Quando in Salento crescevano i Faggi e i Pini della montagna come in Appennino in Centro e Sud Italia ancora oggi!

QUANDO IN SALENTO CRESCEVANO I FAGGI E I PINI DELLA MONTAGNA COME IN APPENNINO IN CENTRO E SUD ITALIA ANCORA OGGI!
Possibile?
Questi studi scientifici lasciano credere così!

Foto dell’ ottobre-novembre 2010 in Sila, in Bruzio, parco naturale nazionale nell’ odierna Calabria dominato dalla presenza di immensi Pini neri, qui nelle vicinanza del borgo di Camigliatello. Scatto di Oreste Caroppo.

 

Nota: è questa una lettura che consiglio a tutti gli amanti della natura di Terra d’Otranto, e da svolgere lentamente con calma quando si ha tempo. Nel testo i link ai vari studi scientifici che verranno esposti e commentati fornendo spunti per ulteriori approfondimenti, ma al contempo costruendo una visione complessiva nuova di quella che era la biodiversità delle aree salentine interne dove emergeranno forti suggestioni appenniniche dagli studi paleo-ambientali raccolti sulle originali biocenosi oloceniche, anche in tempi storici.

 

Come mai terre così vicine, Sila e Salento, che si guardano negli orizzonti reciproci del Golfo di Taranto, o il Salento e l’ entroterra d’ Abruzzo paion così diverse oggi nella biodiversità delle conifere e non solo?

OGGI appunto … e perché dico “oggi”?

In centro Calabria procedendo dall’ambiente costiero ionico e inoltrandosi nell’entroterra verso aree collinari e montane della Sila, vediamo il passaggio dai costieri Pini d’ Aleppo (Pinus halepensis) e Pini marittimi (Pinus pinaster) ai caratteristici Pini neri nell’entroterra!

Pigna di Pinus pinaster che per i suoi mucroni, le punte dure e acuminate sulle scaglie legnose, ben si distingue da quella a superficie più liscia del Pinus halepensis. Foto con URL da inernet.

 

In Salento ancor oggi il Pino d’ Aleppo si ritrova lungo la costa e non solo; importanti, anche per ridiffonderlo maggiormente e con saggezza, son stati interventi dei decenni passati di rimboschimento, ma anche qualche Pinus pinaster si osserva lungo la costa e nell’ entroterra (anche un giovane esemplare a Maglie nei pressi di altri Pini d’ Aleppo, non lontano dalla pineta della Conca Marau, è nato spontaneo dalla diffusione dei semi a partire da un esemplare più anziano piantato insieme ad altri Pini d’Aleppo in un giardino vicino)

Il Pino marittimo (Pinus pinaster) a MaglieSi tratta di una specie a Maglie rarissima.Si distingue dal Pino d'Aleppo…

Gepostet von Oreste Caroppo am Sonntag, 3. November 2019

 

… ma oggi c’è chi, contro ogni dato e buon senso, spaccia per esotici i nostri Pini d’Aleppo, affermando inoltre che l’ esoticità basterebbe per fare fuori un albero!!?? Pazzesco!

 

Sila, ottobre-novembre 2010, fustaia di conifere, Pini neri di alto fusto. Foto di Oreste Caroppo.

 

Ma in verità poi: ma quali alloctoni? Non son alloctoni nella vicina Grecia i Pini d’Aleppo (così chiamati) la cui resina è usata per il loro tipico vino chiamato retsina, e non lo son in Italia,
qui vediamo uno studio interessantissimo basato su analisi polliniche per una ricostruzione paleombientale della valle del fiume Bradano nel sud della Lucania e esattamente al confine con la Puglia,
vedi al link: https://www.researchgate.net/publication/233960208_Pollen_from_archaeological_layers_and_cultural_landscape_reconstruction_Case_studies_from_the_Bradano_valley_Basilicata_southern_Italy
E tra le specie emerse dai pollini, elenco che vi invito a leggere, appare proprio il Pino d’Aleppo (Pinus halepensis), in strati archeologici di epoca ellenistica e medioevale.

Ma interessante leggere come dagli studi di strati ellenistici, romani e medioevali siano emersi lì complessivamente pollini di Betulla

 

(con tutta probabilità Betula alba che ancora vive in sud Italia, sul Vesuvio e sui monti del Cilento, e nell’ ‘800 attestata ancora nel Gargano in Puglia, “Vituddu”, “Bituddu” sono i suoi più diffusi nomi dialettali nel Sud Italia. La Betulla è un vivente relitto nell’ Italia meridionale dell’ ultima preistorica Glaciazione dell’era Quaternaria, la Würm, terminata con la fine del periodo detto appunto Würmiano circa 12.000 anni fa.
Di quella ultima Glaciazione restavano ancora nell’ ‘800 delle formazioni di Betulla pendula, nome scientifico Betula alba, vegetanti in Puglia sul Gargano segnalate da Rabenhorst nel 1849-50, ed oggi purtroppo non più ritrovate da allora. Opportuna la loro reintroduzione in Puglia nei luoghi adatti, da zone prossime in cui ancora vegeta; dalle betulle incidendone opportunamente il tronco si ricava anche un succo dal valore alimentare ritenuto prodigo di benefici per la salute. Fungo simbionte della Betula alba è l’iconica immaginifica Amanita muscaria comunemente chiamata Ovolo malefico e dalle proprietà psicotrope. In Salento oggi l’Amanita muscaria nella varietà flavivolvata è stata osservata nelle pinete di San Cataldo di Lecce come simbionte dei piantati dall’uomo australiani Eucalyptus camaldulensis),

 

 

pollini di Nocciolo (nel cuore del basso Salento nei Paduli un tempo coltivato come rivelano vetuste vive ceppaie), Carpino bianco (Carpinus betulus, segnalato anche nel cuore del basso Salento nei primi dell’ ‘800 nella Foresta Belvedere dal Marinosci),

Bosso, Castagno, Corniolo, Faggio, Fraxinus excelsior, Fraxinus angustifolia, Luppolo, Tasso (ergo Taxus baccata), Ostrya/carp or. type, Nuphar (con tutta probabilità Nuphar lutea, il Nannufero o Ninfea gialla detto, unica specie del genere Nuphar vivente ancora in Italia e anche in sud Italia e che il botanico ottocentesco Martino Marinosci cita nella sua opera sulla flora di Terra d’Otranto insieme alla Ninfea bianca senza specificare delle zone particolari in cui le aveva viste),

 

 

Nymphaea alba, Juniperus, Linaria, ecc.

 

Cresce in provincia di Lecce la Linaria reflexa dai fiopri profumatissimi, detta “passeriddhi” o “carabinieri” localmente, soprattutto la si ritrova oggi sul versante occidentale della provincia di Lecce, io l’ho osservata a Sant’Isidoro e a Torre Squillace in feudo di Nardò .

 

In epoca romana anche Cedrus, e due son le specie di Cedro nel Mediterraneo: Cedro dell’ Atlante e Cedro del Libano. Lotus attestato lì in epoca medioevale.

Tante di queste piante erano segnalate nell’ ‘800 nella flora della Terra d’ Otranto come il Luppolo,

(il Luppolo selvatico date le sue esigenze probabilmente lungo gli argini dei canali in Terra d’Otranto)

il Nannufero, la Ninfea bianca (agli Alimini), il Fraxinus excelsior (nel Bosco Belvedere), il Tasso. Ancora vi cresce in Terra d’ Otranto il Castagno (sulla Murgia dei Trulli e nelle aree centrali del basso Salento), e negli scavi di villaggi medioevali è emersa la presenza del Corniolo nel Bosco di Belvedere in quei secoli.

Il Marinosci segnalava anche in Terra d’Otranto la Frangola “Rhamnus frangula o Putine [suo nome comune] (…) nei siti umidi presso Otranto”,

 

 

la grande Felce florida Osmunda regalis, sempre dal testo ottocentesco “Flora Salentina” del botanico e medico Martino Marinosci: “Osmunda regalis”: (…) ne’ siti acquosi, presso Otranto e altrove.”

 

ecc.

Cresceva anche nel Salento la Colutea arborea (che oggi vediamo vegetare in Lucania, io l’ho incontrata nei pressi della Murgia di Sant’Oronzo in provincia di Potenza)

 

 

e la Fusaggine (che già ritroviamo sulle Murge).

Estraggo da “Flora of Salento (Apulia, Southeastern Italy): an annotated checklist” dei botanici C. Mele, P. Medagli, R. Accogli, L. Beccarisi, A. Albano & S. Marchiori, del 2006:

Da “Flora of Salento (Apulia, Southeastern Italy): an annotated checklist” di C. Mele, P. Medagli, R. Accogli, L. Beccarisi, A. Albano & S. Marchiori, del 2006, in merito ad alcune specie presunte estinte in Salento.

 

 

Alcuni botanici contemporanei hanno espresso dubbi sull’osservazione da parte del Groves di Aristolochia altissima (sinonimo A. sempervirens) in Salento, che il Groves segnalò a Gallipoli per maggiore precisione, e hanno pertanto proposto un’altra specie locale, il Cynanchum acutum che oggi a Gallipoli troviamo ad esempio nella macchie retrodunali in zona foce del Canale dei Samari, ipotizzando un suo errore di identificazione; c’è comunque da osservare che il Groves conosceva anche bene la specie Cynanchum acutum, per la quale scrisse che era presente abbondante nelle macchie paludose della costa di Taranto. Osserviamo qui anche che la specie a distribuzione mediterranea A. altissima si ritrova nel nostro tempo per l’Italia in Sicilia come spontanea, ma anche in Campania, in Sardegna, Toscana e Liguria dove la si ritiene naturalizzata. Anche a Maglie (Lecce) cresce comunque A. sempervirens che è sinonimo proprio di Aristolochia altissima.

Dall’esemplare che ho osservato a Maglie nella periferia sud-orientale in contrada Franite-Cciancole:

 

 

Un’altra specie di Aristolochia spontanea nel Salento Aristolochia rotunda:

 

 

Ma vediamo ora uno studio di archeologia volto alla ricostruzione paleoambientale per un sito continentale del Salento di epoca messapica: Oria, a partire dagli scavi nel santuario greco-messapico in grotta di Monte PapaLucio, tra epoca arcaica ed età ellenistica, un santuario ipotizzato dedicato a Demetra e Persefone (Kore),
vedi al link: http://www.academia.edu/5469408/Paleoambiente_e_aspetti_rituali_in_un_insediamento_archeologico_tra_fase_arcaica_ed_ellenistica_nuove_analisi_archeobotaniche_ad_Oria_Papalucio_BR_

Non solo vi leggiamo del ritrovamenti di resti di semi di Melograno (Punica granatum) e mediterranea Palma da dattero (Phoenix dactylifera), resti attestanti la presenza di Euonymus europaeus (la Fusaggine o Berretta del prete detta) in epoca messapica, Malus (Melo), Olivo e Vite, e di legni per combustioni di Faggio,

[e melo selvatico e vite selvatica son descritti insieme a marruca, sorbo e nespolo selvatico (Mespilus germanica), pini e in particolare pini ad ombrello, tra le specie selvatiche che nei secoli passati si trovavano nel Bosco Belvedere; la Fusaggine l’ ho vista anni fa tra Ostuni e Cisternino, e giorni fa tra Cisternino e Ceglie messapica, e la cita lo studioso ottocentesco Cosimo De Giorgi per la flora del Salento, vedi di seguito],

vi leggiamo anche un accenno al ritrovamento di pollini di Faggio, in carotaggi effettuati nei fanghi dei Laghi Alimini ad Otranto attestanti la presenza del Faggio in epoca olocenica ancora nel basso Salento.

