Quando in Salento crescevano i Faggi e i Pini della montagna come in Appennino in Centro e Sud Italia ancora oggi!
QUANDO IN SALENTO CRESCEVANO I FAGGI E I PINI DELLA MONTAGNA COME IN APPENNINO IN CENTRO E SUD ITALIA ANCORA OGGI!
Possibile?
Questi studi scientifici lasciano credere così!
Nota: è questa una lettura che consiglio a tutti gli amanti della natura di Terra d’Otranto, e da svolgere lentamente con calma quando si ha tempo. Nel testo i link ai vari studi scientifici che verranno esposti e commentati fornendo spunti per ulteriori approfondimenti, ma al contempo costruendo una visione complessiva nuova di quella che era la biodiversità delle aree salentine interne dove emergeranno forti suggestioni appenniniche dagli studi paleo-ambientali raccolti sulle originali biocenosi oloceniche, anche in tempi storici.
Come mai terre così vicine, Sila e Salento, che si guardano negli orizzonti reciproci del Golfo di Taranto, o il Salento e l’ entroterra d’ Abruzzo paion così diverse oggi nella biodiversità delle conifere e non solo?
OGGI appunto … e perché dico “oggi”?
In centro Calabria procedendo dall’ambiente costiero ionico e inoltrandosi nell’entroterra verso aree collinari e montane della Sila, vediamo il passaggio dai costieri Pini d’ Aleppo (Pinus halepensis) e Pini marittimi (Pinus pinaster) ai caratteristici Pini neri nell’entroterra!
Pigna di Pinus pinaster che per i suoi mucroni, le punte dure e acuminate sulle scaglie legnose, ben si distingue da quella a superficie più liscia del Pinus halepensis. Foto con URL da inernet.
In Salento ancor oggi il Pino d’ Aleppo si ritrova lungo la costa e non solo; importanti, anche per ridiffonderlo maggiormente e con saggezza, son stati interventi dei decenni passati di rimboschimento, ma anche qualche Pinus pinaster si osserva lungo la costa e nell’ entroterra (anche un giovane esemplare a Maglie nei pressi di altri Pini d’ Aleppo, non lontano dalla pineta della Conca Marau, è nato spontaneo dalla diffusione dei semi a partire da un esemplare più anziano piantato insieme ad altri Pini d’Aleppo in un giardino vicino)
Il Pino marittimo (Pinus pinaster) a MaglieSi tratta di una specie a Maglie rarissima.Si distingue dal Pino d'Aleppo…
Gepostet von Oreste Caroppo am Sonntag, 3. November 2019
Ma in verità poi: ma quali alloctoni? Non son alloctoni nella vicina Grecia i Pini d’Aleppo (così chiamati) la cui resina è usata per il loro tipico vino chiamato retsina, e non lo son in Italia,
qui vediamo uno studio interessantissimo basato su analisi polliniche per una ricostruzione paleombientale della valle del fiume Bradano nel sud della Lucania e esattamente al confine con la Puglia,
vedi al link: https://www.researchgate.net/publication/233960208_Pollen_from_archaeological_layers_and_cultural_landscape_reconstruction_Case_studies_from_the_Bradano_valley_Basilicata_southern_Italy
E tra le specie emerse dai pollini, elenco che vi invito a leggere, appare proprio il Pino d’Aleppo (Pinus halepensis), in strati archeologici di epoca ellenistica e medioevale.
Ma interessante leggere come dagli studi di strati ellenistici, romani e medioevali siano emersi lì complessivamente pollini di Betulla
(con tutta probabilità Betula alba che ancora vive in sud Italia, sul Vesuvio e sui monti del Cilento, e nell’ ‘800 attestata ancora nel Gargano in Puglia, “Vituddu”, “Bituddu” sono i suoi più diffusi nomi dialettali nel Sud Italia. La Betulla è un vivente relitto nell’ Italia meridionale dell’ ultima preistorica Glaciazione dell’era Quaternaria, la Würm, terminata con la fine del periodo detto appunto Würmiano circa 12.000 anni fa.
Di quella ultima Glaciazione restavano ancora nell’ ‘800 delle formazioni di Betulla pendula, nome scientifico Betula alba, vegetanti in Puglia sul Gargano segnalate da Rabenhorst nel 1849-50, ed oggi purtroppo non più ritrovate da allora. Opportuna la loro reintroduzione in Puglia nei luoghi adatti, da zone prossime in cui ancora vegeta; dalle betulle incidendone opportunamente il tronco si ricava anche un succo dal valore alimentare ritenuto prodigo di benefici per la salute. Fungo simbionte della Betula alba è l’iconica immaginifica Amanita muscaria comunemente chiamata Ovolo malefico e dalle proprietà psicotrope. In Salento oggi l’Amanita muscaria nella varietà flavivolvata è stata osservata nelle pinete di San Cataldo di Lecce come simbionte dei piantati dall’uomo australiani Eucalyptus camaldulensis),
pollini di Nocciolo (nel cuore del basso Salento nei Paduli un tempo coltivato come rivelano vetuste vive ceppaie), Carpino bianco (Carpinus betulus, segnalato anche nel cuore del basso Salento nei primi dell’ ‘800 nella Foresta Belvedere dal Marinosci),
Bosso, Castagno, Corniolo, Faggio, Fraxinus excelsior, Fraxinus angustifolia, Luppolo, Tasso (ergo Taxus baccata), Ostrya/carp or. type, Nuphar (con tutta probabilità Nuphar lutea, il Nannufero o Ninfea gialla detto, unica specie del genere Nuphar vivente ancora in Italia e anche in sud Italia e che il botanico ottocentesco Martino Marinosci cita nella sua opera sulla flora di Terra d’Otranto insieme alla Ninfea bianca senza specificare delle zone particolari in cui le aveva viste),
Nymphaea alba, Juniperus, Linaria, ecc.
