine con tutte le creature, nessuna delle quali in quel giardino dell’ Eden, fino ad allora, era ostile all’ uomo, da lì in poi non fu più così. E nel lavoro per sopravvivere, la competizione e tensione tra uomo e altre creature, come i velenosi serpenti. La frase è questa riferita al serpente “lei ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.
E il vento fecondo nel mito pelasgico, ricorda il biblico Ruach Elohim, il Respiro di Dio all’origine del mondo, l’alba e il vagito al principio della Vita.
Così anche nella iconografia mariana, della Madonna cristiana che schiaccia la testa del serpente, presentato dalla religione cristiana quest’ultimo, come mera incarnazione del male, in verità rivive anche quell’accostamento tra Dea Madre, incarnata dalla dea cristiana femminile, e il Serpente. Un’ iconografia diffusissima nel Salento in statue e dipinti, anche in chiesette ed edicole votive campestri, e non solo in ambiente urbano.
Nei campi oltre agli aspetti più religiosi e magici, si aggiungeva la necessità di propiziare il non incontro con il serpente, in particolare con le specie di ofidi velenosi,  per paura d’essere morsi, e di restar vittima dei loro veleni. Così come poi si aveva bisogno di medici per tentar di guarirne gli sventurati in caso di morsi.
A tal proposito notevole importanza assumeva la figura del “serparo” che ritroviamo attestata con continuità dall’epoca romana, come ci trasmettono le fonti latine, sino almeno all’ottocento, e in alcune zone italiche ancor oggi.
Principali centri di diffusione e irradiazione di serpari sono stati l’Abruzzo e la Puglia, con zona di massima frequenza il Salento, e non meraviglia tutto questo sulla base di tutto quanto si sta qui raccogliendo in merito ai serpenti in terra salentina. Inoltre non è possibile trascurare l’importanza millenaria della transumanza delle greggi, tra Apulia, Lucania, Molise a Abruzzo, nella costituzione, pur nelle differenze tra popolazioni locali, di un comune koiné culturale tra Puglia e area Appenninica.
I serpari erano incantatori di serpenti e guaritori dai loro morsi. Erano anche chiamati nei dialetti italici del centro e sud Italia, oltre che serpari, anche cirauli, ceravoli, ciaralli, ciarmari, ciarmatori e ceraldi. Si connotavano per l’attitudine che possedevano di trattare serpenti pericolosi senza riportare nocumento alcuno e per la facoltà che avevano, per natura, di guarire i morsicati da animali velenosi.
Questi “serpari” di cui sia ha menzione almeno dal XVI sec. d.C., in realtà ricalcano esattamente le caratteristiche che si attribuivano nelle fonti antiche greco-latine alle stirpi dei Psilli, degli Ofiogeni, e a quella stirpe, questa italica, dei Marsi, stanziati nel centro-Italia, tanto che il termine marsi e psilli, quasi svincolandosi poi da quello etnico delle specializzate genti di origine, divenne quasi un semplice sinonimo di “serpari” presso i romani.
Approfondiamo quindi i caratteri comuni e molto antichi dei “serpari” italici, quelle peculiarità comuni che accumunavano i serpari d’epoca antica, con quelli medioevali e moderni, loro continuatori nella cristianità, alla quale nuova religione si adattarono assimilandone alcuni simboli.
I serpari vantavano ascendenze divine, con poteri carismatici trasmessi ereditariamente per linea famigliare, o addirittura etnica (proprietà etnico-cliniche). Tendevano a formare veri e propri clan chiusi in cui si tramandavano conoscenze esoteriche alla base della loro arte, che gli veniva riconosciuta e apprezzata dalla gente, anche di altre etnie o comunità italiche. Solitamente erano uomini, ma non sempre.
Godevano, si credeva e spesso ne erano convinti essi stessi, dell’immunità ai veleni e del potere guaritore, per trasmissione ereditaria. Talvolta invece questi poteri erano acquisiti per particolari coincidenze astrali alla nascita, tal altra per iniziazione da parte di altri serpari o clan di serpari.
Non è escluso che taluni acquisissero l’ immunità al veleno, immunizzandosi assumendolo a partire da piccolissime dosi, via via crescenti, secondo i principi biologici del mitridatismo. Il termine deriva da Mitridate VI il Grande (132 a.C. – 63 a.C.), re del Ponto, il quale, temendo una cospirazione, chiese al medico di corte, Crautea, di preparargli degli antidoti. Crautea cominciò a somministrare a piccole dosi un miscuglio di una cinquantina di veleni, il che rese Mitridate immune a qualsiasi veleno allora conosciuto: quando, sconfitto dal generale romano Pompeo Magno, decise di togliersi la vita, fu costretto a chiedere di essere pugnalato.
I serpari erano una sorta di stregoni-sciamani, maghi, medici e scienziati naturalisti al contempo.
Guarivano i morsicati spesso con la loro saliva, potente sia come farmaco magico sulla ferita, sia per far fuggire o uccidere gli animali velenosi, serpi in primis. Quest’uso della saliva compare già nei serpari italici più antichi e lo troviamo fino ai salentini sanpaulari di cui diremo.
Nel Salento, ancor nel secolo scorso, vigeva la tradizione di sputare nel fuoco, quando il legno schioppettante nelle fiamme sibilava come un serpente per la fuoriuscita di alcuni gas evaporanti compressi nel legno per le alte temperature, e si considerava tale naturale fenomeno dovuto al diavolo infernale, spesso immaginato come caprone, o come serpente appunto, principe delle fiamme dell’inferno.
Allo sputo talvolta davvero il fenomeno scompariva, ma questo o perché naturalmente venivano espulsi tutti quei gas causa del particolare suono, o perché forse la saliva riabbassava un po’ la temperatura.
Lo sputo dei guaritori o guaritrici poteva conferire il suo potere anche all’acqua di un intero pozzo in cui si fosse sputato, per una sorta di magia del contatto! Questa magia pare avesse assunto anche l’acqua del miracoloso pozzo di San Paolo in Galatina, dove accorrevano, per guarire con pratiche iatromusicali, i tarantolati dell’ intero territorio salentino, e che bevevano l’acqua di quel pozzo, in cui si dice nuotassero serpenti velenosi, (forse vive anguille che nel Salento si era soliti mettere nei pozzi e cisterne, perché si credeva purificassero le acque mangiandone gli insetti – ma forse in quel gesto si perpetrava un inconscio rito a favore delle fertilità della terra, che oggi possiamo meglio decodificare sulla base dei valori simbolici del serpente, come quindi delle serpentiformi anguille, che anche vivevano negli ambienti palustri salentini. Lo stesso nome anguilla viene dal latino “anguis” che vuol dire serpente).
I serpari guarivano anche con pratiche pranoterapeutiche, apponendo le loro mani, o addirittura l’ intero loro corpo nudo su quello della vittima dei morsicati. Applicavano topicamente e davano da ingerire erbe e altri farmaci che solo loro si tramandavano, negli ingredienti e preparazioni. E praticavano interventi clinico-chirurgici più classici, come l’aspirazione con la bocca e sputo del sangue dalla ferita intriso di veleno; ferita che si allargava con un coltello per far fluire più copiosamente via sangue e veleno.
Usavano poi speciali formule rituali, parole, cantilene magiche, musiche per guarire, come anche per far fuggir via o per incantare e ipnotizzare i serpenti, che prendevano con grande perizia e maneggiavano senza alcun timore, in modi tali da mantenerli in uno stato ipnotico e rilassato. Li trattavano senz’offesa se volevano, talvolta li allevavano e portavano con sé in recipienti. Non avevano la minima paura dei serpenti, e se li mettevano intorno al collo e sulle braccia anche per dare prova delle loro capacità alla gente, intimorita atavicamente dai serpenti, impressionandola in tal modo ed incuriosendola, e magari facendo anche scemare in esse la paura!
Operavano nelle comunità come medici-stregoni, o si spostavano di contrada in contrada con i loro rettili che raccoglievano anche durante gli spostamenti, e venivano pagati in denaro o in natura per i servizi, gli amuleti, i farmaci più o meno validi o menzogneri che vendevano, e per gli spettacoli quasi circensi, o rituali che praticavano con i loro serpenti ed altri animali, esibendo la loro immunità ai morsi, ed il loro coraggio.
(Una figura in parte nel novecento assunta dai curatori dei rettilari ambulanti, che giravano per i paesi con carrozzoni con diversi rettili ed altre meraviglie della natura che mostravano ai paganti, e che tanto positivamente incuriosivano le persone).
I serpari si vantavano di portare sotto la lingua una sorta di ragno per innato contrassegno del loro carisma, o mostravano il segno del serpente tatuato su una spalla o in altra parte del corpo e che dicevano innato. Era invece di solito tatuato praticandovi fori con un ago sulla pelle per colorarne il disegno, e spalmandovi e frizionandovi sopra generalmente polvere di carbone o altra sostanza, che così penetrava sottopelle per fissare il disegno micro-punteggiato del serpentiforme tatuaggio.
Nelle antiche stirpi di serpari, si narrava che se alla vista del nascituro i serpenti non fuggivano via atterriti, questo significava che il bambino non era figlio del padre serparo, e veniva così scoperta l’ infedeltà della moglie, e si agiva di conseguenza! Un modo interno al clan, approssimato, per risolvere l’antico dilemma, oggi risolto dalla scienza genetica, sintetizzato dal detto “mater certa, pater semper incertus”.
A volte i serpari indossavano indumenti fatti o rivestirti con pelli di serpenti, anche di serpenti di grandi dimensioni che avevano ucciso, o di altri rettili, incarnando così l’archetipo dell’eroe vincitore del drago, presente tanto in antichità (vedi il mitologico di Perseo, o di Diomede), quanto nella cristianità, (vedi il leggendario San Giorgio). Così Eracle oltre che dalla sua lignea clava, era connotato dalla pelle dell’invincibile leone che aveva invece ucciso e scuoiato, e che si poneva addosso sulla spalla e sulla sua testa, come indumento e ostentazione al contempo delle sue eroiche imprese.