Sila, ottobre-novembre 2010, forse proprio un Faggio qui in primo piano; specie di cui varie fonti attestano la presenza nei secoli passati olocenici in Salento.

 

Anche un più attento studio toponomastico sarebbe opportuno alla ricerca di possibili fitonimi in toponimi riconducibili a specie oggi scomparse. In feudo di Supersano una voragine carsica è chiamata ad esempio Vora del Fau, e una dolina carsica in agro di Maglie è chiamata Fauli. Quale l’etimologia? Son luoghi carsici in cui viene fagocitata l’acqua dalla terra, e anche il nome del Faggio, Fagus in latino, pare derivare da una stessa radice comune al verbo fagocitare dato che le sue appunto dette fagiole erano commestibili. Difficile per cui dire se trattasi di toponimi idronimici o fitonimici legati a piante viventi un tempo in quei luoghi idrogeologicamente più ricchi di acque e più freschi. I frutti del Faggio, le faggiole, sono infatti commestibili per l’uomo a patto di rimuovere la parte esterna del frutto, il pericarpo, che non è invece commestibile. In autunno possono essere cucinati come caldarroste oppure, una volta tostati, è possibile utilizzarli per ricavare un succedaneo del caffè, dalle simili proprietà stimolanti.

Sono importante fonte di alimentazione per tanti animali anche.

Il termine “pascione” designa quelle annate in cui si verifica una produzione di semi particolarmente importante per una certa specie in una certa zona; ad esempio per querce o faggi, ecc. Il termine pascione è ispirato all’antica tradizione di far pascolare i maiali sotto le querce.

Interessanti in tutta questa esposizione sono gli studi a ricostruzione della flora dei secoli passati effettuati a partire dallo studio delle tracce conservate nei fanghi dei Laghi Alimini, e si tratta di uno studio che è opportuno reperire e approfondire maggiormente!

Cosa non c’era nel nostro appenninico-balcanico Bosco Belvedere nel cuore del basso Salento!
Persino la Dragontea (Dracunculus vulgaris), questa meraviglia cresceva ancora nell’Ottocento a Galatina, Neviano e Ruffano, ce ne parla il botanico Martino Marinosci dell’epoca, praticamente nel nostro basso Salento. Se il botanico Marinosci indagava la flora salentina soprattutto nella prima metà dell’ ‘800, il botanico Henry Groves lo fece nella seconda metà dell ‘800 e anche lui vide la Dragontea in Salento in particolare nella paludi di Otranto scrive e a Leucaspide.
Persino l’ Elleboro fetido (Helleborus foetidus, vedi scheda botanica linkata).
Ergo una pianta che non potrà mancare di essere riportata dall’Appennino nella ricostruzione naturalista di quell’antica nostra foresta!

 

Elleboro fetido. Foto URL da internet
 
Tipica delle faggete, e presente in Calabria è questa orchidea dal nome scientifico Epipactis helleborine, ma ancora sopravvissuta relitta in Salento, o neoarrivata e ben spontaneizzatasi, questa orchidea scoperta recentemente a Tricase in un arboreto scientifico-didattico di recente impianto dal naturalista salentino Roberto Gennaio, che qui dedica alla scoperta questo post che linko:

Nel Salento sitibondo e secco cè da godere ancora della fioritura tardiva x le nostre altitudini della Epipactis…

Gepostet von Roberto Gennaio am Mittwoch, 6. Juni 2018

Nell’ opera “Flora Salentina” di Martino Marinosci pubblicata postuma nel 1870, con la cura dello scienziato salentino Cosimo De Giorgi, leggiamo: «doviziosi di varie specie di querce, come quercus robur, pedunculata, ilex, prinos, pseudo-coccifera ed altre; di carpini neri carpinus ostrya, nonché di faggi, tassi, olmi, orni o l’albero della manna, ed il fraxinus excelsior, che in gran copia alligna nel bosco di Belvedere presso Supersano».
Oltre a Carpinus betulus il Marinosci elenca anche nella sua compilazione della flora di Terra d’Otranto il Carpino orientale, che oggi possiamo osservare ad esempio sulle pendici rocciose della Gravina di Laterza insieme alla Acero trilobo (Acer monspessulanum), aggiungiamo come sulla Murgia si segnala oggi anche la presenza dell’Acero campestre,
e ancora il Marinosci aggiunge come presente al suo tempo in Terra d’Otranto il Carpino nero (Ostrya vulgaris sinonimo di Ostrya carpinifolia) in particolare scrive nelle “gravine di Pianelle” nell’hinterland di Martina Franca, dove ancora si rinviene.
In merito al Carpino nero interessanti dati ci vengono dagli studi archeologici condotti nel territorio di Sava (Taranto) e di Supersano (Lecce).

Per approfondire la presenza in passato del Carpino nero nella Penisola Salentina, partiamo dallo studio archeologico raccolto in questo articolo:

in “Archeologia Medievale” XXXVI, 2009, pp. 259-271,
Lo studio indaga il misterioso monumento noto come Paretone presente in feudo di Sava (Taranto), lì relativamente al periodo Medioevale e all’Età Moderna è emersa l’attestazione di queste specie vegetali: olivo, erica, mirto, cisto, carpino nero (Ostrya carpinifolia), sambuco, leccio, pruni e pomi, salsapariglia (smilace), e il ramno. Estraiamo anche questo passo qui di seguito virgolettato: “L’erica, il mirto, la smilace e il ramno sono pirofite attive vegetative (cioè dopo gli incendi si rigenerano per polloni) e l’olivo una pirofita attiva generativa (cioè che dopo il fuoco si può rinnovare per seme)”
A che quota è il sito in cui è stato condotto lo studio archeobotanico? Quanto distante dal mare? Pianura o collina?
Il sito del Paretone è a 14 km circa dal mare, zona Pasano tra Sava e Lizzano.
Altitudine 100 mt sul livello del mare, pianura.
Peccato non si specifichi la specie di Sambuco, ma trattandosi di un sito non paludoso, come si comprende anche dalle altre specie emerse, direi che si tratta di Sambuco nero presente per esempio ancora oggi spontaneo nella Gravina di Laterza, mentre se il sito fosse stato palustre allora non si poteva escludere Sambuco ebbio, inoltre se i reperti studiati sono stati dei frammenti di legno carbonizzato (antracoresti), il Sambuco ebbio è pianta dal fusto annuale mentre il Sambuco nero può svilupparsi in alberello con fusto ben legnoso.
Allo stesso modo anche nel Bosco Belvedere nel cuore del basso Salento gli studi archeologici compiuti nel villaggio medioevale di località Scorpo in feudo di Supersano hanno scoperto la presenza del Carpino nero (Ostrya carpinifolia): riferimento bibliografico di Arthur Paul, Fiorentino G., Grasso A. M., Leo Imperiale M. (edd.) 2011, “La storia nel pozzo. Ambiente ed economia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto“, Lecce.
Vi leggiamo: “Nell’area circostante l’insediamento doveva esserci un querceto misto di caducifoglie e sempreverdi, in associazione con frassino (Fraxinus cfr, excelsior), carpino (Ostrya carpinifolia Scop.) e corniolo (Cornus mas L.) (…) a fondo valle. Nella stessa zona (…) compresenza di aree incolte tendenzialmente ancora più umide, come sembrano suggerire le attestazioni di pioppo o salice (…). Al contrario (…) sulla Serra [di Supersano] (…) erica (Erica cfr. arborea), il corbezzolo (Arbutus unedo L.), il mirto (Myrtus communis L.), il lentisco (Pistacia lentiscus L.), il ramno (Rhamnus sp.)”.
L’Erica documentata nello studio archeologico sopra citato pare sia l’Erica arborea che oggi troviamo ancora nella macchia retrodunale di Alimini-Frassanito a Otranto.
La felce Lingua cervina (Philitys scoloprendium o anche chiamata Asplenium scolopendrium) è tipica della ombrose umide faggete, ma la ritroviamo oggi presente anche nelle umide voragini di Barbarano nel Capo di Leuca; è stata fotografata anche in voragini di Supersano nel basso Salento area dei Paduli (in particolare proprio nella Vora del Fau, cui sopra abbiamo accennato per la sua etimologia, il 19 Ottobre 2014) dal ricercatore Filippo Leonardo Messina:
Qui lo studioso Gianfranco Mele ce la segnala a Sava (Taranto) nella Grotta Palombara/Grava (foto del 3 ottobre 2014).
Tipica del sottobosco delle faggete ombrose dell’Italia peninsulare appenniniche, in Terra d’Otranto trova un habitat rifugiale nelle voragini umide e ombrose in attesa del ritorno di una densa copertura forestale per tentare la ricolonizzazione anche di anfratti in ombra nel sottobosco!
L’ Agrifoglio (Ilex aquifolium), nota pianta degli addobbi natalizi in Europa ed Italia, con le sue bacche rosse e le sue foglie spinose sempreverdi e lucide, pianta oggi scomparsa in Salento, è un arbusto segnalato nell’Ottocento nell’area otrantina dal medico e botanico Martino Marinosci di Martina Franca.
L’ Agrifoglio, un arbusto da fare tornare nelle nostre contrade salentine con una saggia riforestazione. Tra le piante da reintrodurre e con cui si deve riarricchire la flora presente in Salento!
Nel primo volume del suo testo pubblicato postumo sulla flora del Salento, intitolato “Flora Salentina” nelle pagine 57 e 58 egli scrive:
 
Ilex aquifolium, Agrifoglio comune: (…) si rinviene presso Otranto in siti boschivi”
 
Agrifoglio quindi da far tornare in Salento nei siti boschivi.
Cresce oggi ad esempio ancora in Puglia sul Gargano nel sottobosco delle faggete della Foresta Umbra.
 
Urge acquistarne dai vivai di piante forestali italiani, esemplari maschili e femminili, la pianta è dioica, per una sua reintroduzione nelle aree a lei adatte del Salento!
 
Sarebbe un bel meritorio impegno da parte degli enti pubblici preposti, anziché inseguire nefasti paradigmi di razzismo verde che oggi impestano certa discutibile gestione del verde, dove pifferai del biocidio quasi indiscriminato invitano a opere da sovvenzionare pubblicamente di cancellazione-estinzione locale di specie esotiche naturalizzatesi da tempo e che non fanno alcun male e son parte della nostra ricchezza di paesaggio e biodiveristà comunque e che han trovato una loro nicchia di sopravvivenza,
mentre da favorire e finanziare son le reintroduzione di ciò che l’ uomo ha cancellato dal nostra territorio, esempio qui l’ autoctono Agrifoglio, ricostruendone anche habitat boschivi adeguati se non più presenti!
Già tanto se anche privati ne piantano da noi nei loro giardini in angoli adatti alle sue esigenze, dai semi liberati e trasportati anche dagli uccelli che se ne nutrono e li diffondono, già potremmo sperare così in una semi-naturale ridiffusione in Natura in Terra d’ Otranto dell’ Agrifoglio comune!
 