Cresce in provincia di Lecce la Linaria reflexa dai fiopri profumatissimi, detta “passeriddhi” o “carabinieri” localmente, soprattutto la si ritrova oggi sul versante occidentale della provincia di Lecce, io l’ho osservata a Sant’Isidoro e a Torre Squillace in feudo di Nardò .
In epoca romana anche Cedrus, e due son le specie di Cedro nel Mediterraneo: Cedro dell’ Atlante e Cedro del Libano. Lotus attestato lì in epoca medioevale.
Tante di queste piante erano segnalate nell’ ‘800 nella flora della Terra d’ Otranto come il Luppolo,
il Nannufero, la Ninfea bianca (agli Alimini), il Fraxinus excelsior (nel Bosco Belvedere), il Tasso. Ancora vi cresce in Terra d’ Otranto il Castagno (sulla Murgia dei Trulli e nelle aree centrali del basso Salento), e negli scavi di villaggi medioevali è emersa la presenza del Corniolo nel Bosco di Belvedere in quei secoli.
Il Marinosci segnalava anche in Terra d’Otranto la Frangola “Rhamnus frangula o Putine [suo nome comune] (…) nei siti umidi presso Otranto”,
la grande Felce florida Osmunda regalis, sempre dal testo ottocentesco “Flora Salentina” del botanico e medico Martino Marinosci: “Osmunda regalis”: (…) ne’ siti acquosi, presso Otranto e altrove.”
ecc.
Cresceva anche nel Salento la Colutea arborea (che oggi vediamo vegetare in Lucania, io l’ho incontrata nei pressi della Murgia di Sant’Oronzo in provincia di Potenza)
e la Fusaggine (che già ritroviamo sulle Murge).
Estraggo da “Flora of Salento (Apulia, Southeastern Italy): an annotated checklist” dei botanici C. Mele, P. Medagli, R. Accogli, L. Beccarisi, A. Albano & S. Marchiori, del 2006:
Alcuni botanici contemporanei hanno espresso dubbi sull’osservazione da parte del Groves di Aristolochia altissima (sinonimo A. sempervirens) in Salento, che il Groves segnalò a Gallipoli per maggiore precisione, e hanno pertanto proposto un’altra specie locale, il Cynanchum acutum che oggi a Gallipoli troviamo ad esempio nella macchie retrodunali in zona foce del Canale dei Samari, ipotizzando un suo errore di identificazione; c’è comunque da osservare che il Groves conosceva anche bene la specie Cynanchum acutum, per la quale scrisse che era presente abbondante nelle macchie paludose della costa di Taranto. Osserviamo qui anche che la specie a distribuzione mediterranea A. altissima si ritrova nel nostro tempo per l’Italia in Sicilia come spontanea, ma anche in Campania, in Sardegna, Toscana e Liguria dove la si ritiene naturalizzata. Anche a Maglie (Lecce) cresce comunque A. sempervirens che è sinonimo proprio di Aristolochia altissima.
Dall’esemplare che ho osservato a Maglie nella periferia sud-orientale in contrada Franite-Cciancole:
Un’altra specie di Aristolochia spontanea nel Salento Aristolochia rotunda:
Ma vediamo ora uno studio di archeologia volto alla ricostruzione paleoambientale per un sito continentale del Salento di epoca messapica: Oria, a partire dagli scavi nel santuario greco-messapico in grotta di Monte PapaLucio, tra epoca arcaica ed età ellenistica, un santuario ipotizzato dedicato a Demetra e Persefone (Kore),
vedi al link: http://www.academia.edu/5469408/Paleoambiente_e_aspetti_rituali_in_un_insediamento_archeologico_tra_fase_arcaica_ed_ellenistica_nuove_analisi_archeobotaniche_ad_Oria_Papalucio_BR_
Non solo vi leggiamo del ritrovamenti di resti di semi di Melograno (Punica granatum) e mediterranea Palma da dattero (Phoenix dactylifera), resti attestanti la presenza di Euonymus europaeus (la Fusaggine o Berretta del prete detta) in epoca messapica, Malus (Melo), Olivo e Vite, e di legni per combustioni di Faggio,
[e melo selvatico e vite selvatica son descritti insieme a marruca, sorbo e nespolo selvatico (Mespilus germanica), pini e in particolare pini ad ombrello, tra le specie selvatiche che nei secoli passati si trovavano nel Bosco Belvedere; la Fusaggine l’ ho vista anni fa tra Ostuni e Cisternino, e giorni fa tra Cisternino e Ceglie messapica, e la cita lo studioso ottocentesco Cosimo De Giorgi per la flora del Salento, vedi di seguito],
vi leggiamo anche un accenno al ritrovamento di pollini di Faggio, in carotaggi effettuati nei fanghi dei Laghi Alimini ad Otranto attestanti la presenza del Faggio in epoca olocenica ancora nel basso Salento.
