L’ARATURA DEL TERRENO COME ATTO SESSUALE – Quanto in essa di ritual-magico ? E quanto invece di realmente agro-tecnico ?

L’ARATURA DEL TERRENO COME ATTO SESSUALE

Quanto in essa di ritual-magico ?
E quanto invece di realmente agro-tecnico ?

 

Immagine: formella “Agricoltura” nel lato ad Est del Campanile di Giotto a Firenze, opera scultorea in bassorilievo di Andrea Pisano, datata 1334-1336.

 

 

Introduzione
Serviva davvero l’ aratura??? O nacque e si scopri che poteva anche essere utile, a seguito di un rito esteso di fecondazione della terra, terra madre come fecondata dal cielo con acqua e luce come suggeriva l’ osservazione empirica del germogliar dei semi accolti nella terra come in un’ utero materno?!
Il primo “aratro” fu per così dire il paletto fallico per bucare la terra e inserirvi un seme, solitamente in legno. Come si chiama in dialetto salentino questo diffuso strumento immancabile negli orti a forma di fallo o pistola?
Quel gesto pratico assumeva anche una valenza rituale sessuale nel pensiero arcaico associativo, pensiero inconscio oggi ancora. Da lì forse l’ idea di fecondare tutta la terra trascinando il fallico vomere, e da qui la pratica faticosa dell’ aratura!?
Riti di aratura sacra son ben noti nell’ epoca antica del neolitico (vedi scavi archeologici in siti megalitici sacri della Valle d’Aosta solo ad esempio), son attestati nei miti greci, e la stessa sacra Roma, l’ Urbe, fu tracciata in un rito-pratico nei suoi confini sacri con un aratro, e così consacrata, anche poi con sacrifici umani (il mito del povero Remo)!
L’ esperienza agronomica oggi fukuokiana, che si deve al saggio Masanobu Fukuoka fondatore della cosiddetta “agricoltura naturale”, dove si scopre la non fondamentale necessità agronomica dell’ aratura, anche eventualmente la sua dannosità, fa riflettere!
Bello comunque conservarla come rito l’ aratura, ma se si potesse risparmiare la sua pratica sistematica, di dubbia o comunque messa in forte discussione utilità agronomica, quanto di guadagnato per tutti e tutto!!!
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Secondo il grande scienziato Masanobu Fukuoka (1913 – 2008), agronomo fitopatologo, (autore del bellissimo libro intitolato “La Rivoluzione del filo di paglia”), principe a mio avviso di ogni agricoltura che si voglia definire biologica, e che si dedicò ad analizzare la pratica agricola per spolverarla da tutte le operazioni giudicate da lui agronomicamente inutili, e accumulatesi e tramandate senza troppa analisi critica nel corso dei millenni, secoli, decenni, ma anche in anni recenti, nel verso dello sviluppo di una nuova agricoltura più naturale che diceva del “non fare”,
anche l’ aratura sistematica del terreno da parte dell’ uomo era una pratica inutile, se non addirittura dannosa per l’ equilibrio dei suoli e la salute della piante.
Idem il giapponese Masanobu Fukuoka diceva per la potatura; se le piante volessero la potatura drastica per il loro benessere si sarebbero evolute nel verso di potarsi da sole periodicamente. Una pianta sa quale è la sua “forma naturale” verso cui tendere, e la potatura distrugge ed ostacola questo suo programma, altera intralcia il suo equilibrio!

Per quanto riguarda l’ aratura del suolo, essa è già micro-fatta dagli utilissimi lombrichi che tanto incuriosivano lo scienziato britannico Charles Darwin (1809 – 1882), che li studiò, e da tanti altri organismi che vivono nel terreno che bioturbano, favorendo il compostaggio della materia orgonica e così rimescolano i nutrienti del suolo utili alle piante! Pensiamo ad esempio solo anche alle talpe, o al grillo talpa, che in dialetto salentino non a caso è chiamato proprio “araturu”, perché con le sue gallerie è come se arasse nel suo piccolo il terreno.
Sconsiderato pensare però che le piante, ad esempio gli alberi, vogliano una macro-aratura meccanica profonda, che ha effetti paragonabili quasi a quelli di una frana per le loro radici, o peggio, e che causa traumi ai loro apparati radicolari, che poi anche così più facilmente rischiano di contrarre infezioni varie.