L’ areale odierno di distribuzione con la presenza dell’ Agrifoglio a nord sul Gargano, in Appennino sin in Calabria ad Occidente, e poi ad Oriente, dalla cartina qui mostrata parrebbe anche in Albania, a Corfù ed in Epiro (Grecia nord occidentale), con il Salento di fatto al centro di questo areale sempre più frammentato, anche nel caso di questa pianta oggi scomparsa dal Salento per la forte antropizzazione, ma di cui ancora si aveva presenza documentata dai botanici nell’ ‘800, ci fa ulteriormente comprendere che non ci si deve meraviglia che essa facesse parte del sottobosco delle foreste salentine! A impressionarci deve essere l’ opera di devastazione della biodiversità locale in pochi decenni ad opera dell’ uomo, cui oggi siamo chiamati a rimediare per il nostro bene e piacere!
 
 

 

Tornando alla studio al link al link: http://www.academia.edu/5469408/Paleoambiente_e_aspetti_rituali_in_un_insediamento_archeologico_tra_fase_arcaica_ed_ellenistica_nuove_analisi_archeobotaniche_ad_Oria_Papalucio_BR_, esso rivela persino il ritrovamento di legno usato come combustibile, al tempo dei Messapi nel santuario di Oria,
di Pinus del tipo sylvestris/montana e si riporta in merito questa nota:
“Ricordiamo che con questa denominazione si comprendono diverse specie di pino, tra cui Pinus nigra; l’attribuzione ad altri pini (Pinus sylvestris in particolare) dei frammenti di Oria sembra poco probabile in questo periodo dell’ Olocene; per una storia del genere nella regione a partire dal Tardiglaciale”.

Sila, ottobre-novembre 2010, Pini. Foto di Oreste Caroppo.

 

A pagina 204 del secondo volume della sua opera postuma “La Flora salentina” il botanico Martino Marinosci di Martina tratta di numerose specie di pino, cita la domestica (pino ad ombrello), la d’Aleppo, la “maritima”, e poi cita innumerevoli altre specie pini e abeti (bianchi e rossi) e larici che ritroviamo oggi nelle aree montane italiane,
vedi al link: https://books.google.it/books?id=YHVDJPtF-psC&printsec=frontcover&dq=marinosci+flora+salentina&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjrvejI44LXAhVD0RQKHVHKDxoQ6AEIJzAA#v=onepage&q=marinosci%20flora%20salentina&f=false

 

Riportiamo il passo dal suo libro perché sia il lettore anche a farsi un’idea di questa trattazione e cercare di capire quali di quelle specie indica come presenti in Terra d’Otranto al suo tempo e quali accenna solo per confronti.

 

Trattazione sul genere Pinus del botanico Martino Marinosci in “La Flora salentina” pagg. 204 e 205 del volume II. Nell’elenco numerato delle specie troviamo ben indicato l’Abies pectinata, l’Abete bianco.

 

Trattazione sul genere Pinus del botanico Martino Marinosci in “La Flora salentina” pagg. 205 e 206 del volume II.

 

Il Marinosci, come possiamo leggere sopra, scrive di una specie che identifica come:

<<Pinus sylvestris, Pino selvaggio: Albero che si eleva dritto e semplice, quando cresce ne’ boschi; foglie gemelle rigide; piegate a doccia, di color verdemare; strobili ovati a cono con squame ottuse grigie, e turbercoli anco ottusi. Col seguente (Pinus halepensis – Pino d’Aleppo) e coi P. cembra e maritima o sappini in Massafra.>>

Che con tale “Pino selvaggio” che si eleva dritto indichi proprio il Pinus nigra la cui presenza in secoli precedenti pare indicata dalla archeologia per la zona di Oria?

Il più grande Pino nero (Pinus nigra) presente a MaglieCortili interni del complesso dell' isolato delle case popolari…

Gepostet von Oreste Caroppo am Sonntag, 3. November 2019

 

E il Pinus cembra da lui citato come presente a Massafra? C’è ancora qualcosa di sopravvissuto in zona?

Il botanico ottocentesco Martino Marinosci citò poi nella sua opera, “La Flora salentina”, anche una specie che chiama:

<<Pinus pumilio, Pino nano? Foglie gemine, ascendenti tronche, strobili ovati eretti – Assai raro; visto presso Gallipoli piantato.>>

Potrebbe trattarsi del Pino mugo che cresce ancora oggi spontaneo in alcune zone degli Appennini (Monte Cusna, Monte Falterona, Monte Nero Piacentino, Majella, Parco Nazionale d’Abruzzo). Tanto che esiste oggi una varietà commerciale a portamento ancor più basso del Pino mugo detta Pinus mugo vaerietà pumila.

Un esemplare di Pino mugo l’ho osservato coltivato a Poggiardo:

Che specie di Pino? Proprio parrebbe il Pino mugo!Poggiardo, villetta di fronte all'ingresso del museo degli affreschi…

Gepostet von Oreste Caroppo am Freitag, 1. November 2019

 

Il misterioso “Larice” che cresceva in Terra d’Otranto

Nell’opera dello scienziato Cosimo De Giorgi pubblicata nel 1884 intitolata “Cenni di Geografia fisica della Provincia di Lecce” (Provincia che all’epoca andava dai territori di Laterza e Martina Franca fino a Leuca includendo Brindisi e Taranto, grossomodo quella che fu la Terra d’Otranto che in più aveva inglobato anche Matera in passato) troviamo questo passo nel quale egli parla della ormai prossima scomparsa nella provincia di Lecce oltre che delle Sughere anche dei “Larici”. Per le Sughere possiamo ben dire oggi che non si sono estinte, ma questi “Larici”?

 

Dello scienziato Cosimo De Giorgi “Cenni di Geografia fisica della Provincia di Lecce” 1884 frontespizio.

 

Passo sul “Larice” dello scienziato Cosimo De Giorgi in “Cenni di Geografia fisica della Provincia di Lecce” 1884. Interessante anche il suo accenno ad un enorme albero di Pino ad ombrello monumentale che svettava al tempo sulla Serra del Cianci.
Davvero c’erano, ancora nell’Ottocento, Larici in Salento?
Il botanico ottocentesco Martino Marinosci di Martina, che Cosimo De Giorgi ben conosceva, nella sua opera “La Flora salentina” (curata proprio nell’edizione postuma da Cosimo De Giorgi), parlando dei Pini in Terra d’Otranto, come sopra abbiamo riportato, accenna al Larix, il Larice propriamente detto (Larix europea che corrisponde al Larice comune Larix decidua), ma poi si concentra su un “Pinus larix“.
Con Pinus larix il Marinosci intende il Larice propriamente detto (Larix decidua) che ritroviamo in Italia oggi solo in zona alpina e che è una conifera decidua o si riferisce al Pino nero Silano, una sottospecie del Pino nero detta Pinus nigra ssp. laricio var. calabrica, una conifera sempreverde che ritroviamo oggi in Calabria soprattutto in Sila e da cui incidendo il tronco si ricava una trementina esattamente come anche si fa dal Larice alpino (Larix decidua)?

Per Linneo “Pinus larix L., 1753” è sempre il Larice europeo alpino (Larix decidua) e non il Pino nero laricio (Pinus nigra laricio (Poir.) Maire). Il nome “Pinus larix” usato dal Marinosci invece a quale conifera corrisponde?

La questione resta pertanto aperta e suggestiva. Per il “Pinus larix” il Marinosci dice che da esso si ricava la “trementina detta di Venezia, e laricea” ma ben sappiamo che la “Trementina di Venezia” si estrae proprio dal Larice comune europeo! Inoltre il legno di Larice presenta un colore rossastro caldo con venature scure o giallo chiaro, il colore bruno rossastro del durame diventa più scuro con la stagionatura. Il Marinosci ci dice proprio che “il Pinus larix dà bel legno rosso duro”! Però apprendiamo che anche nel cuore dei vecchi Pini neri, soprattutto nella parte basale dei fusti ed in modo particolare in quelli sottoposti alla pratica della resinazione, si forma un legno dal colore rosso aranciato (vedi questo documentario “Resinazione del Pino nero” nel Friuli-Venezia Giulia, stesso tipo di raccolta veniva fatta sui Pini neri silani in Calabria). Ci chiediamo: il termine “Trementina di Venezia, e laricea” era usato anche per la trementina ricavata dal Pino nero dai botanici del sud Italia ottocenteschi?

C’erano oltre ad Abeti bianchi (“Abies pectinata” pure citato dal Marinosci nel suo elenco della flora salentina, nonché presente nel novero degli alberi dell’Orto Botanico ottocentesco di Lecce) nell’Ottocento persino dei Larici o dei Pini neri nel Grande Salento (inteso come insieme delle attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto) residui dell’Ultima Glaciazione e/o di antiche coltivazioni forestali?

La presenza di questi alberi montani non sarebbe comunque in conflitto, anzi, con alcuni aspetti botanici che nell’ ‘800 leggiamo in Marinosci, ad esempio la presenza del Carpino bianco (Carpinus betulus) nel Bosco Belvedere nel cuore del basso Salento, o del Faggio nelle zone di Terra d’Otranto più prossime alla Lucania, o del Tasso (Taxus baccata) che egli rinvenne nei pressi di “San Basile” (che dovrebbe corrispondere a San Basilio frazione di Mottola sulla Murgia tarantina, a metà strada tra Mottola e Gioia del Colle). Si aggiunga il ritrovamento ancora oggi in zone interne del basso Salento e sulle Murge del Nord del Grande Salento di vetusti alberi di Castagno.

Ma vediamo cosa scrive già precedentemente il botanico napoletano Michele Tenore (1780 – 1861) nel suo “Trattato di fitognosia: De’ metodi botanici; dell’ adombramento delle peregrinazioni botaniche; della storia botanica, dizionari botanici, bibliografico, ed etimologico” gennaio 1810, nella Stamperia Orsiniana.
Dal botanico napoletano Michele Tenore (1780 – 1861) su una specie che chiama Pinus larix nel suo “Trattato di fitognosia: De’metodi botanici; dell’ adombramento delle peregrinazioni botaniche; della storia botanica, dizionari botanici, bibliografico, ed etimologico” gen 1810, nella Stamperia Orsiniana.
Egli scrive: “Il Larice (Pinus larix cl. monoecia). Albero che nasce ne’ boschi montuosi della Puglia e delle Calabrie; dalle incisioni praticate nel tronco gronda un sugo resinoso che è la trementina di Venezia, che dovrebbe dirsi laricina perché non è esclusiva di questo paese”. Non dà informazioni sul colore del legno come invece farà poi il Marinosci (la sensazione è che comunque il Marinosci abbia attinto in parte dal Tenore per i dati sul “Pinus larix”). Anche qui siamo incerti, è un riferimento al Larice alpino o al Pino nero laricio silano?
Quindi è un riferimento al Larice da parte del De Giorgi o al Pino nero laricio che oggi troviamo in Sila?
Nel caso si stia parlando di una varietà del Pino nero (Pinus nigra) questo sarebbe comunque coerente con quanto emerso dall’archeobotanica per il territorio salentino che parla della presenza di legno di Pino nero presso i Messapi di Oria come da analisi antracologiche di una tomba del Paleolitico superiore nella zona di Ostuni.
Continuando le ricerche sul misterioso “Larice” del De Giorgi trovo che alcuni esemplari di Larix decidua sono presenti nella Foresta Umbra sul Gargano.
Il forestale Alberto Hofmann (1908 – 1988) ”La Faggeta depressa del Gargano”.
Il forestale Alberto Hofmann (1908 – 1988) ”La Faggeta depressa del Gargano”, Larix decidua sul Gargano.
Troviamo anche che dei Larici (Larix decidua) sono presenti anche in Calabria (in Sila e nella Catena Costiera) e vengono considerati frutto di coltivazioni.
Il Larix decidua nella regione Calabria nei nostri giorni, primi anni dopo il 2000.
Ma a questo punto ci chiediamo: siamo certi siano stati tutti piantati recentemente questi Larix decidua sul Gargano e in Calabria o non si tratta anche in parte di relitti?