Anche un più attento studio toponomastico sarebbe opportuno alla ricerca di possibili fitonimi in toponimi riconducibili a specie oggi scomparse. In feudo di Supersano una voragine carsica è chiamata ad esempio Vora del Fau, e una dolina carsica in agro di Maglie è chiamata Fauli. Quale l’etimologia? Son luoghi carsici in cui viene fagocitata l’acqua dalla terra, e anche il nome del Faggio, Fagus in latino, pare derivare da una stessa radice comune al verbo fagocitare dato che le sue appunto dette fagiole erano commestibili. Difficile per cui dire se trattasi di toponimi idronimici o fitonimici legati a piante viventi un tempo in quei luoghi idrogeologicamente più ricchi di acque e più freschi. I frutti del Faggio, le faggiole, sono infatti commestibili per l’uomo a patto di rimuovere la parte esterna del frutto, il pericarpo, che non è invece commestibile. In autunno possono essere cucinati come caldarroste oppure, una volta tostati, è possibile utilizzarli per ricavare un succedaneo del caffè, dalle simili proprietà stimolanti.
Sono importante fonte di alimentazione per tanti animali anche.
Interessanti in tutta questa esposizione sono gli studi a ricostruzione della flora dei secoli passati effettuati a partire dallo studio delle tracce conservate nei fanghi dei Laghi Alimini, e si tratta di uno studio che è opportuno reperire e approfondire maggiormente!
Nel Salento sitibondo e secco cè da godere ancora della fioritura tardiva x le nostre altitudini della Epipactis…
Gepostet von Roberto Gennaio am Mittwoch, 6. Juni 2018
Per approfondire la presenza in passato del Carpino nero nella Penisola Salentina, partiamo dallo studio archeologico raccolto in questo articolo:
Tornando alla studio al link al link: http://www.academia.edu/5469408/Paleoambiente_e_aspetti_rituali_in_un_insediamento_archeologico_tra_fase_arcaica_ed_ellenistica_nuove_analisi_archeobotaniche_ad_Oria_Papalucio_BR_, esso rivela persino il ritrovamento di legno usato come combustibile, al tempo dei Messapi nel santuario di Oria,
di Pinus del tipo sylvestris/montana e si riporta in merito questa nota:
“Ricordiamo che con questa denominazione si comprendono diverse specie di pino, tra cui Pinus nigra; l’attribuzione ad altri pini (Pinus sylvestris in particolare) dei frammenti di Oria sembra poco probabile in questo periodo dell’ Olocene; per una storia del genere nella regione a partire dal Tardiglaciale”.
A pagina 204 del secondo volume della sua opera postuma “La Flora salentina” il botanico Martino Marinosci di Martina tratta di numerose specie di pino, cita la domestica (pino ad ombrello), la d’Aleppo, la “maritima”, e poi cita innumerevoli altre specie pini e abeti (bianchi e rossi) e larici che ritroviamo oggi nelle aree montane italiane,
vedi al link: https://books.google.it/books?id=YHVDJPtF-psC&printsec=frontcover&dq=marinosci+flora+salentina&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjrvejI44LXAhVD0RQKHVHKDxoQ6AEIJzAA#v=onepage&q=marinosci%20flora%20salentina&f=false
Riportiamo il passo dal suo libro perché sia il lettore anche a farsi un’idea di questa trattazione e cercare di capire quali di quelle specie indica come presenti in Terra d’Otranto al suo tempo e quali accenna solo per confronti.
Il Marinosci, come possiamo leggere sopra, scrive di una specie che identifica come:
<<Pinus sylvestris, Pino selvaggio: Albero che si eleva dritto e semplice, quando cresce ne’ boschi; foglie gemelle rigide; piegate a doccia, di color verdemare; strobili ovati a cono con squame ottuse grigie, e turbercoli anco ottusi. Col seguente (Pinus halepensis – Pino d’Aleppo) e coi P. cembra e maritima o sappini in Massafra.>>
Che con tale “Pino selvaggio” che si eleva dritto indichi proprio il Pinus nigra la cui presenza in secoli precedenti pare indicata dalla archeologia per la zona di Oria?
Il più grande Pino nero (Pinus nigra) presente a MaglieCortili interni del complesso dell' isolato delle case popolari…
Gepostet von Oreste Caroppo am Sonntag, 3. November 2019
E il Pinus cembra da lui citato come presente a Massafra? C’è ancora qualcosa di sopravvissuto in zona?
Il botanico ottocentesco Martino Marinosci citò poi nella sua opera, “La Flora salentina”, anche una specie che chiama:
<<Pinus pumilio, Pino nano? Foglie gemine, ascendenti tronche, strobili ovati eretti – Assai raro; visto presso Gallipoli piantato.>>
Potrebbe trattarsi del Pino mugo che cresce ancora oggi spontaneo in alcune zone degli Appennini (Monte Cusna, Monte Falterona, Monte Nero Piacentino, Majella, Parco Nazionale d’Abruzzo). Tanto che esiste oggi una varietà commerciale a portamento ancor più basso del Pino mugo detta Pinus mugo vaerietà pumila.