L’ aratura da parte dell’ uomo ha però indubbiamente una funzione agronomica nella semina permettendo di ricoprire con la terra facilmente i semi gettati su una vasta area, preservandoli così dal rischio che secchino e soprattutto dagli uccelli ed altri animali che potrebbero mangiarli. Dopo la semina nel campo arato da poco, si facevano giocare i bambini perché così smuovendo la terra con i loro corpi questa seppellisse i semi.
Masanobu Fukuoka escogitò per la semina anche la tecnica delle palline di argilla-terra e semi impastati insieme con un po’ d’ acqua che preparava e che poi un po’ indurite, ma non tanto da non sfaldarsi alla prima pioggia come invece utile, spargeva nel campo non arato, in tal modo i semi erano comunque protetti dagli animali granivori e ben potevano germinare e metter radici nel terreno.

Nell’ aridocoltura tradizionale del Salento, la sarchiatura o la zappettatura superficiale sono affermate come pratiche utili per salvaguardare l’ umidità del terreno, interrompendo in tal modo i cosiddetti “canaletti di evaporazione”.
Vi è infatti un detto popolare salentino che dice che una sarchiatura vale quanto una pioggia per le piante; lo studioso Massimo Vaglio di Nardò lo cita nel vernacolo neretino: “na strisciata ale cchiui ti na ‘ndacquata”.
Grossomodo l’ effetto della sarchiatura nei confronti dell’ umidità del terreno, che è bene sia in esso trattenuta, si può paragonare a quello della pacciamatura con paglia, foglie, ramaglie, tanto consigliata da Masanobu Fukuoka, e apportatrice anche di fertilizzante compost al suolo. Fukuoka, che guardava positivamente anche all’ inerbimento del terreno agricolo da parte delle erbe spontanee e non il contrario. L’ aratura è anche un modo per combattere invece le erbe spontanee ritenute competitori inammissibili delle piante che si vogliono coltivare in un campo secondo quelle filosofie agricole che Masanobu Fukuoka invece contestava. In territori per loro natura non desertici, un pezzo di suolo dove non sta crescendo dell’ erba, a causa di interventi antropici, è per Masanobu Fukuoka come una ferita alla Natura che la Natura cercherà lì di rimarginare, di guarire con nuovo inerbimento!

Altra utilità dell’ aratura può essere quella nel sovescio per integrar il terreno agricolo di materia organica fertilizzante.

L’ aratro è lo strumento principe per arare il terreno, come dice il suo nome stesso. In latino “aratrum”, in greco “arotron”, deriva dalla radice “ar-” che dà il significato di muovere verso spingere e anche colpire così detto perché fende la terra, la solca.

L’ invenzione dell’ aratro, che giunge sino alla nostra era con varie evoluzioni tecniche, è molto antica; esso rappresenta a sua volta un’ evoluzione del bastone appuntito per far dei buchi nel terreno per la semina e la piantumazione, nonché della zappa, vanga e del piccone.
L’ aratro poteva essere tirato da buoi, (nel Sud Italia tipico l’ uso delle mucche podoliche pugliesi dirette discendenti dell’ antico uro, il bovino selvaggio europeo), da cavalli, soprattutto cavalli da tiro pesanti selezionati a tal fine con selezione artificiale nell’ allevamento, (ben adatti a questo erano anche i cavalli murgesi in Puglia), ma anche asini, (come il grande asino martinese tipicamente allevato in Puglia), muli, bardotti, o anche a trazione umana.

Compare già nel Neolitico (epoca connotata dallo sviluppo dell’ agricoltura), lo ritroviamo quindi raffigurato nelle pitture egizie e ce ne parla con dettagli tecnici delle varie tipologie di aratro alla sua epoca lo scienziato enciclopedico romano Plinio il Vecchio nella sua opera intitolata “Naturalis Historia” che pubblicò nell’ anno 77 d.C. Per l’ Italia interessanti le evoluzioni testimoniate dall’ arte rupestre camune sulle rocce graffite della Val Camonica: nel corso del Neolitico i lavori agricoli subiscono diverse innovazioni nell’ uso dell’aratro, dai buoi aggiogati si passa ai cavalli, da un semplice bastone ricurvo all’ aratro a chiodi trainato da coppie di quadrupedi guidati da un aratore; nelle varie fasi evolutive l’ aratro appare prima solo trainato, poi tenuto dall’ uomo e in seguito si vedono scene di aratura estremamente complesse che raffigurano realisticamente l’ agricoltura in Valle Camonica. Non si conosce esattamente però l’ epoca di realizzazione di esse.
In ogni caso un’ aratro dell’ Età del Bronzo in legno conservato interamente è stato trovato negli scavi archeologici nell’ area dei coevi insediamenti palafitticoli del lago-torbiera di Lavagnone a Desenzano del Garda in Lombardia, uno dei più antichi aratri repertati ad oggi noti all’ archeologia.
Lo strumento dell’ aratro e scene bucoliche di aratura sono stati spesso rappresentati nella storia dell’ arte, fornendoci così anche importanti documentazioni dell’ evoluzione di questa tecnologia antichissima. Riferimenti all’ aratro compaiono anche ovviamente in letteratura, e mi piace ricordare qui un famoso indovinello in latino volgare, noto come l’ indovinello veronese, vergato da un copista ignoto, probabilmente veronese e a Verona come sembra attestare il suo studio storico e filologico, tra l’ VIII secolo d.C. e l’ inizio del IX secolo, in forma di appunto al margine di una pergamena più antica; il suo testo “se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneva et negro semen seminaba”, che significa “teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati e un bianco aratro ( = “versòrio” in dialetto veronese) teneva e un nero seme seminava”. Il significato dell’ indovinello è una testimonianza autoreferenziale dell’ amanuense, la descrizione dell’ atto dello scrivere paragonato metaforicamente all’ aratura, il foglio bianco com’ è il campo da arare, le righe della scrittura come i solchi fatti nel terreno, l’ inchiostro nero dei caratteri scritti come il seme scuro sparso dal seminatore e che cade nei solchi del suolo che ha prima arato.
Nella cultura della civiltà contadina in Italia ogni componente dell’ aratro aveva un suo preciso nome.