Nelle loro mitologiche propagandate divine discendenze, i “serpari” di epoca pagana, talvolta dicevano di discendere proprio da serpenti, dai rettili, (il che non è certamente una menzogna, priva di fondamento scientifico, dal punto di vista filogenetico ed evolutivo dei mammiferi, di cui l’ uomo fa parte. I mammiferi discendono dai rettili!). Il nome della stirpe degli “ofiogeni” vuol dire proprio “nati dai serpenti”.
Gli animali che portavano con sé, dai “serpari” venivano catturati, e con varie pratiche, quando davvero velenosi, li rendevano non più offensivi. Ad esempio nei serpenti velenosi spremendo o facendo espellere all’animale molto veleno, o tappando i dotti veleniferi dei denti preposti ad iniettar nel morso il veleno, e mutando la loro alimentazione, ecc.
Vi furono serpari molto stimati, anche in epoca moderna da dotti e studiosi, altri invece che si distinsero per le eccessive bugie e trucchi con cui vendevano i loro rimedi ai morsi.
Talvolta i serpari più degradati a livello di impostori mendicanti girovaghi, in concorrenza tra di loro, duellavano in pubblico su chi fosse più in grado di resistere al veleno di determinati serpenti, (magari non trattati ad hoc preventivamente), e si registrarono morti e condanne.
Oggi quasi estinti, e sostituiti da biologi e medici … ma nei giovani erpetofili salentini, è possibile ritrovare, insieme alla loro carica ecologista protezionista e alla loro curiosità naturalistica scientifica, ancora quella confidenza, assenza di paura, quell’ istinto che connotava così fortemente gli antichi serpari italici!
Osserviamo come proprio presso gli antichi Marsi, popolo italico stanziato grossomodo all’altezza dell’Abruzzo, grossomodo nella regione detta appunto Marsica, si registrava la venerazione della dea Angizia. La dea Angizia, (in latino Angitia o Angita, da “anguis”, serpente; anche chiamata Anaceta), era venerata in vaste zone dell’Italia Centro Meridionale, associata al culto dei serpenti, e ad essa si portavano in regalo proprio dei serpenti in primavera. Era una dea della guarigione, come rivela il simbolo del serpente collegato con le arti curative; era considerata una maga divina, cui si attribuiva la conoscenza dell’uso delle erbe curative, specie quelle contro i morsi di serpente. Le venivano attribuiti altri poteri, come quelli di uccidere i serpenti col solo tocco. Era ritenuta la sorella della maga Circe, che ritroviamo nel mito di Odisseo. Le era dedicato un “Lucus”, un bosco sacro, il “Lucus Angitiae”. E ancora oggi dove vi erano i templi di questa dea si registrano processioni cristiane che vedono la presenza dei caratteristici zampognari. Angizia era invocata anche con l’attributo di Keria, voce che richiama il sumero kur (terra), accadico kerû (terra coltivata, orto) e il latino Cerere il cui culto in Roma era abbinato a quello della Terra.
Nell’Eneide di Virgilio è presente la figura di Umbrone, giovane serparo, (ovvero un sacerdote medico incantatore di serpenti), dei Marsi, l’antica popolazione dell’Abruzzo: alleato di Turno nella guerra contro Enea, (l’eroe troiano di cui l’Eneide racconta il primo approdo in terra italica nel Salento, al tempio di Atena sulla costa del Canale d’Otranto), Umbrone sarà ucciso dal capo troiano in persona.
Non meraviglia che proprio in quell’area, in Abruzzo, nella città di Cocullo, sopravviva un’ affascinantissima tradizione in occasione della festa del santo patrono cristiano, San Domenico da Foligno di cui si conservano nella sua chiesa cittadina delle reliquie del corpo, a lui attribuite dalla devozione popolare, e che avrebbe liberato, secondo la leggenda, la popolazione locale dai serpenti velenosi, divenendo eroe mitico per pastori e montanari, sostituendo così il suo culto a quello della dea pagana Angizia. In occasione della processione nella Festa di San Domenico, nei primi di maggio, si svolge la “festa dei serpari”. Gli esperti serpari del paese già diversi giorni prima del giorno della processione, appena cominciano a sciogliersi le nevi, vanno alla ricerca e catturano dei serpenti (tutti rigorosamente non velenosi). Queste conservano le stesse tecniche dei serpari antichi, anche se allora i rettili venivano posti in recipienti di terracotta, ora in cassette di legno. Le specie prelevate sono cervoni, saettoni, bisce dal collare, e biacchi. Il giorno della festa a mezzogiorno inizia la processione della statua del Santo patrono, che posata sul sacrato all’uscita della sua chiesa, viene invasa dalle serpi catturate nei giorni prima che vengono poste dai serpari con attenzione sulla statua, intorno alla quale si attorcigliano e aggrappano. La processione allora parte dalla chiesa di San Domenico e prosegue per le stradine del centro storico. Al termine della festa, i rettili vengono riportati al loro habitat naturale dai serpari, e a tal fine ogni serpente viene segnato anticipatamente dipingendovi dei segni sulla squamosa pelle, per tornare al rispettivo serparo che a seconda dell’ esemplare sa dove lo ha trovato, e dove deve riportarlo, anche perché si tratta di un animale sacralizzato dal contatto con la statua da non uccidere o ferire, ma anche per poterlo poi ritrovare facilmente nell’anno a venire, lui o/e la sua prole; anche perché i serpenti son spesso animali territoriali. (Nota: lo stemma civico di Cocullo, è una colonna classica rastremata e scanalata, con sommità spezzata, e attorno due serpenti ci si intrecciano a doppia elica come nel caduceo. I valori del bastone caduceo, e della colonna  bethilos monolitico, si fondono e confondono come già osservato).
Se questi serpari abruzzesi eran detti “sandomenicari”, i serpari salentini erano chiamati invece “sanpaulari”.
Tra i santi più venerati contro i veleni dei serpenti e per estensione di ragni e scorpioni, nel Salento cristiano si affermo la figura di San Paolo. Questo poiché, negli “Atti degli Apostoli”, si narra di come Paolo sopravvisse senza alcun fastidio al morso di una vipera, sull’isola di Malta, dopo un naufragio sulla stessa, mentre era diretto con soldati romani su una nave verso Roma. Intento a raccogliere dei legni per alimentare un fuoco acceso dai locali per scaldare i naufraghi, fu morso al polso, ma scrollò il serpente con il braccio gettando nel fuoco la serpe, e i locali osservarono come miracolosamente non ne riportò assolutamente il ben che minimo fastidio, credendolo pertanto un dio. (Nota: la Chiesa di Malta ha per simbolo uno scudo con una vipera attorcigliata alla spada di San Paolo e un ramo di palma, la spada del santo come il bastone di Esculapio, partecipa dei medesimi archetipi).
Per questo si ritiene San Paolo il santo capace di operare miracolose guarigioni dai morsi di animali velenosi, serpi, ragni e scorpioni, spesso anche nel Salento effigiati negli affreschi del Santo. Tra i ragni la mitologica semi-leggendaria ma anche ben reale “Taranta” salentina, legata al fenomeno del Tarantismo, che ha contaminato l’intera cultura meridionale, fino alle stesse “tarantelle” napoletana. Anche gli scorpioni sono presenti nella fauna autoctona salentina.
Si credeva che le zone sottoposte al patronato di San Paolo ricevessero l’immunità da tutti gli animali velenosi, che sparivano da quei territori o se presenti comunque non offendevano più le persone; gli abitanti di quei luoghi sacri potevano acquisirne l’immunità, che potevano conservare anche se si spostavano in altre terre. Una di queste aree sacrali era ritenuta per l’appunto l’Isola di Malta, mentre la più importante e nota nel sud Italia fu invece quella di Galatina, con il suo feudo ubicato nel basso Salento. La città di Galatina ha due santi protettori, i santi Pietro e Paolo.  Forte era il culto dell’apostolo Pietro, tanto che nel greco locale era chiamata “AsPetru” (San Pietro), per una tradizione agiografica popolare che lo voleva essersi fermato lì a predicare, mentre risaliva a piedi il Salento, dopo esservi sbarcato, in direzione di Roma, dove avrebbe fondato la Chiesa romana. Nel feudo Galatinese si fermò nella contrada rurale poi chiamata “San Vito”, in corrispondenza di un bethilos monolitico pagano, che usò come sedile, e che traslato dalla campagna è oggi venerato nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo nel centro del paese.
Ma il secondo santo protettore della Città è appunto San Paolo.
La città anche per questo è divenuta negli ultimi secoli, il centro fulcro per la cura di tarantate e tarantati, i morsicati dal terribile ragno chiamato localmente Taranta, cui si collega appunto il fenomeno mitico-culturale del Tarantismo. Altri santi, anche venerati nel Salento, curatori dai morsi di animali velenosi, e che davano immunità ai territori sacri loro consacrati, erano San Vito e San Foca Martire.
Pertanto, soprattutto da questi territori salentini, ma non solo, irradiarono i cosiddetti “sanpaulari”, che altri non erano che “serpari” incantatori di serpenti, e guaritore dai loro morsi, che aggiungevano alla loro immunità e capacità curative nei confronti del veleno dei serpenti, anche capacità simili nei confronti del veleno, o presunta nocività del morso, o contatto, di altri rettili, come del morso dei ragni causa del latrodectismo, della puntura degli scorpioni, ecc.
Persone considerate, e che si dicevano, capaci di guarire i morsi degli animali velenosi, provenienti dalla cosiddetta “casa di San Paolo”, discendenti da stirpi, da famiglie che avevano ricevuto direttamente da San Paolo, asserivano, la “grazia” per operare queste guarigioni, soprattutto con l’uso della cosiddetta “Terra di Malta”, la terra prelevata dall’Isola di Malta, dicevano, ed in particolare dalla grotta maltese in cui il Santo visse per alcuni mesi durante la sua predicazione a Malta. Spesso la terra che vendevano come magico farmaco, era raccolta da luoghi qualsiasi e ben più vicini.
Questo loro presunto carisma, pare poteva essere assunto, oltre che per eredità famigliare, anche per esser nati in giorni particolari legati al culto del Santo Paolo.
Ma alla terra di Malta essi aggiungevano usi, pratiche e costumi più solitamente propri dei serpari del centro e sud Italia in generale.