Un esemplare di Pino mugo l’ho osservato coltivato a Poggiardo:
Che specie di Pino? Proprio parrebbe il Pino mugo!Poggiardo, villetta di fronte all'ingresso del museo degli affreschi…
Gepostet von Oreste Caroppo am Freitag, 1. November 2019
Il misterioso “Larice” che cresceva in Terra d’Otranto
Nell’opera dello scienziato Cosimo De Giorgi pubblicata nel 1884 intitolata “Cenni di Geografia fisica della Provincia di Lecce” (Provincia che all’epoca andava dai territori di Laterza e Martina Franca fino a Leuca includendo Brindisi e Taranto, grossomodo quella che fu la Terra d’Otranto che in più aveva inglobato anche Matera in passato) troviamo questo passo nel quale egli parla della ormai prossima scomparsa nella provincia di Lecce oltre che delle Sughere anche dei “Larici”. Per le Sughere possiamo ben dire oggi che non si sono estinte, ma questi “Larici”?
Per Linneo “Pinus larix L., 1753” è sempre il Larice europeo alpino (Larix decidua) e non il Pino nero laricio (Pinus nigra laricio (Poir.) Maire). Il nome “Pinus larix” usato dal Marinosci invece a quale conifera corrisponde?
La questione resta pertanto aperta e suggestiva. Per il “Pinus larix” il Marinosci dice che da esso si ricava la “trementina detta di Venezia, e laricea” ma ben sappiamo che la “Trementina di Venezia” si estrae proprio dal Larice comune europeo! Inoltre il legno di Larice presenta un colore rossastro caldo con venature scure o giallo chiaro, il colore bruno rossastro del durame diventa più scuro con la stagionatura. Il Marinosci ci dice proprio che “il Pinus larix dà bel legno rosso duro”! Però apprendiamo che anche nel cuore dei vecchi Pini neri, soprattutto nella parte basale dei fusti ed in modo particolare in quelli sottoposti alla pratica della resinazione, si forma un legno dal colore rosso aranciato (vedi questo documentario “Resinazione del Pino nero” nel Friuli-Venezia Giulia, stesso tipo di raccolta veniva fatta sui Pini neri silani in Calabria). Ci chiediamo: il termine “Trementina di Venezia, e laricea” era usato anche per la trementina ricavata dal Pino nero dai botanici del sud Italia ottocenteschi?
C’erano oltre ad Abeti bianchi (“Abies pectinata” pure citato dal Marinosci nel suo elenco della flora salentina, nonché presente nel novero degli alberi dell’Orto Botanico ottocentesco di Lecce) nell’Ottocento persino dei Larici o dei Pini neri nel Grande Salento (inteso come insieme delle attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto) residui dell’Ultima Glaciazione e/o di antiche coltivazioni forestali?
La presenza di questi alberi montani non sarebbe comunque in conflitto, anzi, con alcuni aspetti botanici che nell’ ‘800 leggiamo in Marinosci, ad esempio la presenza del Carpino bianco (Carpinus betulus) nel Bosco Belvedere nel cuore del basso Salento, o del Faggio nelle zone di Terra d’Otranto più prossime alla Lucania, o del Tasso (Taxus baccata) che egli rinvenne nei pressi di “San Basile” (che dovrebbe corrispondere a San Basilio frazione di Mottola sulla Murgia tarantina, a metà strada tra Mottola e Gioia del Colle). Si aggiunga il ritrovamento ancora oggi in zone interne del basso Salento e sulle Murge del Nord del Grande Salento di vetusti alberi di Castagno.
Tutti questi dati e riflessioni che invitano ad osare di più negli interventi di rinaturalizzazione del Salento in aree opportune non disdegnando anche l’introduzione/reintroduzione di alberi che oggi riteniamo più di montagna. Così nel Gargano speciali condizioni hanno fatto conservare a quote minori nella integra Foresta Umbra alberi di specie che oggi ritroviamo nel sud e centro Italia a quote generalmente maggiori.
Oltre al Ginepro rosso (Iuniperus oxycedrus) di cui è detto Ginepro coccolone la varietà macrocarpa dalle bacche più grosse, e il I. phoenicea, il Marinosci a pag 221 cita anche il Ginepro comune (Iuniperus communis) che vede crescere presso il mare del Salento.
Allo stesso modo il botanico inglese Henry Groves nella sua “Flora della costa meridionale della Terra d’Otranto” (edita nel 1887), qui splendidamente consultabile, segnala la presenza del Ginepro comune (Juniperus communis) nei pressi di Gallipoli e Otranto, oltre ad altre specie di Ginepro che incontra: Juniperus phoenicea, Juniperus oxycedrus, Juniperus macrocarpa. Il Marinosci vi segnalava anche Iuniperus sabina. Il Marinosci quindi cita anche il Ginepro sabino (Juniperus sabina) che in questa scheda botanica è segnalato ancora nella vicina Lucania mentre in Salento oggi è assente.
Il botanico contemporaneo Piero Medagli ci fa sapere che “Juniperus communis oggi non è più presente in Puglia, neppure sul Gargano dove vi era una antica segnalazione”. Le stazioni più vicine di Ginepro comune quindi sono in Lucania oggi. Quanta biodiversità abbiamo perso in poco tempo! Occorre provvedere urgentemente alle reintroduzioni dai siti prossimi in cui le specie scomparse in Salento ancora sopravviviono.
Lo studioso Cosimo De Giorgi, il maggiore scienziato naturalista salentino dell’ottocento, visitando Supersano, così scrive: «E verso l’orizzonte a sinistra si profilano gli ombrelli dei pini d’Italia, che sollevan le loro chiome pittoresche sulla bruna massa delle querce di Belvedere», i Pini d’ Italia son i Pinus pinea, pino ad ombrello da pinoli commestibili.