L’ aratura assunse anche inizialmente però, con lo sviluppo dell’ agricoltura, un significato rituale magico di coito con la Terra per propiziarne la fertilità, una simbologia derivata dall’ uso del primigenio bastone appuntito, sfruttante l’ effetto cuneo, dalle inevitabili suggestioni falliche, attrezzo usato per fare un buco nelle terra, buco di inevitabili suggestioni femminili di vagina-utero, in cui affidare un seme alla Terra, che, con la pioggia cadente dal Cielo e il calore del Sole nel cielo, sarebbe germogliato; da qui la simbologia associativa da un lato della Terra con il principio femminile e quindi la Dea Madre, e dall’ altro lato del Cielo-Sole con il principio maschile e quindi il Dio Padre.
Il bastone appuntito che entra nella terra diviene una sorta di simbolico fallo solare, un sacro bethilos, (come è il menhir, l’ albero, ma anche l’ uomo stesso con la sua postura eretta, entità caratterizzate da verticalità che le rende sorta di simbolica per certi versi divina scala di unione tra Terra e Cielo, oggetti come capaci di congiunzione, catalizzazione, attrazione, accumulazione, conduzione e diffusione di numinose energie divine terrestri-ctonie, acquatiche e celesti, da qui anche l’ importanza della continuità-monoliticità del menhir; energia, carisma vivificante apportatore di benessere, fortuna, prosperità fecondità, ricchezza tanto più quanto più son congiunti i due energetici principi opposti complementari di Cielo e Terra, di Maschio e Femmina; lo stesso per il bue che ha gli zoccoli poggiati al suolo e le corna nell’ aria del cielo, come l’ albero con le radici che scendono nella terra e la chioma che svetta nel cielo, ecc. per altri esseri viventi, monti, monumenti, oggetti ed amuleti), valore fallico assumono dunque anche, per la loro forma e funzione di penetrare la terra, il piccone, la vanga e l’ aratro, (sorta di scettri-magici peni la cui punta, sovente in metallo come il vomere dell’ aratro, son identificabili con il glande), e l’ atto del loro entrare e farsi largo nella terra assume le suggestioni magiche di un coito, è l’ accoppiamento sacro: la ierogamia, lo “hieros gamos” in greco; è il matrimonio sacro tra il dio maschile e la dea femminile, (nel rito connesso rappresentati in carne ed ossa dal re-sacerdote e dalla principessa-sacerdotessa rispettivamente), la congiunzione cosmica che si ritiene debba essere propiziata sempre con riti simulativi perché le divinità opposte-complementari fossero portate magicamente ad unirsi sessualmente, ma anche psicologicamente invogliate a questo dalla visione del rito, anche precedente veri e propri rituali accoppiamenti sessuali. Quest’ unione di Terra e Cielo era considerata fondamentale per la vita, del resto l’ uomo e la gran parte del suo ecosistema di esseri viventi cui era legato per il suo sostentamento vivevano proprio nella e sulla relativamente sottile pellicola di interfaccia tra cielo e terra. Se uomo e donna insieme possono generare dall’ unione sessuale la nuova vita dei figli, così si credeva la vita tutta della natura terrestre derivasse da un’ unione della Terra e del Cielo, e il loro cordiale affettuoso amore poteva prevenire da cataclismi e sciagure naturali varie dannose per gli uomini! (Un complesso teorico questo per la comprensione delle basi universali del pensiero religioso umano che ho battezzato “Teoria T-S”, dove T sta per Terra e S sta per Sole-Cielo).
Archetipi certo influenzano questa visione, ma anche possiamo rintracciare in essa una sorta di proto-scienza che cercava, usando principi associativi di idee per somiglianze tra le cose, di comprendere il funzionamento della Natura e di influenzarne gli eventi a proprio favore con una proto-tecnica che oggi troppo banalizziamo degradando ingiustamente il concetto di magia, che meglio la definisce.
Né si può dire che questo metodo di comprensione della Natura e intervento magico in essa fondato su concetti di analogia, e sul potere attribuito al contatto influenzante tra le cose, fosse del tutto scorretto, tanto che si pervenne a numerose vere e proprie scoperte scientifiche anche se magari non del tutto comprese nelle loro ragioni di fondo; ad esempio, faccio solo un esempio, ma potrebbero essere innumerevoli simili, il sangue dei buoi sacrificati dato alla Terra, asperso nei campi per conferire ad essi l’ energia magica considerata contenuta in quel liquido rosso vitale, per propiziare fertilità alla terra, oggi scopriamo essere un vero e proprio ottimo concime ancora usato nell’ agricoltura tradizionale e chiamato proprio “sangue di bue”. Chi venne prima, l’ idea del potere magico fertilizzante di quel liquido o la scoperta casuale che quel liquido fertilizzava la terra, magari osservando la crescita più rigogliosa di alcune specie di piante nel luogo in cui si era macellato un bovino tempo prima? E’ difficile oggi poterlo stabilire, le due cose insieme forse!