In passato esistevano varie famiglie, che pertanto godevano di un certo prestigio sociale, che si tramandavano per via ereditaria la facoltà di guarire certe malattie, proprietà medico-magiche taumaturgiche. Talvolta tali presunti poteri erano trasmessi di madre in figlia, talvolta ai figli in generale, o a certi figli a seconda dell’ordine di nascita, ad esempio al primogenito o a precisi successivo-geniti, a seconda delle tradizioni. Le donne talvolta perdevano queste facoltà con la perdita della verginità. Talvolta le doti magico-curative di questo tipo erano assunte a seconda del giorno della nascita. Sebbene ereditarie, queste presunti doti carismatiche, ad esse si accompagnava l’eredita culturale di ritualità e talvolta pratiche mediche ed altre conoscenze erboristiche o di altra natura per guarire, e/o ingannare, trasmessi di padri e madri in figli. Ma a volte lo stesso inganno ben poteva, per il ben noto effetto placebo, sortire benefici effetti di autoguarigione!
Nel Salento, quindi, la figura del “sanpaularu” in realtà si confonde, ed assimila, alla figura più antica del “serparo”, attestata già da epoca romana. I “sanpaulari” potevano operare in zona in maniera sedentaria; o da nomadi si spostavano per prestare i loro servizi in altre comunità dell’Italia centrale e meridionale. Nonché intrattenere le comunità contadine con l’esibizione delle loro doti da erpetofili, maneggiatori di animali velenosi che portavano vivi con sé, o presentati come velenosi al pubblico inesperto. Erano trasportati in recipienti di terracotta, o legno, o vimini, o zucche secche, o anche in sacchi.
E’ possibile che questi serpari sanpaulari fossero anche artefici, o continuatori delle pratiche iatromusicali con cui si curavano, con precisi rituali, coinvolgenti suoni, vari strumenti musicali tradizionali, danze, colori, spade, altalene, corde pendenti, acque curative di pozzi, bacinelle d’acqua, nastri colorati, figurine di santi  cristiani e altri simboli del cristianesimo, ecc. ecc., i tarantolati.
Ai serpenti semileggendari nelle leggende popolari pagano-cristiane del Salento, si collega anche la figura della Madonna. Lo mostra ad esempio quanto si narra nel paese di Andrano, in merito alla “Sacara” e alla miracolosa “Madonna dell’ Attarico”, così chiamata e lì venerata in un’ omonima grotta dove si mostra un antico affresco oggi molto consunto, che immortala la madonna con il bambino nel suggestivo atto, pare anche, di allattarlo al suo seno. Un luogo e un’ icona oggetto di grande devozione popolare. Un immagine verso cui pregano le donne, per invocare la Madonna, e chiedere di avere abbondanza del loro nutriente latte per i loro bambini. Tanto forte il richiamo al latte e all’ allattamento che l’ originario toponimo, che si ritiene di diversa origine etimologica e legato all’arte della concia lì praticata, (dal dialettale “taricu”, dal greco “tarikòn”, conceria), è stato deformato in “Attaricu” e addirittura “Lattaricu”. Si racconta, che un’umile popolana, che dimorava in un casolare della medesima e omonima contrada, (secondo alcuni nel secolo XVI d.C.), non riuscendo a sfamare col latte del suo seno, il figlio cui aveva dato la luce, nonostante il latte non le mancasse, disperata per la crescita stentata del figlioletto, pregò la Madonna affinché accorresse in miracoloso soccorso. Maria le comparve allora in sogno, e le rivelò il problema e la sua soluzione. Era tutta colpa di una serpe che si annidava tra le pietre del casolare, e che sottraeva dal seno della donna il latte, proprio mentre questa dormiva. Serpe che doveva essere trovata ed uccisa. Fu così che la donna, all’indomani, si mise a cercare la serpe, che effettivamente trovò, e la uccise schiacciandone la testa. Il figlio poté finalmente nutrirsi e, in breve tempo, fu fuori pericolo.
Nei miti antichi greci, per quanto già detto, gli uomini deriverebbero dunque dal serpente-drago primordiale. Non è allora un caso che antichi re leggendari fossero per metà uomini e per metà serpenti. E’ il caso di Cecrope (in greco antico Kèkrops), che fu per il mito, il primo leggendario re della città di Atene, (che tanti legami commerciali, politici e culturali-religiosi ebbe con l’antica Messapia, dove anche molto venerata fu la dea Atena protettrice dell’olivo, cultura e pianta a anche selvatica, diffusissima in Puglia). Cecrope nacque dal suolo stesso dell’Attica, ed era rappresentato con un corpo da uomo terminante con una coda di serpente. Nell’antichità, infatti, il serpente era uno dei simboli della terra, e quindi Cecrope fu pertanto figlio della Madre terra. Fu un dio civilizzatore delle genti e che ne permise il progresso materiale e morale. La tomba di Cecrope sembra sia da collocarsi, secondo il mito, sull’acropoli di Atene.
Molto interessante e da approfondire, sarebbe pertanto anche il nome di uno degli antichi re dei messapi salentini: Re Opis, nel cui nome pare echeggiare la stessa radice del termine greco “ophis”, il serpente!
Come non ricordare qui lo splendido manufatto messapico dell’ elmo in metallo, conservato oggi al British Museum di Londra, per la sua forte correlazione con i draghi.  Un elmo cornuto dove le corna son teste con lunghi colli serpentiformi di mostri draghiformi cornuti a loro volta e con una cresta spinescente ondulata sulla spina dorsale!
Forte è il legame simbolico del serpente con la sessualità, dunque, come con la divinazione, lo sguardo che guarda nel futuro attraverso la cortina del presente, testimoniata dal Pitone dell’Oracolo di Delfi.
Questi due valori insieme nella cultura greca sono fortemente rintracciabili nei serpenti nel mito del mitico indovino Tiresia (“Teiresías”, che vuol dire “colui che sa interpretare”, i “téirea”, i “segni celesti”). Il mito racconta che, passeggiando su un monte (il monte Cillene o secondo un’altra versione il monte Citerone), vide due serpenti che copulavano, ne uccise la femmina, con un bastone, perché quella scena lo infastidì. Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo che era, in donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio con un bastone e nello stesso istante ritornò uomo.
Due serpenti che si accoppiano sono una scena dalle forti suggestioni omosessuali, per la associativa, in termini di idee, forma fallica dei due ofidi, sebbene si tratti di due esemplari maschio e femmina in normale naturale accoppiamento riproduttivo. Questo forse anche psicologicamente il senso di quel fastidio che provò Tiresia di fronte alla scena. Inoltre, quando due serpenti si accoppiano, si sfregano tra loro, e intrecciano a doppia elica stretta i loro corpi anche per meglio scorrere l’ uno sull’altro per far incontrare i rispettivi organi sessuali per la copula, ed in quella scena agreste si concretizza naturalisticamente proprio quanto nel caduceo raffigurato artisticamente.
Un giorno, raccontano i miti greci, Zeus e sua moglie Era si trovarono divisi da una controversia, nata dai continui tradimenti di Zeus, la questione che li vedeva contendere era su chi potesse provare in amore più piacere, se l’uomo o la donna. Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna, mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo sia donna. Interpellato dagli dei, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché l’indovino aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per ricompensarlo del danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni; gli dei greci, infatti, non possono cancellare ciò che han fatto o deciso altri dei.
In altre versioni del mito fu la stessa madre, la ninfa Cariclo, piangente, a chiedere il dono della profezia, dopo che la dea Atena lo aveva accecato per punirlo di averla spiata e vista nuda mentre si faceva il bagno. La dea ordinò ad Erittonio, essere come Cecrope “nato dalla terra”, e per metà uomo e per metà serpente, di lavare con la sua lingua, certamente una lingua da serpente,  le orecchie di Tiresia, perché intendesse il linguaggio degli uccelli, compensando così con la virtù profetica acquisita, l’assenza della vista!
Tanti episodi mitologici legati a profezie vedono coinvolti serpenti e l’interpretazione dell’osservazione di scene naturalistiche che li coinvolgono.