Nei suoi “Bozzetti di viaggio”, descrive all’ingresso del comune di Supersano una maestosa Quercia peduncolata e ancora descrivendo i boschi del circondario di Lecce riporta che la superficie del bosco era al 1817 di ancora 600 ettari e che: “Predominante è la Q. ilex: indi le altre varietà della Q. robur, Q. peduncolata, Q. pubescens, e qualche albero della Q. aegylops o Vallonea…”. Nello stesso testo fa riferimento allo strato arbustivo in cui “predominano la Phillyrea, l’Arbutus, i Prunus e i Mespilus spontanei, il Pyrus e l’Olea allo stato selvaggio, accanto ai Celtis, all’Evonymus, e alla Pistacia lentiscus”. In altri scritti riferisce che all’interno di boschi del Salento si trovano ancora viburno, il paliuro, il ciclame, i crateghi, le rose, la pteris e molti funghi.
Gli studi sui resti vegetali pleistocenici di Grotta Romanelli a Castro in provincia di Lecce, (http://www.artepreistorica.com/2009/12/considerazioni-su-alcuni-aspetti-zoo-antropologici-legati-all’arte-di-grotta-romanelli/), mostrano presenza dei generi Juniperus (Ginepro), Populus (Pioppo), Faxinus (Frassino), e pini genericamente riconducibili al gruppo Pinus pinea (gruppo in cui si annoverano Pinus pinea, Pinus pynaster, Pinus halepensis – tre specie oggi presenti in Calabria come in Salento, quali che siano stati i contributi alla loro attuale arricchente presenza!). Per la documentazione dei resti di pini da Grotta Romanelli per il Pleistocene lo studio è quello di Follieri del 1968.
Consideriamo qui gli studi archeobotanici sui resti ritrovati in un altare ellenistico (IV-III sec. a.C.) nell’area sacra di fondo Capanne a Castro di Minerva in provincia di Lecce. Lì son emersi resti di pinoli che immagino siano di Pinus pinea, ciò a smentire chi ritiene questa specie di recentissima introduzione nel territorio salentino. Segnaliamo lì anche il ritrovamento di resti di melagrane, fichi, uva e olive, farro, segale, avena, orzo, grano tenero/duro, grani nudi, orzo vestito (dati dal testo “Athenaion: Tarantini, Messapi e altri nel santuario di Atena a Castro” di Francesco D’Andria, Eva Degl’Innocenti, Maria Piera Caggia, Tommaso Ismaelli, Lorenzo Mancini, edito da Edipuglia, 2023).
Tra gli elementi che trovo interessanti, oltre alla attestazione dell’uso e quindi immagino coltivazione della Segale, la possibile attestazione di una coltivazione già al tempo dei Melograni in Salento e poi, cosa che mi interessa particolarmente, la possibile attestazione della presenza dei Pini domestici ad ombrello da pinoli (Pinus pinea).
Gli studi sui resti vegetali del Paleolitico superiore per l’area di Ostuni, vedi lo studio dal titolo “L’analisi antracologica della sepoltura Ostuni 1 di S. Maria di Agnano: considerazioni paleoambientali e paletnologiche“, mostrano presenza di una prevalenza di conifere (variamente attribuite a Pinus tipo pinea–halepensis, Juniperus e Pinus tipo sylvestris–nigra) mentre il resto dei materiali è rappresentato da essenze tipiche di un ambiente più mesofilo (querce caducifoglie unitamente a prunoide – Prunus cfr. amygdalus – pomoidee, rosacee) con rari elementi più caratteristici di un ambiente termofilo (Rhamnus/Phllyrea e Pistacia); vi compare anche Viscum.
Questo ultimo studio intersecato con gli studi per il periodo messapico inerenti l’area di Oria corrobora una presenza di pini neri in area murgiana nel Paleolitico superiore come nell’Età del ferro. Di conseguenza il ritrovamento di resti di legno di pino nero di epoca messapica a Oria potrebbe non essere conseguenza di commercio di legname importato da lunga distanza ma frutto di approvvigionamento locale di legname nelle vicine foreste.
Interessante la presenza di Vischio, genere Viscum, probabilmente pertanto il Vischio bianco (Viscum album) ancor oggi presente nel sud Italia. Nello studio condotto ad Ostuni resti di vischio sono stati documentati in una sepoltura di donna incinta in avanzato stato di gravidanza all’altezza del bacino, forse allora una sua deposizione simbolica che ci ricorda l’alta valenza magica attribuita in Età del ferro dai Druidi i sacerdoti dei Celti a questa pianta.
Due sono le specie di vischio che vivono in Sud Italia il Vischio bianco (Viscum album), che ha bacche bianche, e il Vischio quercino (Loranthus europaeus), che ha bacche gialle, entrambi sono inclusi nel suo libro “La Flora salentina” tra le specie elencate dal botanico ottocentesco Martino Marinosci di Martina Franca. Occorre ridiffonderli in Salento!