“Nell’ antichità fondare una città non significava solo fare un opera urbanistica, ma iniziare un territorio, sacralizzare uno spazio all’ interno di mura sacre sotto la protezione di un Dio, cercare e trovare il luogo più adatto dal punto di vista economico, politico e militare ma soprattutto spirituale per far progredire un popolo.” (da internet link: www.ritosimbolico.it fondazione di Roma – vedi bibliografia in fondo e nei commenti)

La fondazione di città antiche italiche, come ad esempio Roma, avveniva tracciando un solco con l’ aratro per segnarne i confini, come racconta nel caso dell’ Urbe Roma il famoso mito di Romolo e Remo. (Nota: è interessante osservare come lo stesso termine latino “remus”, da cui l’ italiano remo, lo strumento usato per navigare, secondo una diffusa teoria etimologica, è imparentato proprio con il termine arare, stessa originaria radice etimologica “ar-” che dà il senso di mettere in moto, spingere avanti, in questo caso nautico che fende, solca le onde).
Era la cerimonia chiamata in latino del “sulcus primigenius”, e tutta una ritualità precisa e meticolosissima connotava queste cerimonie di fondazione delle città romane, (simili certamente alle cerimonie di fondazione anche di altri popoli italici, oltre ai latini ed etruschi). Il tutto in un clima fortemente scaramantico. Il luogo in cui sarebbe sorta la città considerato, possiamo dire, come il campo ideale che avrebbe dovuto far nascere e crescere, prosperare numeroso un popolo intero, da qui le analogie con i riti agricoli di fertilità.
La cerimonia della fondazione di Roma ebbe inizio all’ alba con un sacrificio fatto da Romolo poco fuori la sua capanna e l’ interpretazione in un luogo sacro del volo e del canto degli uccelli per trarne degli auspici, ovvero per interpretare la volontà degli dei; un compito questo proprio dei sacerdoti chiamati àuguri. Così questi auspici erano letti dai magistrati preposti alla colonia nel caso della fondazione poi delle colonie romane.

Al centro della progettata città si scava una fossa circolare chiamata in latino “mundus”, e al suo interno, in un rito dall’alto contenuto simbolico, venivano interrati primizie offerte in sacrificio e simboli religiosi che avrebbero dovuto assicurare alla futura città benessere, prosperità, pace e giustizia; in particolare, il fondatore vi gettava una zolla di terra portata seco dal luogo di provenienza e lo stesso facevano, dopo di lui, gli altri patres familias, e veniva richiusa. Era l’ “omphalos” (in greco), l’ ombelico simbolico centro cosmico, punto di passaggio dell’ ideale verticale “axis mundi” (in latino). Ciò nel punto di incrocio delle due principali strade della città, ortogonali tra loro.

Romolo innanzitutto perimetrò il luogo della Roma quadrata facendo conficcare in terra quattro pietre agli angoli del colle Palatino, e dopo aver scavato la fossa “mundus” e averla riempita come detto, accese un fuoco vicino ad essa e suonò il liuto pronunciando con forza i nomi della Città racconta una tradizione: “Roma” e “Amor”, il primo era quello profano, il secondo corrispondente al nome ROMA letto al contrario, segreto ed esoterico era tramandato in segreto fra i Pontefici Massimi, i nemici non dovevano conoscerlo o la città sarebbe caduta, la potenza della città era nel suo nome segreto!