 

Tutti questi dati e riflessioni che invitano ad osare di più negli interventi di rinaturalizzazione del Salento in aree opportune non disdegnando anche l’introduzione/reintroduzione di alberi che oggi riteniamo più di montagna. Così nel Gargano speciali condizioni hanno fatto conservare a quote minori nella integra Foresta Umbra alberi di specie che oggi ritroviamo nel sud e centro Italia a quote generalmente maggiori.

 

Oltre al Ginepro rosso (Iuniperus oxycedrus) di cui è detto Ginepro coccolone la varietà macrocarpa dalle bacche più grosse, e il I. phoenicea, il Marinosci a pag 221 cita anche il Ginepro comune (Iuniperus communis) che vede crescere presso il mare del Salento.
Allo stesso modo il botanico inglese Henry Groves nella sua “Flora della costa meridionale della Terra d’Otranto” (edita nel 1887), qui splendidamente consultabile, segnala la presenza del Ginepro comune (Juniperus communis) nei pressi di Gallipoli e Otranto, oltre ad altre specie di Ginepro che incontra: Juniperus phoenicea, Juniperus oxycedrus, Juniperus macrocarpa. Il Marinosci vi segnalava anche Iuniperus sabina. Il Marinosci quindi cita anche il Ginepro sabino (Juniperus sabina) che in questa scheda botanica è segnalato ancora nella vicina Lucania mentre in Salento oggi è assente.
Il botanico contemporaneo Piero Medagli ci fa sapere che “Juniperus communis oggi non è più presente in Puglia, neppure sul Gargano dove vi era una antica segnalazione”. Le stazioni più vicine di Ginepro comune quindi sono in Lucania oggi. Quanta biodiversità abbiamo perso in poco tempo! Occorre provvedere urgentemente alle reintroduzioni dai siti prossimi in cui le specie scomparse in Salento ancora sopravviviono.

Lo studioso Cosimo De Giorgi, il maggiore scienziato naturalista salentino dell’ottocento, visitando Supersano, così scrive: «E verso l’orizzonte a sinistra si profilano gli ombrelli dei pini d’Italia, che sollevan le loro chiome pittoresche sulla bruna massa delle querce di Belvedere», i Pini d’ Italia son i Pinus pinea, pino ad ombrello da pinoli commestibili.
Nei suoi “Bozzetti di viaggio”, descrive all’ingresso del comune di Supersano una maestosa Quercia peduncolata e ancora descrivendo i boschi del circondario di Lecce riporta che la superficie del bosco era al 1817 di ancora 600 ettari e che: “Predominante è la Q. ilex: indi le altre varietà della Q. robur, Q. peduncolata, Q. pubescens, e qualche albero della Q. aegylops o Vallonea…”. Nello stesso testo fa riferimento allo strato arbustivo in cui “predominano la Phillyrea, l’Arbutus, i Prunus e i Mespilus spontanei, il Pyrus e l’Olea allo stato selvaggio, accanto ai Celtis, all’Evonymus, e alla Pistacia lentiscus”. In altri scritti riferisce che all’interno di boschi del Salento si trovano ancora viburno, il paliuro, il ciclame, i crateghi, le rose, la pteris e molti funghi.

Gli studi sui resti vegetali pleistocenici di Grotta Romanelli a Castro in provincia di Lecce, (http://www.artepreistorica.com/2009/12/considerazioni-su-alcuni-aspetti-zoo-antropologici-legati-all’arte-di-grotta-romanelli/), mostrano presenza dei generi Juniperus (Ginepro), Populus (Pioppo), Faxinus (Frassino), e pini genericamente riconducibili al gruppo Pinus pinea (gruppo in cui si annoverano Pinus pinea, Pinus pynaster, Pinus halepensis – tre specie oggi presenti in Calabria come in Salento, quali che siano stati i contributi alla loro attuale arricchente presenza!). Per la documentazione dei resti di pini da Grotta Romanelli per il Pleistocene lo studio è quello di Follieri del 1968.

Consideriamo qui gli studi archeobotanici sui resti ritrovati in un altare ellenistico (IV-III sec. a.C.) nell’area sacra di fondo Capanne a Castro di Minerva in provincia di Lecce. Lì son emersi resti di pinoli che immagino siano di Pinus pinea, ciò a smentire chi ritiene questa specie di recentissima introduzione nel territorio salentino. Segnaliamo lì anche il ritrovamento di resti di melagrane, fichi, uva e olive, farro, segale, avena, orzo, grano tenero/duro, grani nudi, orzo vestito (dati dal testo “Athenaion: Tarantini, Messapi e altri nel santuario di Atena a Castro” di Francesco D’Andria, Eva Degl’Innocenti, Maria Piera Caggia, Tommaso Ismaelli, Lorenzo Mancini, edito da Edipuglia, 2023).

Tra gli elementi che trovo interessanti, oltre alla attestazione dell’uso e quindi immagino coltivazione della Segale, la possibile attestazione di una coltivazione già al tempo dei Melograni in Salento e poi, cosa che mi interessa particolarmente, la possibile attestazione della presenza dei Pini domestici ad ombrello da pinoli (Pinus pinea).

Gli studi sui resti vegetali del Paleolitico superiore per l’area di Ostuni, vedi lo studio dal titolo “L’analisi antracologica della sepoltura Ostuni 1 di S. Maria di Agnano: considerazioni paleoambientali e paletnologiche“, mostrano presenza di una prevalenza di conifere (variamente attribuite a Pinus tipo pineahalepensis, Juniperus Pinus tipo sylvestrisnigra) mentre il resto dei materiali è rappresentato da essenze tipiche di un ambiente più mesofilo (querce caducifoglie unitamente a prunoide – Prunus cfr. amygdalus pomoidee, rosacee) con rari elementi più caratteristici di un ambiente termofilo (Rhamnus/Phllyrea e Pistacia); vi compare anche Viscum.

Questo ultimo studio intersecato con gli studi per il periodo messapico inerenti l’area di Oria corrobora una presenza di pini neri in area murgiana nel Paleolitico superiore come nell’Età del ferro. Di conseguenza il ritrovamento di resti di legno di pino nero di epoca messapica a Oria potrebbe non essere conseguenza di commercio di legname importato da lunga distanza ma frutto di approvvigionamento locale di legname nelle vicine foreste. 

Interessante la presenza di Vischio, genere Viscum, probabilmente pertanto il Vischio bianco (Viscum album) ancor oggi presente nel sud Italia. Nello studio condotto ad Ostuni resti di vischio sono stati documentati in una sepoltura di donna incinta in avanzato stato di gravidanza all’altezza del bacino, forse allora una sua deposizione simbolica che ci ricorda l’alta valenza magica attribuita in Età del ferro dai Druidi i sacerdoti dei Celti a questa pianta.

Vischio bianco (Viscum album)

Due sono le specie di vischio che vivono in Sud Italia il Vischio bianco (Viscum album), che ha bacche bianche, e il Vischio quercino (Loranthus europaeus), che ha bacche gialle, entrambi sono inclusi nel suo libro “La Flora salentina” tra le specie elencate dal botanico ottocentesco Martino Marinosci di Martina Franca. Occorre ridiffonderli in Salento!

Pare che si ritrovi ancora in area murgiana del vischio; scrive il botanico contemporaneo salentino professore Piero Medagli “Non ci sono segnalazioni per il Salento oggi. Sulla Murgia si rinviene parassita anche su alberelli di perazzo.”.
Il Vischio bianco è impiegato nei decori natalizi e dalle sue bacche si ricava una colla appunto detta vischiosa usata tradizionalmente per catturare gli uccelli.

Ora, se teniamo conto di quante delle specie qui citate son ancora attestate nella macro-area salentina nel medioevo (vedi gli studi paleoambientali a partire dallo scavo archeologico del villaggio medioevale di località “Scorpo” a Supersano), dagli scritti degli studiosi dell’ ‘800 e non solo (per il Salento e per la Puglia tutta), da ritrovamenti botanici recenti di specie relitte e particolari varietà ed ibridi, nonché più in generale di specie comunque ben viventi oggi in Salento e che vi paion ben adattate, se si aggiungono i dati emersi dagli studi paleobotanici di Grotta Romanelli per il Pleistocene e da Ostuni per il Paleolitico superiore,

Sila, ottobre-novembre 2010. Pini e in primo piano una quercia Cerro, (Quercus cerris), anche citata dal botanico Martino Marinosci nell’ ‘800 nella sua opera “Flora salentina” tra le querce.  Pinete ricchissime di fragoline di bosco nel sottobosco. Foto di Oreste Caroppo.

 

tutto ciò ci dà una ulteriore conferma di come guardare alle aree prossime al Salento ancora più intatte botanicamente, tanto ad Occidente quanto ad Oriente: sia come vedere fotografie e trovarvi preziose arche di Noè delle specie che qui in Terra d’ Otranto la eccessiva antropizzazione ha scacciato via e cancellato!

Sila, ottobre-novembre 2010, paradiso dei funghiaioli, non lontano dal borgo di Camigliatello Silano. Foto di Oreste Caroppo. Foto scattate durante un’ escursione naturalistica in Sila alla riscoperta delle suggestioni naturalistiche e della biodiversità che connotava e in parte ancora connota il nostro Sud Italia, ponendo le basi per la Rinascita della Foresta di Belvedere di Supersano e del cuore del basso Salento.

 

Era inevitabile che fosse così data la geografia e la storia geologica, ma tanto estesa la compromissione della biodiversità in Salento oggi che di fronte ad ambienti più integri e ricchi a poche centinaia di chilometri dal Salento neanche ci sovviene il dubbio che prima fosse identico e persino più ricco di biodiversità il territorio salentino …

Ergo ora: NATURALIZZAZIONE!
E senza le assurde pastoie psicologiche al pensiero che specie che vivono altrove in sud e centro Italia siano da considerarsi alloctone in Salento!
Non è un caso se ancora oggi procedendo verso l’ interno del Salento si osservano ben vivere anche piante di climi più freschi, come gli Abeti, i Cedri, ecc., e proprio i Pini neri piantati in aiuole, parchi e giardini di Maglie, Calimera, Martano, ecc.