Ora, se teniamo conto di quante delle specie qui citate son ancora attestate nella macro-area salentina nel medioevo (vedi gli studi paleoambientali a partire dallo scavo archeologico del villaggio medioevale di località “Scorpo” a Supersano), dagli scritti degli studiosi dell’ ‘800 e non solo (per il Salento e per la Puglia tutta), da ritrovamenti botanici recenti di specie relitte e particolari varietà ed ibridi, nonché più in generale di specie comunque ben viventi oggi in Salento e che vi paion ben adattate, se si aggiungono i dati emersi dagli studi paleobotanici di Grotta Romanelli per il Pleistocene e da Ostuni per il Paleolitico superiore,
tutto ciò ci dà una ulteriore conferma di come guardare alle aree prossime al Salento ancora più intatte botanicamente, tanto ad Occidente quanto ad Oriente: sia come vedere fotografie e trovarvi preziose arche di Noè delle specie che qui in Terra d’ Otranto la eccessiva antropizzazione ha scacciato via e cancellato!
Era inevitabile che fosse così data la geografia e la storia geologica, ma tanto estesa la compromissione della biodiversità in Salento oggi che di fronte ad ambienti più integri e ricchi a poche centinaia di chilometri dal Salento neanche ci sovviene il dubbio che prima fosse identico e persino più ricco di biodiversità il territorio salentino …
Ergo ora: NATURALIZZAZIONE!
E senza le assurde pastoie psicologiche al pensiero che specie che vivono altrove in sud e centro Italia siano da considerarsi alloctone in Salento!
Non è un caso se ancora oggi procedendo verso l’ interno del Salento si osservano ben vivere anche piante di climi più freschi, come gli Abeti, i Cedri, ecc., e proprio i Pini neri piantati in aiuole, parchi e giardini di Maglie, Calimera, Martano, ecc.
A Maglie (Lecce) Pini neri sono presente piantati anche a Rione Pini-Contrada Palicella, (luogo ricco di conifere di varie specie, sempre meno nel tempo a causa dei tagli), nelle umide ombrose aiuole nel complesso in pietra leccese delle case popolari di zona Ospedale, nella zona 167, e nei pressi della nuova Caserma dei Carabinieri e nuova area mercatale.
(Testi tratti dal mio post facebook del 22 ottobre 2017, e dai mie commenti ad esso, al link: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10214712913646535&set=a.1888805429917&type=3&permPage=1)
Approfondiamo sul Pino nero (Pinus nigra): “Il Pino nero (è un albero presente esclusivamente nelle regioni montuose mediterranee. Il suo areale è estremamente frammentato in quanto si tratta di una specie relitta pioniera.” https://it.wikipedia.org/wiki/Pinus_nigra
Vasta è la discussione sulle sue sottospecie. Se dovessimo piantarne nell’ entroterra salentino il criterio più saggio e piantarne della varietà attestata nel sud Italia, ed essa è il Pinus nigra var. laricio, presente anche in Sila: https://it.wikipedia.org/wiki/Pinus_nigra_laricio
Dal libro di
PRATESI Fulco e TASSI Franco
“Guida alla natura della Puglia, Basilicata e Calabria”, dove si dedica ampio spazio ai Pini presenti in queste regioni, complessivamente parliamo del Pino loricato, del Pino d’ Aleppo, del Pinus brutia, del Pino marittimo e Pino domestico, del Pino nero e del Pino nero laricio,
per la Calabria si parla dunque della presenza sia di un Pino nero dalle caratteristiche più nordiche, sia del Pino laricio, che leggiamo oggi in rete essere una sottospecie del Pino nero, il Pino nero laricio, e che è l’albero caratteristico della Sila che vediamo svettante in tante delle foto mostrate in questo post.
Sul Pino nero calabro (Pinus nigra calabrica): https://www.lifegate.it/persone/news/giganti-fallistro-alberi-monumentali?fbclid=IwAR0NKY9p6NLc44WnTDdpyitdCdF4RT4KgKO_xSimEuz2771-4r2D4CCDqAw
In Puglia nelle aree interne ideale piantarne di nuovo dei Pini neri a partire da quelli delle regioni vicine delle varie varietà oggi viventi. Ed ora quando andiam in Sila o altre zone basta tornare con delle pigne piene apribili vicino al fuoco immagino da cui ricavarne i semi.
Quando nel cuore del Salento nel bosco Belvedere e di Oria in tempi antichi vi erano anche i faggi relitti dall’ ultima glaciazione tra le loro foglie si muovevano le salamandre del sud Italia con tutta probabilità!
URL a questo bel post con scorci della foresta di faggi e cerri fra M. Castelluzzo e M. Condrò in provincia di Catanzaro in Calabria:
DI QUANDO MAURITS CORNELIS ESCHER FUGGI’ DAL MUSEO E VENNE A CERCARE LE SALAMANDRE NELLA FORESTA STILLANTE DI…
Gepostet von Francesco Bevilacqua am Dienstag, 27. November 2018
Queste faggete di quei monti son anche nel territori comune di Platania chiamato, e non sarà forse un caso che in provincia di Catanzaro sopravvivono anche i Platani orientali (Platanus orientalis) del sud Italia, il più famoso dei quali lì in provincia di Catanzaro è il Platanus orientalis di Cuninga:
Virgilio descrive i Platani alla sua epoca lungo i fiumi di Taranto, e così alle Tremiti li dicono presenti al loro tempo questi Platani Plinio il Vecchio e prima ancora Teofrasto. Una essenza forestale igrofila che deve essere diffusa/ridiffusa nelle zone umide di Terra d’Otranto presenti e da ricostruire con ingegneria naturalistica, dato anche che il Salento cade nell’area di diffusione di questa specie che include Sicilia, Calabria, Campania, Illiria-Albania, Corfù, la Grecia continentale e sue isole, la Macedonia, Creta, Rodi, l’Anatolia, ecc.