Il fondatore (o un suo rappresentante), come nel caso di Roma il rex-sacerdos Romolo, conduceva quindi l’ aratro solitamente aggiogato ad una coppia di buoi parati a festa con bende e sonagli; solitamente due buoi maschio e femmina e entrambi di colore bianco. Aratro di bronzo nel caso di Romolo. E con esso tracciava il percorso delle mura da erigersi. Il personaggio veste il “cinctus Gabinus”, cioè col capo in parte velato dalla toga, secondo il costume derivante dalla città di “Gabii”, (il luogo dove secondo la tradizione Romolo e Remo sarebbero stati educati e sarebbe stata loro insegnata la scrittura). Il solco veniva tracciato avendo cura che le zolle di terra ricadessero all’interno dell’area cittadina: “… i fondatori di città aggiogavano un toro a destra e una vacca all’interno e col capo velato secondo il rito di Gabii e col resto della toga lasciata libera, tenevano il vomere inclinato in modo tale che tutte le zolle di terra cadessero nella parte interna. Il solco così tracciato indicava dove si sarebbero erette le mura, mentre in corrispondenza delle porte l’aratro veniva tenuto sollevato.” (virgolettato tratto da autori antichi vari: Servio, Varrone, Livio, Festo).
Romolo aggiogò un toro ed una vacca all’ aratro di bronzo e partendo dall’angolo Nord-Ovest tracciò il “sulcus primigenius” in senso antiorario da Nord-Ovest a Sud-Est.
Se l’ aratro è un simbolico fallo solare, il fondatore maschio si identifica con il dio del Cielo-Sole quando lo conduce nella cerimonia fondativa, e così archetipicamente più in generale tale identificazione connota il re-sacro il rex-sacerdos che appunto coincide solitamente inizialmente con la figura del fondatore.
Già dal testo virgolettato possiamo capire come il senso di percorrenza dell’ ideale tracciato con l’ aratro fosse appunto quello antiorario, infatti si legge che il toro veniva posto sulla destra rispetto al conducente l’ aratro, e la vacca dalla parte interna del perimetro.
È interessante sottolineare come qui vediamo ricomparire la simbologia propiziatrice di fecondità della coppia sessuale maschio-femmina rappresentata dalla coppia animale toro-vacca, ed è interessante osservare come il toro-maschio è posto dalla parte esterna alla città, mentre la vacca-femmina è posta dalla parte interna, questo anche probabilmente per auspicare e propiziare l’ assunzione da parte dei maschi e delle femmine della città, uomini e donne dei loro rispettivi ruoli di genere importanti per la stabilità sociale e per la prosperità dell’ urbe: gli uomini devono difendere la città sulle mura e andare al suo esterno per cacciare beni, cercare ventura e aumentare la ricchezza della città, insieme di case e famiglie, le donne invece devono restare all’ interno della città, esser fedeli ai mariti, badare ai figli e mantenere acceso il focolare domestico.
Nel Salento dopo il parto in casa, vigeva ancora fino a pochi anni or sono la tradizione di gettare in strada le acque sporche del parto se il nascituro era maschietto, viceversa venivano gettate in giardino in casa stessa se si trattava di una femminuccia, proprio per propiziare così con questo rito l’ assunzione del ruolo sociale e biologico di genere da parte del futuro uomo o futura donna.
La cerimonia del solco primigenio era poi conclusa con sacrifici beneauguranti (“lustratio coloniae”) in onore a Marte dove le vittime erano un maiale, una pecora ed un toro (“suovetaurilia”, un rito di purificazione a carattere anche apotropaico praticato nell’ antica Roma, e di origine indoeuropea: con esso si intendeva invocare la protezione delle divinità).
Il mito racconta nel caso di Romolo che egli sacrificò la vacca ed il toro che avevano trainato l’ aratro a Giove, a Marte e a Vesta, dunque a divinità maschili e femminili, e proprio a Marte dio della guerra, e a Vesta dea del sacro fuoco dell’ Urbe!
Diverse tracce archeologiche e mitologiche fanno ritenere che anche la fondazione di Roma fu accompagnata da sacrifici umani: l’ uccisione di Remo da parte di Romolo durante il rito come racconta il mito, fa pensare a questo, e il ritrovamento da parte degli archeologi di una bambina sepolta con il corredo funebre sotto una porta della città.
Le quattro pietre furono seppellite nel solco su cui eressero le sacre mura di Roma.
(Nota: al di là dell’ origine etimologica non possiamo non osservare come il verbo latino “arare” sia assonante con il termine “ara”, indicante in latino l’ area sacra dei sacrifici e quindi altare; il temine “ara” è imparentato secondo una teoria etimologica con un radice del sanscrito “ar” che significa purificare).
La disciplina etrusca prevedeva nel caso della distruzione di una città di tracciare con l’ aratro un cerchio attorno ad essa in senso opposto a quello seguito nella sua fondazione nel rito del solco primigenio!