Come anche tanti i serpenti e i draghi che compaiono nelle fiabe didascaliche greche e latine raccolte da Esopo e da Fedro.

Il serpente appare come il guardiano di tutte le potenze che Gaia, la Terra, raccoglie. E come il dispensatore della potenza divina. Guardiano di tesori materiali. O anche drago custode e tramandatore di antiche conoscenze.

E anche nel Salento si possono talvolta trovare luoghi, soprattutto rurali (ma non solo), dove si racconta di meravigliosi tesori, le “acchiature” in vernacolo locale, solitamente in cavità ipogee, in grotte, custodite dai grandi serpenti della tradizione popolare salentina!

Il serpente appare come un essere che intrattiene dei rapporti privilegiati con la vita e la morte; e in effetti sotto forma di serpente che le anime tornano alla terra secondo alcune concezioni mitologiche, inoltre, il fatto che egli si spogli ogni anno della sua pelle (che corrisponde alla sua vecchiaia), fa sì che questo animale sia considerato un essere dotato di una longevità straordinaria, del tipo di quella di cui è fu proprio dotato Tiresia, come di una capacità rigenerativa di ringiovanire pur invecchiando.

La bisessualità che viene trasmessa suggestivamente nell’ accoppiamento di due serpenti, diventa, come in Tiresia simbolo di completezza, quella completezza che è il superamento delle differenze, la fusione delle complementarità nell’iniziazione verso uno stadio superiore. Valori che si ritrovano nel bethilos, coniugatore di terra e cielo insieme, e dunque dei due complementari principi dicotomici. La coppia che insieme genera l’unità, il terzo. Il mistero della Trinità!

Il serpente-drago divinizzato e fatto ascendere al cielo appare in una costellazione della cultura greco-latina. Il poeta latino Virgilio chiama questa costellazione del Drago, “Anguis” nella sua opera delle Georgiche (I, 244-246), scritta in latino: “Quassù [sul polo nord astronomico] scivola il Serpente con le sue pieghe sinuose e come un fiume passa intorno ed in mezzo alle due Orse…[costellazione dell’ Orsa maggiore e dell’ Orsa minore]”. Tutte costellazioni ben visibili, da Grecia e Italia, nel cielo di settentrione. Il termine latino “anguis” per il serpente, è lo stesso termine che nella stessa sua opera Virgilio usa per nominare il grande serpente vivente nel Salento!

Ovunque esistono serpenti, la cultura e l’arte dei popoli è intrisa di serpenti con tutte le loro molteplici valenze!

I miti degli egizi, (popolo e civiltà che intrattenne stretti rapporti con i cretesi minoici come l’archeologia ben ha rivelato, e quindi con i misteriosi pelasgi), raccontano della dea e maga Iside, che con la saliva fecondante che irrigava la terra, caduta da Ra (Atum) il dio sole durante il suo viaggio diurno, raccolta ed impastata con la terra, con la sua muliebre mano, modellò e generò il velenoso serpente cobra, che così prese vita. Non dovette usare la sua magia per portare a termine questa creazione, perché nella creatura si trovava la sostanza divina di Ra. Fu quello il primo cobra.
Il serpente era fatto pertanto di natura intermedia tra quella celeste solare e quella terrestre, come spesso nelle valenze mitiche universali si osserva per il serpente e per il drago, mostro ora volante, ora terrestre, ora marino, ora con più valenze insieme.
Questa leggenda egizia era alla base anche di riti e formule scritte in amuleti prodotti e consigliati contro il morso dei serpenti, come mostrano alcuni recuperati testi su antichi papiri.
Apopi (o Apep, o Apophis), secondo la mitologia egizia, era la rappresentazione del buio e del Caos, ed è spesso rappresentato proprio con le sembianze di un serpente cobra. Questa divinità era il nemico del dio-sole Ra (Atum) a cui cercava ogni giorno di impedire di sorgere minacciandolo durante il suo viaggio attraverso il Duat, l’oltretomba che il sole attraversava nel suo ciclico viaggio nottetempo, dal tramonto ad occidente, fino al suo risorgere ad oriente. Una perenne lotta, secondo la magia egizia, la sacra scienza egizia, tra Ra, il dio supremo e il malefico serpente Apopi. Ogni giorno il dio, con l’aiuto della Luce, energia positiva, vinceva l’oscuro Caos, simboleggiato dal serpente nero e rigenerava il mondo. Derivante dal Caos primordiale, Apopi poteva essere combattuto e reso innocuo, per un certo tempo, ma non poteva essere distrutto rappresentando, nel continuo conflitto con Ra, lo scontro ancestrale tra bene e male. Tra principio di vita-amore e principio di morte. Nel Grande tempio del Sole a Karnak i sacerdoti svolgevano un particolare rituale, ripetuto varie volte al giorno, per aiutare il dio sole nel resistere agli attacchi del malefico Apopi.
Fortissima è anche in Egitto la presenza culturale ed artistica del serpente, della vipera cornuta del Sahara che lì vive, come di altri serpenti, e del terribile velenoso cobra autoctono in Egitto. Con valenze simboliche ora positive ora negative.

L’ultima regina ellenistica d’Egitto, la greca faraona Cleopatra, si suicidò facendosi morsicare dall’ aspide, la vipera secondo la narrazione storica antica.