Per ulteriori approfondimenti: (guardate come il caso ha voluto che il simbolo civico di Supersano fosse simile ad un bosco di Abeti o di Pini neri larici quali quelli nella foto di questo post in cui stiamo commentando):
L’ABETE BIANCO NEL CUORE DEL SALENTO?!Un enigma celato tra le pagine scritte da un dottore forestale del secolo…
Gepostet von Oreste Caroppo am Samstag, 22. Dezember 2012
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Riporto questo bel brano, segnalatomi da Luigina Marino, dello studioso salentino di Parabita
Aldo de Bernart
dal titolo
TORREPADULI SCOMPARSA
Il casale di Torrepaduli era lambito dal famoso Bosco Belvedere, la cui descrizione mette conto leggere, per atto d’omaggio, nelle pagine del ruffanese Raffaele Marti: “… foresta che occupava una superficie pianeggiante di oltre kmq.32 d’area (…). A Ovest, venendo da Lecce veniva fiancheggiata dalla Serra di Coelimanna, che lascia ai piedi Supersano e Ruffano, e a Sud dalle collinette di Specchia e Miggiano, alture dalle quali riceveva l’acqua alluvionale, che, raccolta in superficiali rivi, sboccava in ramificati canaloni, spesso fiancheggiati dal rovo, dal frassino, dalla vitalba, dalla marrucca, dalla brionia, rampicanti, volventi che, in alcuni tratti, maritandosi, intrecciandosi, anastomandosi, formavano come una semicircolare lunghissima tettoia; canali che immettevano in un minuscolo laghetto, delizia di svariati pennuti, albergo di scodati e caudati batraci, di luscegnole, d’orbettini, e spesso di biscie acquatiche d’enormi proporzioni. Ma non erano le sole foltissime intricate macchie, e gli alti alberi boschivi i rappresentanti della fitta flora, chè di tratto in tratto s’incontrava il prugnolo, il corbezzolo, il melo, il pero, l’apuzia, la selvaggia vite, il sorbo, il nespolo, piante che, sebbene non coltivate, formavano la delizia della selvaggina, e talvolta anche dell’uomo. Come ricca e svariata era la flora, non meno n’era la fauna, e specie la selvaggina; era il preferito asilo di volpi, di lepri, di conigli, di tassi, d’istrici, di ricci, di faine, di martore, di puzzole, e non mancavano i voraci lupi e i cinghiali, di cui l’ultimo fu ucciso nel 1864, anno in cui il bosco era ridotto quasi a metà. Era il preferito soggiorno di pennuti nostrani ed emigranti: uccelli di ripa longipenni, palmipedi, trampolieri, e non poche volte s’incontravano la cicogna ed anche il pellicano (…).”
R.Marti, L’estremo Salento, Lecce 1931
Tratto da :
Aldo de Bernart, Mario Cazzato, Ermanno Inguscio, “Nelle Terre di Maria
d’Enghien, Torrepaduli e San Rocco”, Congedo Editore 1995
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Il brano superiore è in parte sinottico con questo degli anni ’80 del ‘900, sempre del professor Aldo De Bernart, sul Bosco Belvedere a Supersano e i suoi laghi:
Note storiche e ambientali sulla meravigliosa, ricchissima in biodiversità, Foresta Belvedere e sul suo pescoso Lago Sombrino, frequentato da pellicani, cigni, cicogne (questi ancor oggi, come anche ancor oggi il luogo è frequentato da gru, ibis della specie mignattaio, aironi di varie specie, e rari fenicotteri).
(Vedi anche i miei commenti al mio post facebook del 22 maggio 2011 corrispondente a questa immagine: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2016842070753&set=a.1718077601828&type=3&theater)
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di Maria A. Bondanese
saltellanti nella guazza.
Nella memoria, infatti, tutto ci è coevo²³: il monaco filosofo Giorgio Laurezios di Ruffano, insegnante di filosofia morale per i novizi che “salmodiando salian” alla chiesa-cripta della Coelimanna, in una Supersano fantasma del XIII secolo con appena 120 abitanti terrazzani sparsi per le campagne, come ci ha spiegato Aldo de Bernart, maestro di vita, arte, letteratura, la cui missione educatrice e culturale resta operante nella mente e nell’animo di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo.
pubblicato nel volume antologico Luoghi delle cultura Cultura dei luoghi, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Grifo Editore
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In merito alla Vite selvaggia sopra citata riporto questo mio post facebook dedicato proprio alla “Viticusa” come chiamata in vernacolo in Puglia, la Vitis vinifera sylvestris, documentata da alcuni studiosi sul Gargano:
Sarebbe da approfondire la specie e varietà delle vecchie viti che ho scoperto crescono ai bordi di un torrentello spontanee e abbarbicate (maritate) agli alti olmi nell’ulmeto-pioppeto a Pioppo nero di contrada Funtana Surge sulla Maglie-Collepasso (“La Fontana dello Suercio“). Lì nel sottobosco anche edera e Ligustro comune (Ligustrum vulgare).
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Il Viburnum opulus tra la flora del Salento!?
A Sava (Taranto) lungo la strada del “canale” tra Petrose e Scerza.
nei boschi della Murgia il Groves vide la Paeonia corallina (sinonimo di Paeonia mascula), che il vulgo chiama “Rospandofolo” ci dice, e che ancor oggi è lì presente;
Il Groves segnala Viola odorata nelle paludi di Otranto.