Simbologie simili possiamo rintracciare nelle cerimonie che ancor oggi inaugurano la realizzazione di un’ opera architettonica, la posa della prima pietra, con lo scavo del prima buca, il primo colpo di piccone, e il seppellimento di oggetti volti a consacrare il luogo, con riti, in Italia oggi cristiani, di benedizione. Tutto per propiziare l’ opera, la sua solidità, efficienza e buon utilizzo, e perché abbiano buona fortuna le attività di vita e/o lavoro che lì si dovranno svolgere.

Il valore sacro dell’ aratura lo vediamo attestato dall’ archeologia già in Europa in epoca neolitica, nel sito sacro della contrada Saint-Martin-de-Corléans ad Aosta, che si configurata dapprima come un santuario all’ aperto destinato al culto dei viventi, fino ad assume solo negli ultimi secoli del III millennio funzioni funerarie, divenendo una necropoli privilegiata, con tombe monumentali di varia tipologia megalitica domenica.
In ordine cronologico si osservano: le tracce di un’ aratura di consacrazione propiziatoria corredata dalla semina rituale di denti umani (fine V millennio a.C. – Neolitico recente), seguita dalla creazione di pozzi allineati sul cui fondo trovano posto offerte quali macine unite a resti frutti e cereali. In un momento successivo (inizi del III millennio a.C. – Età del Rame o Calcolitico) si ha l’ allineamento di almeno 24 pali totemici in legno orientati da Nord Est a Sud Ovest progressivamente affiancati e poi sostituiti da più di 46 imponenti stele antropomorfe, magistrali capolavori della statuaria preistorica. La destinazione d’ uso dell’ area si fa nettamente funeraria con la costruzione delle prime tombe megalitiche, probabilmente occupate da membri di eminenti famiglie della comunità, costruite totalmente fuori terra (si giunge così nel II millennio a.C. – Età del Bronzo).

Interessanti le analogie con quanto sopra espresso in merito al rito di fondazione di Roma, per i solchi dell’ aratro dove lì vengono sepolte le pietre che han fissato i vertici del perimetro quadrato della città, qui denti umani. E l’ analogia dei “bothroi” (in greco), le fosse nel terreno per sacrifici e offerte.

Ma le analogie si fanno ancora più forti e intrecciate se aggiungiamo qui il mito greco antico della fondazione della città di Tebe nel cuore della Beozia in terra ellenica ad opera di Cadmo. L’ Oracolo di Delfi invitò Cadmo, che si era recato a consultarlo per altre ragioni, a fondare una città, la città di Tebe appunto, seguendo una vacca fintantoché quell’ animale non si fosse fermato, indicando così il luogo propizio per tale fondazione. Cadmo seguì una vacca ed essa si fermò proprio nel cuore della Beozia e lì decise dunque, per propiziare la nascita di quella città, di sacrificare ad Atena quella mucca. I suoi compagni andarono intanto ad attingere l’ acqua da una sorgente, ma lì il drago che la custodiva li attaccò. Cadmo accorse e riuscì a uccidere il mostro, ma i compagni erano ormai tutti morti. Rimasto da solo decise di portare a termine comunque il sacrificio e la Dea Atena per riconoscenza gli comparve e gli suggerì di seminare i denti del drago. Cadmo lo fece e da quei denti nacquero degli uomini armati di tutto punto dei quali ne sopravvissero cinque che lo aiutarono nella costruzione della Cadmea, la rocca della nuova città di Tebe.
È probabile che a seguito della maggiore conservazione proprio dei denti ancor più delle stesse ossa a partire dai cadaveri, i denti fossero considerati come una delle parti più resistenti degli uomini, e per una analogia con quelle piante che seccano lasciando però i vivi semi, considerati come i possibili semi dell’ uomo i quali piantati in terra potevano per una qualche magia poter far risorgere a nuova vita gli uomini o comunque nuovi uomini, e questo si collega tutta una concezione profonda legata ai culti di inumazione nei quali si può rintracciare la speranza che affidando i corpi alla terra, in particolar modo posti dentro di essa o in camere utero ipogee, grotte, fosse, o fatte di pietra in epigeo come i dolmen, essi potessero rinascere come i semi affidati alla terra. La paura della morte allontanata con la speranza della rinascita dell’ individuo medesimo a nuova vita!