Il serpente talvolta portatore di morte con il suo veleno, o comunque di grandi sofferenze, diventa necessariamente creatura anche dai valori inferi, connesso al mondo dei morti, ed è legato al mondo e alle divinità ctone, attributo di divinità sotterranee, legato all’oltretomba, e all’oscurità. E’ animale ctonio collegato colla sfera della morte. E tutto questo anche per la sua tendenza a sparire nelle viscere della terra scivolando in tane e cavità sotterranee, là dove sono spesso tumulati, in tombe, i resti mortali dei defunti, o deposte le loro ceneri. Le serpi nascerebbero addirittura dal midollo osseo dei morti, secondo Claudio Eliano, (165/170 – 235 d.C.), filosofo e scrittore romano che scriveva in lingua greca. Il serpente è bestia ambigua. Sanguinaria e divina.

Ifigenia, la giovane donna amata da Orfeo il mitologico grande musico greco, incantatore di belve con la melodiosa musica dei suoi strumenti ed il suo dolcissimo canto, muore morsa da un serpente, e Orfeo scende financo negli inferi, per tentare di riportare in vita la sua donna, tanto grande era il suo amore. Un mito questo centrale nei culti orfici e orfico-pitagorici, molto diffusi nella Magna Grecia. Tanti i personaggi del mito greco che sono feriti o uccisi da morsi di serpenti. La terribile mostruosa Gorgone Medusa aveva per capigliatura un groviglio di vipere velenose, per questo sugli scudi contro i nemici, ma anche in ornamenti architettonici (come nelle antefisse), molto grande era la sua raffigurazione, in Magna Grecia, con valenze apotropaiche!

Ed è per tutto questo che anche l’inferno cristiano è intriso di serpenti e demoni serpentiformi.
Serpenti che appaiono pertanto tormentare le anime dei cattivi nella rappresentazione dell’inferno nel medioevale mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, nella navata sinistra, dove la rappresentazione dell’ inferno rivela la comune pangea culturale e influenza che lega le culture cristiano-giudaiche e greco-latine alla religione e cultura egizia: la scena della pesata delle anime!

Un angelo è intento a manovrare una bilancia a due bracci con cui sta pesando le anime dei defunti per vedere se sono così leggere, prive di pesanti peccati, da poter entrare in paradiso, o se devono invece esser scagliate all’inferno, esattamente come un dio del pantheon egizio si preoccupava, secondo l’antica credenza religiosa egizia (esposta in testi su papiri e non, come in tante raffigurazioni artistiche egizie), per i defunti, di pesare allo stesso modo con una bilancia a due bracci, il loro cuore, per decidere quale eterno destino toccasse al defunto; più era leggero, più aveva condotto una vita moralmente meritevole.

L’ identificazione con la somma creatura del male presso gli egizi, del serpente cobra, non è dissimile dalla concezione cristiana che rappresenta talvolta in forme di serpe il demonio Satana, ed altri demoni diabolici. Talvolta come orrendo spaventoso e grosso serpente, persino a volte cornuto, tal altra come nero caprone dalle grandi forti corna, o uomo semi-capro come nell’ iconografia dei mitologici fauni e sileni, nella mitologia rispettivamente latina e greca, o del dio greco Pan, con zampe con zoccoli di capra e palchi caprini sul capo e corpo abbastanza villoso sulle porzioni soprattutto meno antropomorfe. Sileni (Satiri) immancabili nel corteo simbolico del dio Dioniso, un dio anch’esso cornuto come vedremo.
E così il serpente diventa simbolo della lussuria sessuale, dell’istinto più animale, e della distruzione-morte-perdizione dell’anima, e rappresenta, nel quadro del simbolismo cristiano, il peccato e quindi il demonio.
Si aggiunga che si trattava di un animale quasi divino, raffigurato come drago serpentiforme persino nelle stelle, in una costellazione della cultura greco-latina.
Era pertanto il serpente per i cristiani viva rappresentazione di un paganesimo, e degli antichi culti e credenze, da combattere.

Ed è anche per tutto questo, che alla notizia di avvistamenti di grandi serpenti, specie se cornuti, nel Salento, talvolta contadini più impavidi affrontavano o ricorrevano il serpe con grossi bastoni e zappe per ucciderlo, e magari mozzarli il capo cornuto. Ricordo di un caso del genere, di cui si diffuse la notizia diversi anni fa, nei primi anni ’90 del ‘900, se non erro, e che mi dissero era avvenuto nella zona grossomodo di contrada Santi Stefani a Maglie, nella periferia rurale del paese. Le anziane raccontarono ai più piccoli, facendosi il segno della croce, che era “u Dialu, cu le corna” quel grossissimo serpente spaventoso e con cornetti sul capo, che era comparso nei campi, forse in estate tra l’erba secca, e che fu malamente ucciso, e di cui purtroppo non seppi nulla altro! Ero ancora bambino e non riuscì ad indagar oltre.

Quale migliore è più eloquente epifania del demonio, per la sensibilità cristiana, di un grande serpente con le corna!

Serpente che compare alla genesi del mondo, nei miti cosmogonici greco-pelasgici, e in parte anche in quelli giudaici, ma che ritroviamo in coerenza con le doppie valenze di creazione e distruzione, vita e morte del serpente, anche e soprattutto nella forma di terribile drago, nei miti di distruzione, di fine del mondo, come nella cristiana Apocalisse.

In questo lungo excursus nell’analisi del simbolo del serpente nella cultura e nell’inconscio universale, attraverso pochi ma indicativi esempi soprattutto di ambiente mediterraneo, ritorniamo a concentrare l’attenzione sui misteriosi grandi serpenti cornuti che hanno visto e vedono protagonista la cultura salentina.