A Maglie (Lecce) Pini neri sono presente piantati anche a Rione Pini-Contrada Palicella, (luogo ricco di conifere di varie specie, sempre meno nel tempo a causa dei tagli), nelle umide ombrose aiuole nel complesso in pietra leccese delle case popolari di zona Ospedale, nella zona 167, e nei pressi della nuova Caserma dei Carabinieri e nuova area mercatale.

 

(Testi tratti dal mio post facebook del 22 ottobre 2017, e dai mie commenti ad esso, al link: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10214712913646535&set=a.1888805429917&type=3&permPage=1)

 

Approfondiamo sul Pino nero (Pinus nigra): “Il Pino nero (è un albero presente esclusivamente nelle regioni montuose mediterranee. Il suo areale è estremamente frammentato in quanto si tratta di una specie relitta pioniera.” https://it.wikipedia.org/wiki/Pinus_nigra

Vasta è la discussione sulle sue sottospecie. Se dovessimo piantarne nell’ entroterra salentino il criterio più saggio e piantarne della varietà attestata nel sud Italia, ed essa è il Pinus nigra var. laricio, presente anche in Sila: https://it.wikipedia.org/wiki/Pinus_nigra_laricio

Dal libro di
PRATESI Fulco e TASSI Franco
“Guida alla natura della Puglia, Basilicata e Calabria”, dove si dedica ampio spazio ai Pini presenti in queste regioni, complessivamente parliamo del Pino loricato, del Pino d’ Aleppo, del Pinus brutia, del Pino marittimo e Pino domestico, del Pino nero e del Pino nero laricio,
per la Calabria si parla dunque della presenza sia di un Pino nero dalle caratteristiche più nordiche, sia del Pino laricio, che leggiamo oggi in rete essere una sottospecie del Pino nero, il Pino nero laricio, e che è l’albero caratteristico della Sila che vediamo svettante in tante delle foto mostrate in questo post.

Sul Pino nero calabro (Pinus nigra calabrica): https://www.lifegate.it/persone/news/giganti-fallistro-alberi-monumentali?fbclid=IwAR0NKY9p6NLc44WnTDdpyitdCdF4RT4KgKO_xSimEuz2771-4r2D4CCDqAw 

In Puglia nelle aree interne ideale piantarne di nuovo dei Pini neri a partire da quelli delle regioni vicine delle varie varietà oggi viventi. Ed ora quando andiam in Sila o altre zone basta tornare con delle pigne piene apribili vicino al fuoco immagino da cui ricavarne i semi.

Quando nel cuore del Salento nel bosco Belvedere e di Oria in tempi antichi vi erano anche i faggi relitti dall’ ultima glaciazione tra le loro foglie si muovevano le salamandre del sud Italia con tutta probabilità!

URL a questo bel post con scorci della foresta di faggi e cerri fra M. Castelluzzo e M. Condrò in provincia di Catanzaro in Calabria:

DI QUANDO MAURITS CORNELIS ESCHER FUGGI’ DAL MUSEO E VENNE A CERCARE LE SALAMANDRE NELLA FORESTA STILLANTE DI…

Gepostet von Francesco Bevilacqua am Dienstag, 27. November 2018

 

Queste faggete di quei monti son anche nel territori comune di Platania chiamato, e non sarà forse un caso che in provincia di Catanzaro sopravvivono anche i Platani orientali (Platanus orientalis) del sud Italia, il più famoso dei quali lì in provincia di Catanzaro è il Platanus orientalis di Cuninga:

Platanus orientalis monumentale di Curinga in provincia di Catanzaro

 

Virgilio descrive i Platani alla sua epoca lungo i fiumi di Taranto, e così alle Tremiti li dicono presenti al loro tempo questi Platani Plinio il Vecchio e prima ancora Teofrasto. Una essenza forestale igrofila che deve essere diffusa/ridiffusa nelle zone umide di Terra d’Otranto presenti e da ricostruire con ingegneria naturalistica, dato anche che il Salento cade nell’area di diffusione di questa specie che include Sicilia, Calabria, Campania, Illiria-Albania, Corfù, la Grecia continentale e sue isole, la Macedonia, Creta, Rodi, l’Anatolia, ecc.

 

Per ulteriori approfondimenti: (guardate come il caso ha voluto che il simbolo civico di Supersano fosse simile ad un bosco di Abeti o di Pini neri larici quali quelli nella foto di questo post in cui stiamo commentando):

L’ABETE BIANCO NEL CUORE DEL SALENTO?!Un enigma celato tra le pagine scritte da un dottore forestale del secolo…

Gepostet von Oreste Caroppo am Samstag, 22. Dezember 2012

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Riporto questo bel brano, segnalatomi da Luigina Marino, dello studioso salentino di Parabita

Aldo de Bernart

dal titolo

TORREPADULI SCOMPARSA

Il casale di Torrepaduli era lambito dal famoso Bosco Belvedere, la cui descrizione mette conto leggere, per atto d’omaggio, nelle pagine del ruffanese Raffaele Marti: “… foresta che occupava una superficie pianeggiante di oltre kmq.32 d’area (…). A Ovest, venendo da Lecce veniva fiancheggiata dalla Serra di Coelimanna, che lascia ai piedi Supersano e Ruffano, e a Sud dalle collinette di Specchia e Miggiano, alture dalle quali riceveva l’acqua alluvionale, che, raccolta in superficiali rivi, sboccava in ramificati canaloni, spesso fiancheggiati dal rovo, dal frassino, dalla vitalba, dalla marrucca, dalla brionia, rampicanti, volventi che, in alcuni tratti, maritandosi, intrecciandosi, anastomandosi, formavano come una semicircolare lunghissima tettoia; canali che immettevano in un minuscolo laghetto, delizia di svariati pennuti, albergo di scodati e caudati batraci, di luscegnole, d’orbettini, e spesso di biscie acquatiche d’enormi proporzioni. Ma non erano le sole foltissime intricate macchie, e gli alti alberi boschivi i rappresentanti della fitta flora, chè di tratto in tratto s’incontrava il prugnolo, il corbezzolo, il melo, il pero, l’apuzia, la selvaggia vite, il sorbo, il nespolo, piante che, sebbene non coltivate, formavano la delizia della selvaggina, e talvolta anche dell’uomo. Come ricca e svariata era la flora, non meno n’era la fauna, e specie la selvaggina; era il preferito asilo di volpi, di lepri, di conigli, di tassi, d’istrici, di ricci, di faine, di martore, di puzzole, e non mancavano i voraci lupi e i cinghiali, di cui l’ultimo fu ucciso nel 1864, anno in cui il bosco era ridotto quasi a metà. Era il preferito soggiorno di pennuti nostrani ed emigranti: uccelli di ripa longipenni, palmipedi, trampolieri, e non poche volte s’incontravano la cicogna ed anche il pellicano (…).”

R.Marti, L’estremo Salento, Lecce 1931

Tratto da :
Aldo de Bernart, Mario Cazzato, Ermanno Inguscio, “Nelle Terre di Maria
d’Enghien, Torrepaduli e San Rocco”, Congedo Editore 1995

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Il brano superiore è in parte sinottico con questo degli anni ’80 del ‘900,  sempre del professor Aldo De Bernart, sul Bosco Belvedere a Supersano e i suoi laghi:

Un articolo degli anni ’80 del ‘900, del professor Aldo De Bernart sul Bosco Belvedere a Supersano, la sua flora e fauna e i suoi laghi.

 

Note storiche e ambientali sulla meravigliosa, ricchissima in biodiversità, Foresta Belvedere e sul suo pescoso Lago Sombrino, frequentato da pellicani, cigni, cicogne (questi ancor oggi, come anche ancor oggi il luogo è frequentato da gru, ibis della specie mignattaio, aironi di varie specie, e rari fenicotteri).

(Vedi anche i miei commenti al mio post facebook del 22 maggio 2011 corrispondente a questa immagine: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2016842070753&set=a.1718077601828&type=3&theater)

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Pubblicato il 24/02/2016 da fondazioneterradotranto
Vi è la Cripta di Coelimanna a Supersano

di Maria A. Bondanese

Un dì
per queste balze
salmodiando salian
di buon mattino
barbuti monaci di S. Basilio.
Li accompagnava
un timido raggio di sole
tra le rame del Bosco Belvedere
e il cinguettio gioioso degli uccelli

saltellanti nella guazza.