Tenendo conto degli archetipi sottesi, nonché della continuità culturale sin da epoca neolitica in territorio italiano, come dell’ influsso della cultura romana e di quella greca, non meraviglia poter ritrovare ancora oggi cerimonie religiose cristiane o cristianizzate, nelle quali ritroviamo l’ uso rituale proprio dell’ aratro: sono le cosiddette “gare del solco”, che si svolgono ancora oggi in alcuni paesi dell’ Italia centro-meridionale in corrispondenza di festività religiose e in correlazione a luoghi di culto cristiani.
Sarebbe il caso di iniziare a distinguere con uno studio incrociato multidisciplinare quanta di quella pratica rituale è stata acriticamente considerata pratica di esigenza prettamente tecnica, fatto questo, non sono contrario, anzi, a qualche bella rituale annuale limitata aratura simbolica riconcepita però come tale, per il bene della stessa agrotecnica agroecologica e della tradizione ricompresa nelle sue ragioni, credenze, origini e mantenuta e rinvigorita per il suo valore sociale-identitario unificante la comunità. e ovviamente premiano l’ abilità contadina, ma immaginare che si limitino a questo vorrebbe dire non comprendere i profondi valori simbolici di queste cerimonie.
Una gara del solco si svolge l’ 8 settembre nel paese di Castel Morrone in provincia di Caserta in onore di Maria Santissima della Misericordia il cui santuario è collocato su un monte in posizione che domina il paese, e i lunghi solchi vengono tracciati in direzione di quel santuario.
Un’ altra gara del solco si svolge invece nella città di Rocca di Mezzo in provincia dell’ Aquila nella notte a cavallo tra il sabato e l’ ultima domenica di agosto; dagli atti capitolari della parrocchia sappiamo tale gara è attestata già nell’ anno 1625. Un’ antica leggenda narra che questa tradizione nacque come voto fatto alla Madonna della Neve perché liberasse il paese da una pestilenza offrendole in cambio un solco tracciato in suo onore. Le squadre prescelte, radunate all’ imbrunire alle pendici del Monte Rotondo, attendono l’ accensione del faro vicino al campanile della chiesa della Madonna della Neve. Questa luce funge non solo come segnale di inizio della gara, ma anche – e soprattutto – come punto di arrivo e di riferimento verso il quale tutti i solchi devono convergere. Il confronto si protrae per tutta la notte, durante la quale le squadre, composte da caposquadra (detto in vernacolo “imbiffatore” o “impiffatore” che ha il compito di verificare costantemente che il percorso si snodi in linea retta tra il punto di partenza e quello di arrivo), aratore e zappatori, alla luce di lanterne artigianali cercano di tracciare con un aratro il solco più diritto possibile nel percorso di circa 3 km in direzione del Faro del Calvario, la zona più elevata del paese (detta anche San Calvario). Se vi son ostacoli il solco viene sviluppato in più segmenti posizionati sulla stessa ideale linea. Per svolgere queste interruzioni e “riprese” si usano le cosiddette “controposte”, ossia delle lanterne messe su dei treppiedi alti due o anche tre metri, in modo tale che l’ “imbiffatore” riesca ad allinearle tra il suo punto di osservazione ed il faro di monte Calvario. La bravura delle squadre si vede quindi non solo nella tracciatura in sé dei solchi, ma anche nella precisione dell’ allineamento delle varie riprese. Osservando i solchi dal faro di San Calvario, pertanto, essi si presentano quasi come una linea continua nonostante gli ostacoli rappresentati soprattutto da fitti boschi. Le comunicazioni tra l’ “imbiffatore” ed i suoi compagni di squadra preposti alla sistemazione delle lanterne e controposte avvenivano verbalmente con delle grida molto forti, poiché la distanza da coprire a volte è superiore alle centinaia di metri, in aperta campagna. Ogni squadra ha il suo “soprannome” in modo tale da non confondersi tra di loro quando sentono le disposizioni di spostare le lanterne (per allinearle) e che fungeranno da punti di riferimento. Per non generare confusione tra destra e sinistra (in quanto la direzione può essere interpretata diversamente se uno è rivolto verso Monte Rotondo oppure verso San Calvario), si urla sempre di spostare le lanterne (o controposte) “verso Rovere!” oppure “verso Rocca di Cambio!” che sono i due paesi più vicini (uno a destra e l’altro a sinistra, appunto) a Rocca di Mezzo. La vittoria viene decretata al mattino seguente da un’ apposita giuria che, posizionatasi sul punto esatto del faro a San Calvario, verifica con un filo a piombo quale squadra abbia tracciato il solco “più diritto”. I vincitori ricevono in premio e conservano per un anno il gonfalone del comune, sul quale è raffigurato l’ aratro tirato dai buoi e che viene solitamente portato in processione insieme alla statua della Madonna della Neve.