A questo proposito è fondamentale osservare come l’ immagine del grande mostruoso serpente cornuto par essere antichissima e quasi universale, e la si ritrova dalle Americhe nelle popolazioni precolombiane in miti ed iconografie, come nelle civiltà europee e medio-orientali, come nei restanti continenti Africano ed Asiatico. E allo steso modo il grande serpente non poteva mancare nell’immaginario, nell’arte e in generale nella cultura dei popoli dell’ Oceania.
Nell’iconografia e nella mitologia mesopotamica, dove troviamo il Ningishzida, che è un ancestrale prototipo del serpente biblico che compare nel Giardino dell’Eden, e che a volte viene raffigurato come un serpente con corna. In altre raffigurazioni è tratteggiato con sembianze umane, ma è accompagnato da alcuni bashmu, sei serpenti cornuti. Il Ningishzida condivide l’epiteto di Ushumgal, “grande serpente”, con molte altre divinità mesopotamiche.
Grandi serpenti noti anche come serpenti cornuti, sono creature che appaiono nella mitologia di molte culture native Americane. Generalmente, i miti li considerano creature antidiluviane originatesi prima dell’uomo e fisicamente simili ad enormi rettili, dotati di grandi corna e di una pelle coriacea e squamata. Alcune tradizioni li dipingono simili a enormi lucertole, altre ad altrettanto grandi serpenti. In molte tradizioni questi serpenti cornuti erano gli acerrimi nemici degli uccelli del tuono, dai quali, gli esemplari più grandi, furono annientati. Queste figure sono assimilabili per simbologia e funzione ai draghi europei e asiatici e come loro, a seconda delle molte variazioni regionali, associati all’acqua, alla pioggia, ai fulmini, al tuono o al fuoco. Questi rettili mitologici sono protagonisti di spicco dei differenti complessi cerimoniali della preistoria del Nord America. Compaiono associati a questi popoli raffigurazioni pittoriche ed incisioni rupestri di grandi serpenti con le corna, risalenti anche ad epoche diverse. I grandi serpenti, cornuti e non, appaiono nella tradizione orale di numerosi popoli indigeni delle Americhe, specialmente delle tribù indigene delle foreste sud-orientali e dei Grandi Laghi. Le tradizioni dei nativi includono serpenti cornuti di grandi dimensioni. Per il popolo nativo dei Muscogee, fisicamente il Serpente Cornuto sarebbe un genere di serpente acquatico ricoperto di dure squame iridescenti e cristalline, con un singolo grande cristallo sulla fronte; curiosamente questo particolare richiama il radicato mito euro-asiatico delle cosiddette pietre di drago, preziosi cristalli che si troverebbero nella testa dei draghi.
Le coincidenze nelle tradizioni sono in realtà, vi è da ipotizzare, slegate e si dovrebbero esser sviluppate in maniera del tutto indipendente per coincidenze o alcune simili suggestioni naturalistiche. Oppure sono frutto di comuni universali archetipi umani, o di semi mitologici culturali paleolitici importati con le stesse genti dall’Asia, nella colonizzazione umana del continente americano. Tornando alla tradizione dei grandi serpenti cornuti dei nativi Muscongee, sia le scaglie che il cristallo erano molto ricercati per via del loro enorme potenziale divinatorio. Le corna, chiamate “chitto gab-by”, erano invece usate nella medicina. Raccontano che questo serpente vive nell’acqua e ha corna come quelle di un cervo. Non è un serpente malvagio,  non attacca gli uomini, ma sembra avere una capacità magnetica sulle prede. I Muscogee hanno anche un altro tipo di serpenti nella loro mitologia, i serpenti nodo più piccoli del serpente cornuto; nelle loro raffigurazioni artistiche appaiono come due serpenti con il corpo annodato, simboli che ricordano, sebbene differenti, i simboli delle culture europeo-mediterranee dell’ uroburo e del caduceo insieme. Forse sottendono simili valori simbolici.
Tante le storie e favole nelle culture dei nativi su questi misteriosi serpenti cornuti.
Le popolazioni dell’Alabama, invece, chiamano il Serpente Cornuto anche “pesce-aragosta”, e sono soliti classificarlo in quattro categorie che si distinguono per il colore delle loro corna ritorte, blu, rosse, bianche o gialle.
All’interno del popolo nativo degli Yuchi, la figura del serpente cornuto è talmente sentita che le raffigurazioni più recenti arrivano sino al 1905. Un’effigie della creatura fu creata a partire dal manto scuoiato di un cervo, con il corpo dipinto di blu e le corna di giallo. La danza Yuchi nota come “danza della grande tartaruga” onora lo spirito del Serpente Cornuto, che nella loro tradizione è associato ai concetti di fulmine, fuoco, tuono, malattia e arcobaleno, tutti concetti che spesso ricordano figurativamente tracciati lineari (quindi “serpentiformi”).
Fra le popolazioni Cherokee, il Serpente Cornuto è noto come “uktena”. L’antropologo James Mooney, descrive così l’animale: “Quelli che lo conoscono riferiscono che l’uktena è un enorme serpente, largo quanto il tronco di un albero, con corna sulla sua testa e una luminosa, sfolgorante cresta simile ad un diamante sulla sua fronte, con scaglie che ardono come scintille di fuoco. Esso ha anelli o macchie colorate lungo la sua intera lunghezza, e non può essere ferito eccetto che puntando alla settima macchia dalla testa, perché è sotto questa macchia che si trovano il suo cuore e la sua vita. Lo scintillante diamante è detto “ulun’suti”, trasparente, e colui che lo riesce a conquistare può diventare il più grande taumaturgo della tribù. Ma è un’impresa che vale la vita, giacché chiunque sia avvistato dall’Uktena è così abbagliato dal suo bagliore luminoso che corre verso il serpente invece di tentare la fuga. Come se non bastasse, il respiro dell’Uktena è così pestilenziale che nessuna creatura può sopravvivere se inala anche la più piccola quantità dell’aria malsana emessa dall’Uktena. Anche il solo vedere un Uktena addormentato presagisce la morte, ma non del cacciatore stesso, quanto della sua famiglia.”
Echeggiano le paure del fiato del drago, mortale e talvolta produttore di fiamme, nella mitologia europea.
Secondo le credenze del popolo nativo dei Sioux, lo Unktehila è un terribile rettile mostruoso dei tempi antichi. Erano molti e di molte forme, ma alla fine gli uccelli del tuono li distrussero, risparmiando solo piccole specie come lucertole e serpenti.
Una interpretazione della genesi di questi miti propone che potrebbero essere stati ispirati dal ritrovamento di dinosauri fossili nel territorio tribale dei Sioux; anche l’uccello del tuono potrebbe essere stato in parte ispirato da resti di scheletri di pterosauro.
Un’ipotesi mitopoietica molto interessante, soprattutto perché, a differenza di altre realtà, come ad esempio quella della viva e testimoniata credenza nei serpenti cornuti nel Salento anche contemporaneo, il mito sioux dei grandi serpenti cornuti parla di animali mostruosi comunque estinti ed appartenenti all’antichità.
Un filone di ricerca mitopoietica questa estremamente interessante, in generale, che coinvolge appunto il tentativo umano pre-scientifico di spiegazione di ritrovamenti fossili di animali estinti almeno localmente, e che si intreccia con la paleontologia.
Il filone di ricerca cripto-zoologica invece sui serpenti cornuti, non può fare a meno di considerare che nei rettili, ed anche nei serpenti, non sono rare sul capo come sulla spalla e lungo la spina dorsale, escrescenze a forma proprio di corni e corna, e questo tanto per rettili del passato estinti, tanto per tantissime specie di rettili e anche serpenti contemporanei in tutto il mondo.
Così allo stesso modo interessanti i filoni di ricerca antropologica relativi al mito del drago, ai suoi archetipi e agli archetipi e simboli delle sue caratteristiche, e delle storie e riti che lo coinvolgono, come anche il filone psicologico nell’analisi della paura per il drago-serpente, quasi come fosse un universale ricordo ancestrale istintivo impresso nel DNA, sin dai tempi passati in cui l’ uomo, o il mammifero proto-umano, era preda dei grandi terribili rettili delle epoche geologiche passate, che oggi riemergono oniricamente come incubi profondamente ancestrali.
Tante dunque le tribù degli indiani d’America dove si ritrovano questi miti interessantissimi dei serpenti cornuti, quella dei Cree, degli Shawnee, degli Oji-Cree, degli Ojibwe, degli Abenaki, dei Choctaw, dei Dakota, dei Natchez, dei Cherokee, presso i quali con nomi diversi, i grandi serpenti cornuti erano chiamati; ma quasi tutti questi nomi erano traducibili letteralmente come “grandi serpenti”.
Ma torniamo in Europa. Il serpente dalle corna di ariete è un’ immagine religiosa ben conosciuta anche nell’Europa celtica prima e durante il periodo romano.
Era strettamente connesso al dio della mitologia celtica, chiamato Cernunnos (o Cerumnos), lo spirito divinizzato degli animali maschi cornuti, specialmente dei cervi, un dio della natura associato alla riproduzione e alla fertilità. Come “Dio Cornuto”, Cernunnos (come significa il suo stesso nome nella sua etimologia),  fu una delle numerose divinità caratterizzate dal simile attributo delle corna sul capo, presenti in molte culture antiche. Le corna di Cernunnos erano sovente corna di cervo. E’ quasi sempre raffigurato con degli animali, in particolare il cervo. È frequentemente associato anche con un animale particolare che sembra appartenere prima di tutto a lui: un serpente con le corna di un ariete. Questa creatura potrebbe essere una divinità essa stessa.

Tale serpente appare tre volte sul Calderone di Gundestrup un famoso manufatto celtico datato alla fine del II secolo a.C., nella tarda Età del ferro, e ritrovato nel nord della Danimarca, dove è appunto raffigurato il dio Cernunnos con corna di cervo.
Anche nella Gallia romano-celtica tale serpente cornuto con corna di ariete era strettamente connesso al dio cornuto Cernunnos, in compagnia del quale è frequentemente raffigurato.

Una figuretta in bronzo trovata a Étang-sur-Arroux in Francia, e una scultura in pietra a Sommerécourt sempre in Francia, raffigurano il corpo di Cerumnos attorniato da due serpenti cornuti che si cibano dalle ciotole di frutta e di farina nel grembo del dio. Sempre a Sommerécourt troviamo inoltre la scultura di una dea che sorregge una cornucopia e un melograno, mentre un serpente cornuto mangia da una ciotola di cibo. A Yzeures-sur-Creuse, sempre in Francia, troviamo l’incisione di un giovane con un serpente cornuto scolpito nell’atto di avvolgersi intorno alle sue gambe, con la testa appoggiata sullo stomaco della figura, mentre a Cirencester nella contea inglese del Gloucestershire le gambe di Cerumnos sono due serpenti che si torcono ai due lati della sua testa per nutrirsi di frutta e grano. Secondo alcuni studiosi questi serpenti rappresenterebbero la natura pacifica del dio, associata alla generosità della natura e all’abbondanza di frutta, ed evidenzierebbero la sua associazione con la rigenerazione.