Sembra di vederli quei monaci pensosi, evocati dal verso gentile¹ di Aldo de Bernart che alla profonda cultura, alla perizia di storico, al rigore di studioso univa la dedizione per i nostri luoghi, la cui identità ha insegnato ad amare e riscoprire. Luoghi in cui specchie, dolmen e pietrefitte rinviano ad epoche remote, a un tempo immobile, circolare ed arcano, laddove chiese, torri e castelli, densi di memoria, raccontano come dalla periferia vengano i fili alla trama della grande storia. Il tratto armonioso, l’eloquio dotto e persuasivo, Aldo de Bernart era solito sbalzare fatti e personaggi della realtà municipale con dovizia di particolari e vivida precisione, così da significarne il ruolo nella storia di questo territorio, segnato da lenti ma inarrestabili mutamenti nel suo patrimonio architettonico, viario e paesaggistico. Casali e masserie costellano la campagna salentina offrendosi testimoni silenti di un sistema insediativo antico ma residuale, come tratturi e sentieri, stretti tra filiere di muretti a secco, appaiono relitti di suggestive ma ormai desuete percorrenze.
La via misteriosa, via della ‘perdonanza’, serba però ancor oggi intatto l’incanto che l’esatta e suasiva descrizione fattane da Aldo de Bernart² riesce a trasmettere al lettore. In età medievale, quando viandanti e pellegrini si muovevano «per mulattiere insicure e per sentieri alpestri»³, la via misteriosa o «via degli eremiti»⁴ incardinando, tra le ombre della boscaglia, le chiese rupestri della Madonna di Coelimanna (Supersano) e della Madonna della Serra (Ruffano), costituiva quel percorso di crinale che dai dintorni di Supersano si snodava lungo il Salento delle Serre fino a S. Maria di Leuca.
«Legato alla primitiva antropizzazione di questo territorio quando, presumibilmente, solo dalla sommità delle Serre si poteva avere un quadro territoriale significativo, mentre le valli erano coperte fittamente di boschi e di paludi»⁵, il percorso di crinale lambiva la ‘foresta’⁶ plurimillenaria di Belvedere sulla quale amabilmente, in più di un’occasione⁷, Aldo de Bernart ha voluto soffermarsi, catturato dal fascino dell’immenso latifondo di querce, pressochè scomparso.
Pochi esemplari ne attestano ancora la superba bellezza ma la sua storia è narrata nel “Museo del Bosco”(MuBo) di Supersano, nato dall’esigenza di far conoscere questo particolare ecosistema del territorio salentino, attestato storicamente almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso.
L’eccezionale polmone verde ricadeva nel feudo di sedici Comuni : Supersano, Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia, che vi esercitavano gli usi civici, ossia i diritti minimi riservati alle popolazioni a fini di sussistenza. Il Bosco era dunque «fonte di ricchezza e per questo oggetto di desiderio e di contesa tra le popolazioni confinanti»⁸ come attesta, tra l’altro, il conflitto che nel XVI secolo oppose contro il feudatario di Supersano gli abitanti di Scorrano, «che lamentavano la soppressione d’alcuni diritti che essi vantavano da tempo immemorabile sullo splendido Bosco del Belvedere» , come quelli di «acquare, pascolare e legnare senz’alcuna servitù»⁹.
La caccia, la pesca, la raccolta di frutti e legna, di giunchi e canne palustri, la coltura di lino e canapa, l’allevamento di pecore e suini erano le attività più praticate all’interno del Bosco, assieme alla produzione di carbone. Tali le risorse del magnifico Belvedere, da conferire ai casali che di esso disponevano un valore di stima superiore a quelli che ne erano privi. Aldo de Bernart ricorda come «Fabio Granai Castriota, barone di Parabita, quando nel 1641 vende a Stefano Gallone, barone di Tricase, la Terra di Supersano con il bosco Belvedere e con il feudo di Torricella e della sua foresta, con i relativi diritti feudali, realizza il prezzo di 40.000 ducati»¹⁰. Cifra ragguardevole per i tempi e addirittura doppia rispetto all’ “apprezzo” che, nel 1531, ne aveva fornito Messer Troyano Carrafa nella compilazione dei feudi confiscati in Terra d’Otranto ai baroni schieratisi contro la Spagna.
La relazione¹¹, contenuta nell’ Archivio General de Simancas, rientrava nei lavori della commissione incaricata, nel 1530, dall’imperatore Carlo V di redigere l’elenco e la stima dei beni sottratti ai nobili ribelli, durante l’annoso conflitto tra francesi e spagnoli in Italia, che aveva travolto anche l’assetto feudale di Terra d’Otranto e giungerà a conclusione solo nel 1559. Al di là delle umane traversie, il Bosco continuava a prosperare lungo una superficie di oltre 32 kmq., delimitata da una linea quasi elissoidale di circa 40 km. di giro, ricca di acque alluvionali che sboccavano, come ricordava il ruffanese Raffaele Marti, «in ramificati canaloni, spesso fiancheggiati dal rovo, dal frassino, dalla vitalba, dalla marruca, dalla brionia» che, intricandosi, ombreggiavano stagni «albergo di scodati e caudati batraci, di luscegnole, d’orbettini, e spesso di bisce d’enormi proporzioni»¹².
Nel fitto bosco di querce, tra cui il maestoso farnetto, la roverella e la virgiliana, si ergevano anche olmi, lecci, castagni, persino il frassino maggiore e il carpino bianco, cui facevano corona piante e fiori del sottobosco e della macchia mediterranea quali alloro, corbezzolo, lentisco, mirto, viburno, pungitopo, rosmarino, gelso, rose di San Giovanni e senza che vi mancassero mele, pere, sorbe, nespole, uva allo stato selvatico. “Delizie” definisce perciò Aldo de Bernart l’incanto e le rigogliose varietà del Belvedere¹³, in cui trovavano asilo cervi, volpi, lontre, caprioli, scoiattoli, lepri, conigli, tassi, martore e puzzole accanto ai voraci lupi e ai possenti cinghiali, di cui l’ultimo sarà abbattuto nel 1864. Paradiso dei cacciatori per l’abbondanza di fagiani, tordi, beccacce e pernici, il Belvedere ospitava anche trampolieri che svernavano presso la palude di Sombrino, formata dalle acque piovane abbondanti in autunno ma che, stagnanti in estate, emanavano «miasmi deleteri, che spandevano la loro influenza pestifera fino a Supersano »¹⁴, propagando l’azione malarica in tutta la zona mediana della provincia. Motivo per cui il Giustiniani, descrivendo “Suplessano” ai primi dell’800, aveva annotato che è «in luogo di aria non sana»¹⁵ .
Nel 1858, uno scavatore di pozzi di Soleto, Giuseppe Manni, riesce a bonificare l’area facendo confluire le acque del Sombrino entro una voragine da lui creata: «e come d’incanto/scomparvero l’acque,/non senza rimpianto./Ne sorsero i campi/fiorenti di Bacco/ma tu Supersano,/per fato divino/perdesti il tuo lago/il lago Sombrino»¹⁶. Supersano, tra l’altro, acquista d’allora fama di località salubre tanto che l’Arditi, rispetto al più antico etimo – Supralzanum – di origine prediale, avanzerà l’ipotesi che il suo nome potesse essere «una pretta ed accorciata traduzione del latino Super sanum, più che sano»¹⁷, con chiara allusione alla bontà del clima.
Ma il Bosco, il cui legname pregiato nel 1464 era stato richiesto per riparare le porte del Castello Carlo V di Lecce¹⁸, subisce un progressivo e drastico impoverimento al punto che lo stesso Arditi nel 1879, scriveva :«Era questo forse nella Provincia il bosco più vasto e vario per essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato e di ceduo se non poche moggia a Nord-Ovest verso Supersano; tutto il resto è ridotto a macchia cavalcante od a terreni coltivati a fichi, vigne e cereali»¹⁹. Non estranea comunque alla fine del Bosco la sua suddivisione in quote, seguita alle leggi eversive della feudalità del decennio riformatore francese.
Dopo lunga contesa con i Principi Gallone, in possesso del Bosco di Belvedere che assicurava loro «la pingue rendita di L.42.500»²⁰, nel 1851 venne eseguita l’ordinanza di divisione del patrimonio boschivo fra i comuni che vi esercitavano gli usi civici.
«Le complesse vicende storico-giudiziarie associate alla Questione demaniale del Bosco Belvedere, dal punto di vista territoriale innescarono profonde conseguenze geografiche nel paesaggio così investito da rapidi mutamenti che, nel volgere di pochi lustri, a far data dalle operazioni di divisione in massa dell’ex-feudo Belvedere e della Foresta, ebbe ad assumere un connotato non più silvano ma decisamente caratterizzato dalle colture agrarie, viepiù affermantisi nella seconda metà del XIX secolo»²¹. Mutato il contesto paesistico, solo il Casino della Varna, stupendo ritrovo di caccia d’impianto seicentesco tuttora esistente nell’agro di Torrepaduli, la cui «mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da un’antica carrareccia scavata nella macchia pietrosa», non più luogo d’incontro di nobili per lieti conviti, «rimane oggi l’unico testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere»²². La cui memoria però, intesa non come semplice conservazione e inerte deposito di dati ma piuttosto azione creativa e trasfigurazione del passato, è custodita nel Museo del Bosco di Supersano.

Nella memoria, infatti, tutto ci è coevo²³: il monaco filosofo Giorgio Laurezios di Ruffano, insegnante di filosofia morale per i novizi che “salmodiando salian” alla chiesa-cripta della Coelimanna, in una Supersano fantasma del XIII secolo con appena 120 abitanti terrazzani sparsi per le campagne, come ci ha spiegato Aldo de Bernart, maestro di vita, arte, letteratura, la cui missione educatrice e culturale resta operante nella mente e nell’animo di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo.

pubblicato nel volume antologico Luoghi delle cultura Cultura dei luoghi, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Grifo Editore

Note
¹ A. De Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale, «Memorabilia» 28, Ruffano, aprile 2011, riportato anche da «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 20
² Cfr. A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, Galatina 1994. Di Mario Cazzato è doveroso sottolineare la lunga e fruttuosa collaborazione con Aldo de Bernart nella valorizzazione del patrimonio architettonico e paesaggistico salentino.
³ Ivi, p. 23
⁴ Cfr. C. Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel Basso Salento, in Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Vol. I, Galatina 1957, pp.73-76
⁵ A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, cit., p.15
⁶ Così la chiama il Conte Carlo Ulisse de Salis Marschlins che, percorrendo le contrade del Salento nel 1789, annota come «nella foresta di Supersano sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente» (C. U. de Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di G.Donno, Lecce 1999, p. 140-141). [N.d.r.: È assai probabile pertanto tenendo conto che Martina Franca è il baricentro oggi dell’allevamento del cavallo murgese, che cavalli di tal fatta fossero presenti nel Belvedere!]
⁷ Cfr. A. De Bernart, La foresta di Supersano, «Il nostro Giornale», a. IV-n. unico, Supersano, 8 maggio 1980; A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere in A. de Bernart-M. Cazzato-E. Inguscio, Nelle Terre di Maria d’Enghien, Galatina 1995, pp. 29-34
⁸ F. De Paola, L’effimero volo delle aquile dei Gonzaga sulle terre salentine (1549-1589) in M. Spedicato, I Gonzaga in Terra d’Otranto, Galatina 2010, n. p. 85
⁹ Ivi, pp. 84-86. In merito alla controversia, l’Autore cita la “provvisione regia” del 1582 con cui la Gran Corte della Vicaria di Napoli si espresse a favore dei cittadini di Scorrano contro Scipione Filomarino, allora barone di Supersano
¹⁰ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., p.31
¹¹ Cfr. F. De Paola, “O con Franza o con Spagna…” Note sulla geografia feudale di terra d’Otranto nel primo Cinquecento , in M. Spedicato (a cura di) Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro,Galatina , 2008, pp. 85-87
¹² R. Marti, L’estremo Salento, Lecce 1931, pp. 21-23
¹³ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., ivi
¹⁴ C. De Giorgi, La Provincia di Lecce- Bozzetti di Viaggio, 1882, rist. Galatina 1975, Vol. I, p.148
¹⁵ L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, 1797-1805, rist. an. Bologna 1984, tomo IX, p. 120.
¹⁶ R. De Vitis, Le “Vore”e il Lago Sombrino in Soste lungo il cammino, Taviano 1990, p. 116. Per le bonifiche delle zone paludose in Terra d’Otranto, fra cui quella di Sombrino, a ridosso dell’Unità d’Italia, cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli 1988, p. 25
¹⁷ G. Arditi, Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, rist. an. Lecce 1994, p.577
¹⁸ Cfr. G. Fiorentino, Il Bosco di Belvedere a Supersano: un esempio di archeologia forestale, tra archeologia del paesaggio ed archologia ambientale in P. Arthur-V. Melissano (a cura di), Supersano Un paesaggio antico del Basso Salento, Galatina 2004, pp. 23-24
¹⁹ G. Arditi, op. cit., p. 65. L’Arditi aveva conosciuto nelle sua varietà e bellezza il Bosco di Belvedere perchè, nel 1851, aveva ricevuto l’incarico di tracciarne la mappa e stabilire la divisione in quote tra le parti interessate.
²⁰ A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.
²¹ M. Mainardi, Il Bosco di Belvedere, «Lu Lampiune», a. V, n. 3, 1989, p. 108
²² A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.
²³ Cfr. Maria A. Bondanese, Sul tempo ed altro, «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 21

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In merito alla Vite selvaggia sopra citata riporto questo mio post facebook dedicato proprio alla “Viticusa” come chiamata in vernacolo in Puglia, la Vitis vinifera sylvestris, documentata da alcuni studiosi sul Gargano:

 

Sarebbe da approfondire la specie e varietà delle vecchie viti che ho scoperto crescono ai bordi di un torrentello spontanee e abbarbicate (maritate) agli alti olmi nell’ulmeto-pioppeto a Pioppo nero di contrada Funtana Surge sulla Maglie-Collepasso (“La Fontana dello Suercio“). Lì nel sottobosco anche edera e Ligustro comune (Ligustrum vulgare).