Io ho osservato nella Villa Casina di Maglie sempre la Viola odorata:
La Digitalis lutea propriamente detta invece viene riportata come vivente anche a basse quote planiziali, solo che oggi è attestata in Toscana come regione più vicina dove vive in Italia e in Abruzzo (ma in Abruzzo la sua presenza è incerta apprendiamo da questa scheda botanica).
Il Groves segnalò anche la presenza di Medicago arborea L. a Gallipoli. Oggi la ritroviamo a Lecce come pianta ornamentale e diffusa dai vivai.
La Tulipa sylvestris per la Terra d’Otranto è segnalata anche dal botanico Martino Marinosci che operò maggiormente nella prima metà dell’ ‘800 (rispetto al Groves che visitò il Salento nella seconda metà di quel secolo), scrive che tale specie si trovava nei boschi.
Vediamo qui con più dettaglio cosa scrisse il Marinosci sui Tulipani gialli.
Ma cita anche questa ulteriore specie Tulipa celsiana che forse pare sia anche ritenuta da alcuni una subspecie della T. sylvestris ma adattata a luoghi di maggiore altitudine.
Mi incuriosisce poi parecchio questa altra specie che cita nella sua opera: Tulipa clusiana che dice presente “nei campi pingui”. Una specie che ad oggi non rinveniamo più in Salento credo!
Mi piace ricordare qui anche una peculiarità botanica della costa rocciosa idruntina la specie anfiadriatica Vincetossico adriatico (Vincetoxicum hirundinaria subsp. adriaticum).
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Tutta questa raccolta di dati, osservazioni e studi serve per scrollarci di dosso la visione di un Salento condannato alla povertà di biodiversità che non corrisponde alla realtà storica naturale di questa terra!
L’ idea che emerge è quella di una penisola Salentina con almeno due aree interne, quella oritana e quella del cuore del basso Salento in cui si conservarono fino ai recenti secoli passati relitti forestali con essenze più prettamente montane collinari continentali, aree dove appunto sono note, rispettivamente, presenti fin a secoli recenti, la Foresta di Oria-Lecce, e quella del Bosco Belvedere-Foresta di Cutrofiano, selve sempre più erose e distrutte dall’ uomo, impoverite di biodiversità fino ai brandelli odierni di boschetti e macchia ripariale e di “sieponi” ai margini dei campi.
Qui il discorso si è concentrato di più sulle antiche specie di alberi e arbusti, ma perché?
Perché benché microclimi locali possono favorire un certo albero, poi esso da solo crea le condizioni per un’ecosistema intero tipico con tante altre specie di funghi, tartufi inclusi, muschi, licheni, insetti, ecc., animali superiori, arbusti ed erbe del sottobosco, e altre arbustive e arboree in associazione con esso; immaginate ad aver boschetti di queste specie, foreste in passato!
Per cui guardando ai luoghi più prossimi o meno in cui ancora son presenti boschi con quelle medesime specie presenti nel Salento dei secoli passati è possibile immaginare anche quali fossero le altre specie presenti, e se si considerano quelle specie e poi si approfondisce non colpisce a quel punto dagli studi paleoambientali scoprire in tanti casi che anch’essa erano presente, pensiamo una per tutte al Cervo!
Vedi:
Il CERVO a MAGLIE e nel SALENTO tuttoe le MERAVIGLIE di una Natura dalla BIODIVERSITA' ricchissima perduta che si può e…
Gepostet von Oreste Caroppo am Dienstag, 1. Dezember 2015
RICONOSCERE E FERMARE LA FALSA-ECOLOGIA
Dove ci sono oggi più Pini d’ Aleppo come nel nostro caso soprattutto nelle aree costiere, ma anche nelle nostre città e nell’entroterra, hanno dichiarato il Pino d’ Aleppo pianta esotica invasiva per poter far strage di pini.
Dove vi sono più Pini neri han demonizzato i Pini neri come alloctoni invasivi in Italia da tagliare;
Dove vi sono più Pini domestici e Pini marittimi han dichiarato invece questi come sono esotici invasivi da tagliare in Italia!
Questa è la FALSA-ECOLOGIA e i suoi fanatici servi sono facilmente individuabili dalle loro parole!
La raccolta della resina dai Pini!
Qui in foto i segni delle incisioni a spina di pesce sul tronco di un Pino nero in Sila, e altre due foto a seguire per altri alberi di Pino nero sempre in Sila. Scatti dell’ ottobre-novembre 2010.
Ho poi notato negli anni successivi segni volti forse a estrarre la resina anche sugli alberi di Pino d’Aleppo nelle pinete degli Alimini ad Otranto; riporto qui una foto del luglio 2016 in merito:
Ho ritrovato questa foto per gli Alimini, ma ho come memoria di avervi visto incisioni meglio eseguite agli Alimini su alcuni Pini di questa, e sembranti correlabili a pratiche di resinazione. Chi ha visto o osserva tagli simili sui nostri pini degli Alimini, o in qualsiasi altra pineta, li fotografi a documentazione.
In tutti i casi gli alberi han superato il trauma della resinazione continuando a crescere.
Bel video sulla pratica della resinazione da Pino nero in Friuli:
APPENDICE: pini fossili in Italia.
Oreste Caroppo