Ricordiamo anche la gara del solco dritto di Fastello, una frazione di pochi abitanti del Comune di Viterbo, manifestazione che si svolge in concomitanza dei festeggiamenti del Santo Patrono Sant’ Isidoro Agricoltore, ogni anno la seconda domenica di maggio. La gara fin dalle origini, consisteva nel tracciare un solco avente origine da uno dei “poggi” o “colli” visibili all’ orizzonte dalla piazza del paese e ad essa confluente. Il solco, anticamente tracciato con aratro trainato da buoi, eseguito anche per singoli tratti visibili appunto dalla citata piazza, doveva risultare perfettamente allineato.

Vi è al confine tra i feudi di Maglie e quello di Melpignano in Salento (sud Puglia) in provincia di Lecce, una chiesetta rurale del ‘700, dedicata a Sant’ Isidoro l’ Agricoltore, scelto probabilmente data l’ omonimia della contrada rurale, chiamata “Sant’ Isidoro” (o “San Sidero”, “Sidero” versione greco-salentina del nome Isidoro), già dal Medioevo in riferimento ad un altro Sant’ Isidoro precedente, Sant’ Isidoro di Siviglia Padre della Chiesa vissuto dal 560 al 636 d.C.
Sant’ Isidoro l’ Agricoltore, detto, invece visse dal 1080 al 1130, anch’ egli in Spagna, ma fu canonizzato dalla Chiesa Cattolica solo nel 1622. Dedicò la sua vita al lavoro nei campi e alla preghiera e tra i prodigi a lui associati dalla tradizione agiografica uno dei miracoli più celebri è quello degli angeli che avrebbero arato un campo al suo posto per lasciargli il tempo di pregare. E protettore dei contadini, dei campi e dei raccolti, nonché di alcune città italiane e spagnole.
Nella sua iconografia compare sovente con un aratro aggiogato a una coppia di buoi, strumenti del lavoro agricolo, come una vanga dal lungo bastone, covoni di cereali appena mietuti.
Fino a pochi anni fa nella chiesetta di Sant’ Isidoro vi era ancora una tela grande dove era effigiato il Santo con l’ aratro e con animali domestici attorno a lui. Una tela oggi scomparsa. Tutta quella Chiesetta andrebbe restaurata com’ era e dov’ era, e anche rifatta una tela in sostituzione di quella passata rappresentante il Santo nella sua tradizionale iconografia bucolica.
Così sarebbe opportuno, magari il giorno della sua ricorrenza il 15 maggio, organizzare lì una festa religiosa in suo onore con una gara del solco nella contrada rurale attinente, con aratri tradizionali e anche diversi tipi di animali domestici a trainarli. Riaffermando anche così l’importanza delle “Libertà naturalistiche”, quali il diritto all’ allevamento e alla coltivazione delle specie viventi, contro ogni tentativo, con vane scuse, di usurpazione di tutto questo che ha valore vitale per l’ uomo, è ricchezza, ma è anche importante per la stessa biodiversità e la sua preservazione!

Sarebbe il caso di iniziare a distinguere con uno studio incrociato multidisciplinare quanta di quella pratica rituale è stata acriticamente considerata pratica di esigenza prettamente tecnica, fatto questo, non sono contrario, anzi, a qualche bella rituale annuale limitata aratura simbolica riconcepita però come tale, per il bene della stessa agrotecnica agroecologica e della tradizione ricompresa nelle sue ragioni, credenze, origini e mantenuta e rinvigorita per il suo valore sociale-identitario unificante la comunità.
La riconsiderazione multilivello dell’ aratura, un po’ come possiamo fare per le partite di calcio oggi, ci sembrano solo un gioco ludico avvincente per le masse, ma avevano in passato, ad esempio presso popolazioni precolombiane, anche un significato rituale legato a propiziare il moto del Sole-palla nel cielo affinché tutto continuasse ciclicamente come sempre a favore del sostentamento della vita!

Un fatto è certo, di aratura oggi c’ è abuso, palesato come quando si vede arare oggi in Puglia, ad esempio, con mezzi meccanici a motore, sotto gli ulivi plurisecolari, facendo scempio di loro radici inevitabilmente in tal modo. Nei boschi, come nelle più antiche foreste primigenie, mai nessun uomo ha arato, eppure la vita vegetale del bosco va avanti per secoli e millenni, pur con acciacchi vari, ma sempre pronta a tornare florida!

 

NOTA: per ulteriori approfondimenti e per i riferimenti bibliografici rimando al mio post facebook correlato e ai suoi ricchissimi commenti, al link https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10212991038640736&set=a.1888805429917&type=3&permPage=1

 

      Oreste Caroppo                          aprile 2017

 

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