Altre divinità nell’ iconografia europea sono occasionalmente accompagnate da serpenti con corna di ariete, inclusi i cosiddetti “Marte Celtico”, “Mercurio Celtico”; inoltre serpenti cornuti, e a volte anche serpenti più convenzionali, appaiono in combinazione con la ruota solare, apparentemente come attributi del dio del cielo. (Ruota solare, la croce a braccia uguali inscritta nella circonferenza, che su alcuni trulli della Valle d’Itria, ancora nel secolo scorso, compariva tra i vari possibili simboli ricalcati in calce bianca sul tetto conico dei trulli; quasi ogni trullo aveva un suo simbolo associato. Non solo, simbolo della ruota solare, è anche la ruota di carro che si poneva e pone orizzontale sulla sommità e al centro del ligneo “palo della cuccagna”, che si celebra ancora in alcune “sagre”, feste popolari salentine, e che è intriso con tutta la celebrazione che lo vede coinvolto, dei valori arcaici e spesso oggi inconsci ma non per questo meno vivi e attivi, del culto bethilico!).

Ma proprio questa coppia mitologica appare almeno dal IV sec. a.C. nell’ Italia Settentrionale, dove una grande figura cornuta con serpenti fu incisa nella roccia in Val Camonica.

Sulla base di questi simboli, particolare interesse potrebbe assumere una più attenta rilettura di quella è la pittura rupestre più nota della Grotta dei Cervi a Porto Badisco, grande santuario neolitico salentino, dalle pareti ricchissime di dipinti, con anche rappresentazioni di numerosi animali cornuti, bovidi, caprini e cervidi, scene di caccia al cervo, persino figure antropomorfe (forse teriomorfe) dal capo cornuto, e persino scene che parrebbero raffigurare metamorfosi da uomo in cervo o viceversa.
Tra questa miriade di dipinti, pittogrammi, in guano di pipistrello e ocra rossa, che raffigurano forme geometriche, umane, animali, ecc., che risalgono all’epoca neolitica, tra il 4.000 ed il 3.000 a.C., la più famosa è quella che dalla scoperta della grotta nel 1970, (battezzata “dei Cervi” per le numerose raffigurazioni lì ritrovate di quell’ animale che popolava grandemente il Salento nella preistoria, e così fino ancora al secolo ‘800), è divenuta nella neo-cultura popolare la rappresentazione, battezza, dello “stregone di Porto Badisco”, forse uno sciamano con copricapo cornuto, piumato o comunque raggiato, forse un dio zoo-antropomorfo. Nella neo-cultura popolare salentina, che riscopre l’antica cultura locale, il tarantismo ed il ballo della pizzica-pizzica, questo pittogramma è stato anche battezzato come il “dio danzante” per le movenze quasi saltellanti, che sembra comunicare la sua stilizzata raffigurazione. Un pittogramma che emerso dalla preistoria, è diventato subito un diffusissimo simbolo territoriale. Colpiscono però in questo contesto, in questa raffigurazione neolitica due segni a forma di S tra loro affrontati ai suoi piedi e che sembrerebbero aver un rigonfiamento nella parte terminante sommitale, come di teste di due possibili serpenti appunto!
Un possibile abbinamento di serpenti ed esseri cornuti già nella mitologia e fantasia salentina in epoca neolitica, in questa terra di draghi e serpenti, cornuti e non, così ancestralmente mitopietica, creatrice ed induttrice di miti, immaginifica e civico-poietica, quale il Salento. Terra generatrice ed evolutrice di umana civiltà, anche per la sua importantissima e invidiabile ubicazione, che la fa terra di vita beata e crogiuolo alchemico crocevia della storia e della cultura!

Nel vicino Molise nel paese di Castenuovo in Volturno, nelle montagne delle Mainarde, in provincia di Isernia, in occasione di alcune feste popolari, ancora compare in precise rappresentazioni rituali, la maschera dell’ uomo cervo (“Gl’ Cierv” in vernacolo locale), un uomo dal copricapo con corna di cervo appunto, coperto di pelli e decorato da uomo selvaggio, col volto dipinto di scuro, insieme alle streghe “janare” (termine dialettale, che deriva da quello della dea madre italica della caccia e del mondo selvatico, Diana – corrispondente alla greca Artemide). Nella interessantissima rappresentazione che si inscena, la coppia cervo-cerva al suono sempre più forte dei campanacci terrorizza la popolazione e distrugge i raccolti, finché dall’ uomo cacciatore-sciamano non vengono uccisi i due ungulati, e quindi da questo resuscitati soffiando nelle loro orecchie. E i cervi tornano a vivere ma questa volta pacifici con le popolazioni e non più dannosi per i raccolti. La manifestazione ha luogo l’ultima domenica di carnevale, ed è accompagnata dall’ accensione di falò che scaldano la notte, e propiziano al contempo la primavera ed il crescente calore dei raggi del sole.

Dio Cornuto era anche il greco Dioniso, come abbiam accennato, il dio del Vino (Bacco per i romani); un dio della fertilità e della gioia selvaggia. Il neonato Dioniso dalla sua venuta al mondo possedeva delle piccole corna con dei ricciolini serpentini. Il serpente è un animale che riveste un ruolo fondamentale nel culto di Dioniso a cui è sacro. In un passo dell’opera intitolata “Dionisiache” di Nonno di Panopoli, (un poeta bizantino vissuto probabilmente attorno alla prima metà del V secolo), si legge che fu il serpente a indurre Dioniso a gustare l’uva. Si ripropone con il serpente ed i suoi valori simbolici, il binomio vita-morte che è segno di ambiguità, della doppia natura di Dioniso. Nei riti dionisiaci le baccanti sue seguaci, anche chiamate menadi, sue sfrenate sacerdotesse, prese dal furore orgiastico del dio, nell’ebbrezza di una drogata disinibente ubriacatura, mettono a rischio la propria vita giocando con la morte tramite la manipolazione dei serpenti, come descritto nelle “Baccanti”, l’opera del drammaturgo ateniese Euripide (485 a.C. –  407/406 a.C.). In epoca più tarda il culto di Dioniso pretendeva che le menadi adoperassero serpenti non velenosi, quale barbaro ornamento della loro acconciatura di baccanti.

Nei miti greci Dioniso viene talvolta presentato, identificato o collegato con il dio Zagreo, che fu in origine una divinità agreste e ctonia, molto probabilmente di derivazione cretese. Il mito del dio Zagreo assunse un’ importanza fondamentale nell’ambito della religione orfica, mell’orfismo che è stato un movimento religioso sorto in Grecia presumibilmente verso il VI secolo a.C. intorno alla mitologica figura di Orfeo. Il serpente cornuto era il simbolo di Zagreo, tanto che talvolta lo stesso dio si presenta in forma proprio di serpente cornuto. Zagreo, bambino munito di corna, che dal trono celeste di Zeus, con la sua piccola mano vibrava il fulmine, lanciando saette.
Il culto di Dioniso e la sua religione, si diffuse molto anche in Magna Grecia nel sud Italia, ed in terra messapica, come anche i culti orfici-pitagorici.
Un vaso attico a figure rosse risalente al 440-430 a.C., trovato a corredo in una tomba nella necropoli delle messapica Vaste (in fondo Melliche) in provincia di Lecce, raffigura proprio una scena dionisiaca e il dio Dioniso che tiene in una mano il suo suo sacro bastone tipicamente sormontato da una pigna, chiamato “tirso” (termine greco che ricorda il termine del dialetto salentino “tursu”, che ha la stessa origine etimologica, e che è il torsolo, il fusto di alcune piante, specialmente del cavolo o del finocchio, privato della “cosca” di foglie e dei fiori), e il kantharos nell’altra mano, il sacro vaso-bicchiere di creta da cui bere il vino inebriante di cui era il dio, (nel dialetto salentino il termine “cantaru” è ancora presenta ed indica determinate tipologia di vaso fittile)!  Analoghe rappresentazioni dionisiache e del dio Dioniso, solo ad esempio, anche nei dipinti su un cratere attico a colonnette, un vaso trovato a Brindisi in una tomba di via Bari. Il cratere era il vaso cerimoniale in cui si mesceva il vino (“u mierù” in dialetto salentino) con acqua per diluirlo; ancor oggi nel griko salentino il vino viene chiamato “krasì”.