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Il Viburnum opulus tra la flora del Salento!?

Il botanico inglese Henry Groves nella sua “Flora della costa meridionale della Terra d’Otranto” (edita nel 1887), qui splendidamente consultabile, annovera il Viburnum opulus che segnala pertanto a Gallipoli e a Otranto nell’ ‘800!!! 
Apprendiamo che il Viburno opulus è oggi spontaneo nella vicina Basilicata.
Oggi in Salento è presente soprattutto nelle case di emigranti ritornati dalla Svizzera dove la pianta è molto amata come ornamentale nella varietà “roseum” palla di neve comune detta per la forma delle sue vistose fioriture!
E non si è confuso con il Viburno tino che oggi troviamo ad esempio diffuso a Maglie, in quanto cita anche questo come osservatomda lui a Gallipoli e a Leucaspide.
Il Groves vedeva anche diffuso dappertutto in Terra d’Otranto il Sambuco nero (Sambucus nigra) nell’ ‘800 quando si respiravano ancora tanti relitti di flora appenninica nel nostro Salento!
Ancor oggi il Sambuco nero si trova coltivato in ville e giardini nel basso Salento. Vive nel Salento in luoghi umidi anche il Sambucus ebulus che pure il Groves già descrive a Otranto e a Gallipoli.
Il Groves segnala anche la Mandragola autunnale a Gallipoli e a Leucaspide
io oggi l’ho osservata in area tarantina:
Groves vede la Ceratonia siliqua, il Carrubo, a Leucaspide dove la ritiene spontanea, in realtà oggi è ben diffusa in tutto il Salento;
a Otranto, Gallipoli e Leucaspide trova Clematis cirrosa e la Clematis flammula, ancor oggi ben diffuse in Salento;
segnala poi la Ninfea bianca nel Lago Alimini Fontanelle ad acqua dolce in un tratto dove non si superavano i 35 cm di profondità, (specie selvatica che oggi vive ancora nei laghi di Monticchio in Lucania);
segnala a Otranto, Gallipoli e Leucaspide la Marruca spina-christi (Palinurus australis) che io ho osservato proprio nella gravina tarantina di Leucaspide;
a Leucaspide il ranno da lui osservato dovrebbe essere Rhamnus saxatilis Jacq. (che anch’io lì ho ritrovato);
sempre a Leucaspide segnala il Galium verum, una pianta interessante selvatica chiamata comunemente Caglio zolfino in quanto utilizzata dai pastori come coagulante del latte e per tingere di giallo i formaggi. L’ha incontrata nel Salento oggi lo studioso Gianfranco Mele nella sua zona di Sava:

 

A Sava (Taranto)  lungo la strada del “canale” tra Petrose e Scerza.

 

Groves a Leucaspide segnala Anagyris foetida, il Legno-puzzo che personalmente ho osservato anche in feudo di Nardò a Sant’Isidoro su segnalazione di Lina Monte, una pianta ad impollinazione ad opera di uccelli (impollinazione ornitogama):

nei boschi della Murgia il Groves vide la Paeonia corallina (sinonimo di Paeonia mascula), che il vulgo chiama “Rospandofolo” ci dice, e che ancor oggi è lì presente;

Il Groves segnala Viola odorata nelle paludi di Otranto.

Io ho osservato nella Villa Casina di Maglie sempre la Viola odorata:

A Leucaspide e a Gallipoli Groves segnala l’Asfodelo giallo oggi scomparso nel basso Salento e da reintrodurre da area murgiana.
Sempre dal Groves Salsola soda a Otranto presso Alimini, invece Salsola kali a Otranto e San Pietro in Bevagna.
Dice molto comune in Salento Daphne gnidum, come ancora oggi effettivamente nel magliese.
Segnala Cornus sanguinea nelle paludi di Otranto, e oggi lo troviamo sia lì che in quelle dei Paduli nel cuore del basso Salento.
Groves osserva Lonicera caprifolium a Otranto (e ancora si osserva nell’otrantino), e Lonicera implexa a Otranto, Leucaspide e Gallipoli (anche quest’ultima è assai comune in Salento, nei boschi di Melendugno, macchie di Alimini, nel Capo di Leuca, sulla Serra di Ruffano, ecc.).
Segnala la Phoenix dactylifera L. e aggiunge “Viene molto bene nelle vicinanze di Gallipoli”:
Antica veduta di Gallipoli (Lecce) nella Provincia di Terra d’Otranto con Palme da dattero.
Selaginella denticulata a Leucaspide, io l’ho osservata nei Paduli in contrada “Fontana” in feudo di Nociglia sui bordi terrosi di un rivo campestre:
Groves descrive i campi di cotone coltivato presso Otranto.
Annovera “Anemone coronaria L. — Floribus caeruleis. Nel coltivato ad Otranto e Leucaspide.”, ancor oggi nel Salento vi vegeta diffusa Anemone coronaria in numerosi colori anche con antiche cultivar domestiche coltivate (vedi l’articolo “L’ “Anemone barocca di Maglie”: una scoperta da regno delle fate!) dalle nonne oltre che spontaneo selvatico. Vedi anche tra i commenti a questo mio post facebook: 
Terebinto a Leucaspide e Gallipoli segnalato dal Groves, (oggi lo troviamo sulla Serra di Ruffano-Supersano, a Castro e sulle Murge a settentrione del Salento).
Il Biancospino (Crataegus monogyna) il Groves lo segnala a Leucaspide, mentre oggi lo osserviamo anche nelle macchie di Maglie e Scorrano.
Groves segnala Tamarix africana presso Otranto e Gallipoli mentre segnala Tamarix gallica “presso il fiume Chitro a San Pietro in Bevagna”, oggi noto come Chidro. In dialetto salentino la Tamerice è chiamata “Tàmaru“.
Groves segnala il Ligustrum vulgare a Otranto presso Alimini, (oggi lo troviamo anche a San Cataldo di Lecce nella pineta e nei Paduli nel cuore del basso Salento in feudo di Scorrano, in particolare in contrada Campu VerdeFuntanaSurge, dove vi è proprio una sorgente, e nel bosco di Sant’Ulia con Ulia corruzione di Elia).
Abbiamo poi persino la segnalazione della Digitalis lutea presso Otranto:
Il botanico inglese Henry Groves descrisse a fine ottocento la Digitalis lutea a Otranto.
Il botanico nostro contemporaneo il professor Piero Medagli ci fa sapere che purtroppo sulla base delle attuali indagini in Salento questa specie parrebbe ormai estinta. Il genere Digitalis ci fa sapere il Medagli si rinviene ancora oggi in Puglia nell’ambiente delle faggete del Gargano.
Il Groves segnalava in Salento anche il Viburnum opulus, e anche questo è localmente estinto oggi ci conferma il professor Piero Medagli.
Tanti relitti di flora appenninica persi in poco tempo.
I botanici ottocenteschi trovarono tanti indizi di flora, che oggi possiamo dire appenninica, nell’ 800 in Salento (esempio il Carpino bianco), pertanto tenendo conto della continua erosione di biodiversità nel corso anche dei secoli precedenti ad opera dell’uomo in Salento possiamo immaginare che quando ci spostiamo nelle vicine regioni appenniniche in realtà è come se facessimo un viaggio botanico suggestivo anche indietro nel tempo nel nostro Salento in parte.
Soprattutto queste suggestioni per le aree più interne del Salento dal microclima speciale (Foresta Belvedere).
E purtroppo ci conferma il botanico Medagli: “Infatti. Stiamo via via perdendo la flora mesofila post glaciale”.
Quale era questa Digitalis lutea a Otranto? Forse la Digitalis lutea subspecie australis (chiamata anche Digitalis micrantha) che ancora vive sul Gargano insieme alla Digitalis ferruginea?
E’ possibile che la salentina oggi estinta detta D. lutea descritta dal Groves in Terra d’Otranto fosse questa allora:
Digitalis lutea subsp. australis (anche chiamata Digitalis micrantha)? Viene però riportata come specie prettamente montana che non vive sotto i 200 metri di quota.

La Digitalis lutea propriamente detta invece viene riportata come vivente anche a basse quote planiziali, solo che oggi è attestata in Toscana come regione più vicina dove vive in Italia e in Abruzzo (ma in Abruzzo la sua presenza è incerta apprendiamo da questa scheda botanica).

Il Groves segnalò anche la presenza di Medicago arborea L. a Gallipoli. Oggi la ritroviamo a Lecce come pianta ornamentale e diffusa dai vivai.

Ricordiamo che il botanico Henry Groves segnalò a fine ottocento Tulipa sylvestris in Terra d’Otranto, la incontrò a Pozzo del Gendarme a Leucaspide (Taranto) e nei campi di grano di Manduria (Taranto). Annotò che la forma è più piccola e delicata di quella che si incontra nell’Italia media (centrale immagino intendesse).
Vi sono anche i ricordi di questo Tulipano giallo selvatico da parte del naturalista Roberto Gennaio nell’ area rurale prossima alla città di Casarano (Lecce) alcuni anni or sono.
Speriamo che li si possa ritrovare presto in basso Salento, intanto godiamo comunque di questa reintroduzione della specie in provincia di Lecce grazie al meraviglioso “Giardino delle Fate” di Leverano!
La Tulipa sylvestris per la Terra d’Otranto è segnalata anche dal botanico Martino Marinosci che operò maggiormente nella prima metà dell’ ‘800 (rispetto al Groves che visitò il Salento nella seconda metà di quel secolo), scrive che tale specie si trovava nei boschi.
Vediamo qui con più dettaglio cosa scrisse il Marinosci sui Tulipani gialli.
Lui vedeva Tulipa sylvestris nei boschi scrive nella sua “Flora salentina”.
Specie che Roberto Gennaio ricorda a Casarano!!! Da ritrovare speriamo!
La specie T. sylvestris nominale infatti ama di più altitudini planiziali più congeniale pertanto la sua presenza anche nel basso Salento.
Ma cita anche questa ulteriore specie Tulipa celsiana che forse pare sia anche ritenuta da alcuni una subspecie della T. sylvestris ma adattata a luoghi di maggiore altitudine.
Mi incuriosisce poi parecchio questa altra specie che cita nella sua opera: Tulipa clusiana che dice presente “nei campi pingui”. Una specie che ad oggi non rinveniamo più in Salento credo!
 
Tulipano di Clusius.
Tulipano di Clusius (Tulipa clusiana).

 

Mentre sui Tulipani rossi selvatici ricordiamo l’emozionante loro ritrovamento in basso Salento da cui speriamo una sempre loro maggiore diffusione da noi!!! IN-FESTATECI di rosso tulipano! E speriamo presto anche di giallo!