In questo appassionate viaggio diverse volte si son incontrate le radice Ker-, Kar-, o loro derivate, per tanti nomi greci e latini, ora per i serpenti, ora per i cervi, ora per i corni, e cornucopie simboli di abbondanza legati al fallico corno, ora per divinità femminili, come Cerere, e dunque per i cereali, ora per nomi propri di ninfe e divinità femminili, ora per divinità maschili, per re mitologici e per eroi, per nomi propri di persona, per aggettivi con valenze di buono e di bello sessuale fonte di attrazione, come “carino”, e così le si ritrova per nomi di parti del corpo e di organi (cuore, “cor, cordis” in latino, “cardia” in greco come in griko il dialetto grecanico salentino; “cara” testa in greco come in griko; ecc.), e le si ritrova anche in altre lingue europee e forse non solo (pensiamo all’egiziano Ka, indicante la forza vitale di ciascun individuo; al Karma in sanscrito che significa “atto religioso”, “rito”, agire volto a un fine, inteso come attivazione del principio di “causa-effetto”), e poi per i nomi di tanti elementi riconducibili ai culti bethilici, come riferiti al tumulo-piramide (Karn/Kairn in gaelico, Kurgan presso gli sciiti), che al culto bethilico è collegato, (forse anche la stessa parola Croce, “Crux” in latino), e quindi ancora in oggetti di valore sacro (ad esempio lo scettro chiamato caduceo, dal latino caduceus, che riprende il greco antico καρυκαῖον karykàion, in greco classico κερυκεῖον kerykèion, la corona che è posta sul capo), in strumenti di notevole rilevanza (come il “carro”, cui si collega il concetto di “carica”), in elementi orografici, nomi di alture e di grotte, cripte, toponimi, e in elementi del mondo vegetale, ecc. ecc., in Cristo e in crisma, in Krishna, nel verbo crescere, tanto che sembra possibile avanzare l’ipotesi, che il “kar”, indicasse originariamente, inconsciamente o meno, un concetto di energia, di divino potere vivificante l’inanimato ed l’immobile, apportatore di bene, fecondante, che permeava il vivente, il cosmo, e permetteva la rinascita. Un’energia fluente, un potere trasmissibili e accumulabile, e un’ energia che si concretizzava o assumeva la sua massima forza nell’incontro degli opposti complementari, di cielo e terra, da propiziare e permettere in ogni modo, come con il bethilos, o nell’albero sacro, e attraverso pratiche magiche; gli animali, le piante, gli elementi del Creato,  l’ uomo stesso elevato, eretto tra cielo e terra, all’ interfaccia  tra la coppia cosmica cielo-terra, dove l’ uomo vive, riceve la vita, ma è al contempo tramite di questa energia, suo catalizzatore, come altri esseri, divino operatore esso stesso, e protagonista dell’esistenza e dei cicli della Natura. Come immaginare questo Car? Come “carità”, come “carisma”, concetti già giunti nel cristianesimo e che hanno proprio significati riconducibili a queste concettualizzazioni accennate!

E perché questo suono KR, (e anche il simile GR, che troviamo ad esempio nel sacro “Graal”)?

Come per gli egizi fondamentale era il suono prima dell’alba del verso dell’airone sul fiume Nilo che sembrava essere vibrazione creatrice che spezzava le tenebre della notte e annunciava il sorgere del Sole, suono-parola-vibrazione come forza creatrice, così di grande valenza per i popoli antichi il canto del gallo all’alba, da cui il valore simbolico solare del gallo anche favorito in ciò dalla sua cresta rossa come raggiata (interessante in merito anche il termine “cresta”), allo stesso modo ipotizzo che in tempi ancestrali grande valenza venisse data al grillo e alla sua musica notturna fatta di kri-kri da cui anche il suo nome onomatopeico “grillo”. Significativo è l’archetipo che ha ispirato una famosa scena nel film “L’ultimo imperatore” del 1987 nella quale all’imperatore cinese ancora bambino si regala una scatoletta di legno forata con dentro un grillo all’atto della sua incoronazione, imperatore considerato come un dio in terra.

Interessante sarebbe anche approfondire un’altra figura che pare avere nella cultura popolare salentina dei richiami con creature mitologiche titanicamente draghiformi, è il nome con cui nel basso Salento vengono chiamate le devastanti trombe d’aria, sia su terraferma che in mare, (che spesso si accompagnano a forti temporali, tuoni e scariche di fulmini), un fenomeno meteorologico non infrequente nel Salento, tanto nei tempi odierni, come nei tempi passati, tanto da avere un suo nome locale caratteristico: il nome diffuso in quasi tutta la provincia di Lecce per le trombe d’aria è  “Zanfiuni”! Ma nella città di Sanarica, ho raccolto la perifrasi per chiamar le trombe d’aria: “cuta de Zanfiune”.
La tomba d’aria, dunque come la coda di un terribile mostruoso essere il cui corpo è al di là delle nuvole, “lu Zanfiune”. Forse un gigantesco scorpione di cui la coda era la tomba d’aria? O un Drago? O un titano serpentiforme? Per studiare l’origine possibile di questa terminologia salentina interessante il confronto con la figura del terribile Tifone della mitologia greca, un mostro che per la sua potenza fece vacillare il trono dello stesso Zeus, descritto come essere immenso, lancia fuoco, e scaraventa massi, grande quanto è più d’una tromba d’aria, e con serpenti e draghi nei suoi arti, padre dei venti terribili, (detti appunto “tifoni”), come della mostruosa chimera.
Forse opportuno anche considerare insieme, la figura mitologica del dio chiamato Zefiro, o Zeffiro,  che, nell’ “Iliade” di Omero, era un vento violento o piovoso, mentre più tardi sarà considerato leggero, simile alla brezza, e messaggero della primavera.
La correlazione popolare dello Zanfiune con esseri draghiformi, lo rivelerebbe anche, indirettamente, la tradizione che attribuisce proprio a San Giorgio del drago, la grazia ricevuta dal paese di Sternatia, d’essersi salvato, e d’esser scampato per pochissimo ad una terribile tromba d’aria che  si abbatté sul cuore del basso Salento, il 22 agosto del 1843.  A Sternatia si festeggia, il 22 agosto, il santo patrono San Giorgio, santo militare e martire di Cappadocia. La devozione e la celebrazione in quel preciso giorno è legata ad un fatto miracoloso che viene ascritto a San Giorgio. Di fronte alla scena terrificante della grande tromba d’aria che si dirigeva verso il centro del paese, di fronte a questa minaccia, alle ore 13, un gruppo di fedeli, per lo più donne, si recò nella Chiesa Madre, mosso da una forte fede verso il Santo. Gli atterriti cittadini presero in spalla la statua del Santo patrono e la portarono in processione fuori l’abitato, oltre le mura del paese, percorrendo la centrale via Platea dirigendosi verso Nord, e superando l’antica Porta di Lecce (oggi purtroppo distrutta e che andrebbe ricostruita dov’era e com’era), e improvvisamente la catastrofe naturale mutò intensità e poi direzione. Così il paese venne salvato dalla tempestosa e furioso tromba d’aria. La tradizione orale narra inoltre aneddoti che fungono da contorno alla vicenda, ad esempio l’ episodio di un venditore di cipolle proveniente da Galatone che avrebbe promesso al Santo di ritornare a Sternatia ogni anno e di onorarlo se gli avesse salvato la vita. E l’episodio secondo cui, per strada, una bambina di nome Giorgia avrebbe visto in cielo San Giorgio combattere contro il fuoco. E San Giorgio è proprio noto iconograficamente ed agiograficamente per aver sconfitto con la sua lancia l’orribile drago!

Un lungo bellissimo viaggio nello spazio e nel tempo, come nei meandri del Salento, della sua cultura e della mente umana, senza pregiudizi ma prestando ascolto agli altri, e osservando la natura, esterna e umana, e lasciandosi da essa guidare e razionalmente seguire, nella piacevolezza della sua seducente misteriosa bellezza, ispirati nei fatti dall’ obbedienza a quel motto greco antico così vero:  “conosci te stesso”, la tua terra, “e conoscerai l’Universo e gli Dei”.

NOTA: Per ulteriori approfondimenti rimando al mio post facebook correlato e ai suoi ricchissimi commenti, come ai commenti alle tre pagine con questo testo qui esposto cui rimanda il post di cui qui riporto il link: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10202389126359555&set=a.1888805429917&type=3&theater

Ottobre 2013

Oreste Caroppo

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