Mi piace ricordare qui anche una peculiarità botanica della costa rocciosa idruntina la specie anfiadriatica Vincetossico adriatico (Vincetoxicum hirundinaria subsp. adriaticum).

Per la costa occidentale del basso Salento (in particolare in feudo di Nardò) mi piace segnalare la peculiare presenza della specie Spina-porci (Sarcopoterium spinosum).
Per approfondire sull’Erba di Santa Marina di Ruggiano rimando a questo mio post facebook e ai miei commenti ad esso:  
Marinosci sulla “Trapa natans, Castagna d’acqua” scrive: “rinviensi ne’ siti acquosi presso Gallipoli ove l’osservai nel 1812”; oggi scomparsa in Salento ma si rinvengono sulle coste salentine i suoi tipici semi, difficile dire se autoctoni o giunti con le correnti da fiumi padani o albanesi.
Dal Marinosci mi piace ricordare qui la segnalazione per il Salento della specie Rhus coriaria che chiama anche Sommacco volgare, oggi noto anche come Sommacco siciliano, usato per la concia delle pelli. Lo segnalava presso Tricase. Io l’ho ritrovato a Melpignano e nel Capo di Leuca:
Il Marinosci ci ricorda anche di un’altra specie che viveva pur nel Regno di Napoli tra Napoli e Roma, lo Scotano (Rhus cotinus), in merito data la presenza in Salento di una località chiamata “Monte Scotano” vi ho scritto un post facebook a cui rimandi e ai miei commenti ad esso per approfondimento: 
Invito come sempre anche alla lettura dei miei commenti ai miei post facebook di approfondimento.

 

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Leggere anche i commenti di questo mio post facebook per approfondire:
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Sul ritrovamento nella forra del Canale del Rio Grande a Otranto di Carex pendula:
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Il Ricino in Salento
Il Ricino, da cui si estrae il noto olio purgante, (col suo nome storico “Palma Christi”; “Palma Christi” è infatti proprio ancora oggi uno dei nomi comuni del Ricino), era già annoverato tra le piante spontanee del Salento tra ‘500 e ‘600.
Ricino
Un interessantissimo riferimento in merito ci viene da questo testo intitolato “DESCRIZIONE , ORIGINI E SUCCESSI DELLA PROVINCIA D’ OTRANTODEL FILOSOFO E MEDICO vissuto a cavallo tra cinquecento e seicento GIROLAMO MARCIANO DI LEVERANO (Leverano, 28 ottobre 1571 – Leverano, 13 maggio 1628) CON AGGIUNTE DEL FILOSOFO E MEDICO seicentesco sempre DOMENICO ALBANESE DI ORIA,
dove leggiamo: “Palma Christi”, a pagina 191 nell’ elenco delle piante selvatiche in “Terra d’Otranto”.
Segue un interessante approfondimento, con dati che forse potrebbero retrodatare l’arrivo del Ricino o almeno del suo olio in Salento di molti secoli:
RICINO O ERGOT
nel villaggio salentino dell’Età del Bronzo di PortoRusso nei pressi di Porto Badisco e della famosa Grotta dei Cervi in Salento?
Dalle minuziose analisi di reperti ceramici dal villaggio dell’Età del Bronzo di PortoRusso nei pressi di Porto Badisco emergono testimonianze dell’uso della resina di Pino e forse anche Cipresso.
Emerge anche una sostanza l’acido ricinoleico che può derivare
o dall’uso della pianta del Ricino (Ricinus communis) già in quell’epoca nel nostro territorio in tal caso o un prodotto di importazione
oppure
dagli sclerozi di Ergot (la Segale cornuta, nome scientifico Claviceps purpurea) contaminante di cereali che si utilizzavano per la produzione di bevande alcoliche da fermentazione (genericamente qui le chiamo “birre” queste antiche bevande alcoliche utilizzanti i cereali).
Ecco il link allo studio archeologico-scientifico da cui sono tratti i passi virgolettati.
“L’acido ricinoleico è l’acido grasso più abbondante nei semi della pianta di Ricinus communis, originaria dell’Africa, da cui si estrae l’olio di ricino.
Mentre in Egitto i semi e l’olio di Ricino sono attestati fin da età predinastica, nel resto del Mediterraneo l’uso dell’olio di Ricino per la produzione di medicinali e unguenti sembra diffondersi soprattutto a partire dall’età romana, come dimostra il rinvenimento di acido ricinoleico in alcune anfore da trasporto.”
Mentre già in antichità era attestato l’uso degli estratti dal Ricino in Egitto come medicinale e per la mummificazione, si ritiene che Italia si cominciò ad utilizzare il Ricino a partire dall’epoca romana.
“In Egitto l’olio di ricino era ampiamente usato soprattutto come ingrediente dei balsami per la mummificazione o come combustibile per le lucerne.
Un veleno derivante da semi di ricino è stato identificato su uno strumento da caccia risa-lente al Paleolitico rinvenuto in Sud Africa.”
Dobbiamo osservare che la pianta di Ricino sebbene di origine africana è comunque da diverso tempo piantata come ornamentale nei giardini del Salento e si è spontaneizzata nel territorio. Nella sua variabilità le foglie vanno dal verde al rosso. Estremamente eleganti i suoi semi.
Nell’articolo si propende per l’ipotesi ergot.
“La produzione e il consumo di bevande alcoli-che tramite la fermentazione di frutti e cereali è attestata in molte aree del mondo antico fin dal Neolitico e doveva essere una pratica piuttosto comune, soprattutto in occasioni di cerimonie e durante i rituali”.
Ma leggiamo anche “La presenza dell’acido ricinoleico è particolarmente interessante, perché si tratta della prima volta che questo composto viene individuato in contenitori ceramici dell’età del Bronzo in Italia.”
CONSIDERAZIONI
E se fosse invece quanto rilevato proprio segno già dell’uso del Ricino?
Questa mi sembrerebbe a pelle l’ipotesi più semplice, da rasoio di Occam, anche sulla base dei dati riportati sopra in virgolettato estratti dall’assai interessante studio qui linkato e condiviso, tanto più se consideriamo che tracce di quella sostanza compaiono nelle anfore romane che trasportavano proprio olio di ricino e tale sostanza è stata ritrovata per l’Età del Bronzo solo in vasi di PortoRusso in Italia, benché fosse al tempo assai diffusa la produzione di “birre” che ugualmente altrove potevano aver usato cereali contaminati da Ergot, eppure altrove non si è ritrovato acido ricinoleico nei vasi contenenti tali “birre”.
Inoltre già in antichità quest’olio era prodotto e utilizzato in Egitto, sappiamo con certezza fin da epoca predinastica, quindi dal IV millennio avanti Cristo.
Solo perché sappiamo che in Italia l’olio di ricino è stato utilizzato dai romani dobbiamo escludere un suo possibile uso per arrivo o produzione in loco (dopo arrivo dei suoi semi) in Salento già nell’Età del Bronzo?

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Tutta questa raccolta di dati, osservazioni e studi serve per scrollarci di dosso la visione di un Salento condannato alla povertà di biodiversità che non corrisponde alla realtà storica naturale di questa terra!

L’ idea che emerge è quella di una penisola Salentina con almeno due aree interne, quella oritana e quella del cuore del basso Salento in cui si conservarono fino ai recenti secoli passati relitti forestali con essenze più prettamente montane collinari continentali, aree dove appunto sono note, rispettivamente, presenti fin a secoli recenti, la Foresta di Oria-Lecce, e quella del Bosco Belvedere-Foresta di Cutrofiano, selve sempre più erose e distrutte dall’ uomo, impoverite di biodiversità fino ai brandelli odierni di boschetti e macchia ripariale e di “sieponi” ai margini dei campi.

Qui il discorso si è concentrato di più sulle antiche specie di alberi e arbusti, ma perché?
Perché benché microclimi locali possono favorire un certo albero, poi esso da solo crea le condizioni per un’ecosistema intero tipico con tante altre specie di funghi, tartufi inclusi, muschi, licheni, insetti, ecc., animali superiori, arbusti ed erbe del sottobosco, e altre arbustive e arboree in associazione con esso; immaginate ad aver boschetti di queste specie, foreste in passato!
Per cui guardando ai luoghi più prossimi o meno in cui ancora son presenti boschi con quelle medesime specie presenti nel Salento dei secoli passati è possibile immaginare anche quali fossero le altre specie presenti, e se si considerano quelle specie e poi si approfondisce non colpisce a quel punto dagli studi paleoambientali scoprire in tanti casi che anch’essa erano presente, pensiamo una per tutte al Cervo!
Vedi:

Il CERVO a MAGLIE e nel SALENTO tuttoe le MERAVIGLIE di una Natura dalla BIODIVERSITA' ricchissima perduta che si può e…

Gepostet von Oreste Caroppo am Dienstag, 1. Dezember 2015

 


RICONOSCERE E FERMARE LA FALSA-ECOLOGIA

Dove ci sono oggi più Pini d’ Aleppo come nel nostro caso soprattutto nelle aree costiere, ma anche nelle nostre città e nell’entroterra, hanno dichiarato il Pino d’ Aleppo pianta esotica invasiva per poter far strage di pini.

Dove vi sono più Pini neri han demonizzato i Pini neri come alloctoni invasivi in Italia da tagliare;

Dove vi sono più Pini domestici e Pini marittimi han dichiarato invece questi come sono esotici invasivi da tagliare in Italia!

Questa è la FALSA-ECOLOGIA e i suoi fanatici servi sono facilmente individuabili dalle loro parole!


 

La raccolta della resina dai Pini!

 

Per raccogliere la resina incisioni a spina di pesce sul tronco di un Pino nero in Sila. Ottobre-novembre 2010. Scatto di Oreste Caroppo

 

Qui in foto i segni delle incisioni a spina di pesce sul tronco di un Pino nero in Sila, e altre due foto a seguire per altri alberi di Pino nero sempre in Sila. Scatti dell’ ottobre-novembre 2010.

Sila – Camigliatello, Pino nero, incisioni per raccogliere la resina. Ott-nov 2010. Foto di Oreste Caroppo.

 

Sila – Camigliatello, Pino nero, incisioni per raccogliere la resina, parte basale del tronco. Ott-nov 2010. Foto di Oreste Caroppo.


Ho poi notato negli anni successivi segni volti forse a estrarre la resina anche sugli alberi di Pino d’Aleppo nelle pinete degli Alimini ad Otranto; riporto qui una foto del luglio 2016 in merito:

Alimini – Otranto, Pino d’Aleppo, luglio 2016. Foto di Oreste Caroppo.

 

Ho ritrovato questa foto per gli Alimini, ma ho come memoria di avervi visto incisioni meglio eseguite agli Alimini su alcuni Pini di questa, e sembranti correlabili a pratiche di resinazione. Chi ha visto o osserva tagli simili sui nostri pini degli Alimini, o in qualsiasi altra pineta, li fotografi a documentazione. 

In tutti i casi gli alberi han superato il trauma della resinazione continuando a crescere.

Bel video sulla pratica della resinazione da Pino nero in Friuli:

 

APPENDICE: pini fossili in Italia.

 

 

Oreste Caroppo

 

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