LE PIANTE DI “MERCOLEDÌ” MALEFICHE, MAGICHE O PORTA SFORTUNA
uno scritto in loro apologia
Dopo aver lanciato l’idea di gran successo del “festoso giardino delle piante infestanti“, proprio in attacco del razzismo verde in gran parte xenofobo della Falsa ecologia, mi piace ora lanciare l’idea del “giardino delle piante malefiche, magiche o porta sfortuna”. Si tratta di piante ritenute dotate di poteri magici da streghe o associate alla morte o addirittura considerate a seguito di vere e proprie leggende popolari metropolitane come piante porta-sfortuna. Da un lato si tratta di fenomeni antropologici interessanti, dall’altro lato però vanno contrastate le loro conseguenze in termini poi di rapporto negativo con le specie vegetali in questione, che rischiano di subire veri e propri attacchi biocidi, o di cadere nella dimenticanza e non essere più coltivate, e questo è molto sgradevole per chi invece come me ama nel territorio la biodiversità e la sua ricca presenza e conservazione.
Colgo al balzo pertanto la grande notorietà sui social network in questi giorni dei primi del 2023 di un serie televisiva della pay-tv Netflix che ha come protagonista una ragazzina sadica e malefica di nome Mercoledì, è la figlia della famosa macabra “Famiglia Addams” legata ad un filone horror-umoristico di gran successo che vede i suoi natali negli anni ’30 negli Stati Uniti; i suoi personaggi sono nati dalla fantasia del disegnatore statunitense Chas Addams (1912 – 1988), da cui il cognome, che non manca nella coincidenza di arricchirsi del suggestivo richiamo alla famiglia biblica di Adamo. Mercoledì etimologicamente è il giorno della settimana dedicato a Mercurio (dal latino tardo “Mercuri diem“, “giorno di Mercurio”) dio dei romani che si fa corrispondere al dio greco Hermes, e da qui al misterioso mago iniziatore di misteri chiamato Ermete Trismegisto, identificato anche talvolta con il dio egizio della magia e della scrittura Thot (Dio degli scribi il cui animale associato era l’Ibis sacro). Contribuisce ad aumentare le suggestioni di morte intorno al Mercoledì anche la religione Cristiana cattolica che celebra ogni anno il cosiddetto “Mercoledì delle ceneri“, il primo giorno di Quaresima, in cui si esegue un rito liturgico durante il quale il celebrante sparge un pizzico di cenere benedetta, ricavata secondo la consuetudine bruciando i rami d’Ulivo benedetti nella Domenica delle Palme dell’anno precedente, sul capo o sulla fronte dei fedeli per ricordare loro la caducità della vita terrena e per spronarli all’impegno penitenziale della Quaresima. Mentre impone le ceneri a ciascun fedele, il celebrante pronuncia infatti una formula di ammonimento in latino: Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris (in italiano: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai»; questa frase in latino compare nella Vulgata della Bibbia, in Genesi 3,19, allorché Dio, dopo il peccato originale, scaccia Adamo dal giardino dell’Eden condannandolo alla fatica del lavoro e alla morte: “Con il sudore della fronte mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”).
Pertanto lanciamo l’idea di dedicare una parte del proprio giardino/casa proprio alla coltivazione/piantumazione di queste piante, ovviamente in porzioni del proprio terreno o angoli della propria dimora ad esse adatte per caratteristiche di esposizione, di suolo e di umidità o meno. Ecco un elenco solo parziale, ma nei commenti potrete aggiungere altri suggerimenti.
Il Cipresso a chioma conica
Un albero mediterraneo il Cipresso sempreverde (Cupressus sempervirens) ampiamente impiegato, nella sua varietà a chioma conica slanciata, nel sud Italia per adornare i cimiteri rurali o fuori porta rispetto ai centri abitati e i viali di accesso ad essi. E’ pertanto dai più ritenuto come un albero associato alla morte. Per il suo portamento, come da pinnacolo gotico, ben si pone simbolicamente come bethilos di congiunzione tra Terra e Cielo, in ottimo accordo con la semantica e le ritualità legate alla sfera del funebre.
Il Cipresso (dal lat. cupressus, gr. κυπάρισσος, voce mediterranea) è citato già nelle lamine orfiche che comparivano nel corredo funebre di alcuni iniziati ai misteri orfici ritrovate in alcune tombe della Magna Grecia.
“L’Albero Tarentino” (Tarantino cioè), così i romani chiamavano anche il Cipresso mediterraneo sempreverde, (in particolare Catone, e poi Plinio il Vecchio), tanto dunque era già diffuso nell’area del sud della Puglia alla loro epoca dove era ubicata la polis magnogreca di Taranto, fondata, in territorio strappato ai Messapi, da coloni dori spartani.
Una conifera tipica, come tante essenze botaniche pugliesi (data la geografia, la storia geologica e di traffici umani della Puglia), del Mediterraneo orientale: il Cupressus sempervirens.
Si presenta in due forme possibili, quella conica anche eventualmente assai colonnare, chiamata varietà “pyramidalis“, e quella detta “horizzontalis” per il portamento dei suoi rami a chioma più espansa.
Per la varietà a chioma conica, le sue suggestioni gotiche, potremmo dire per la analogia architettonica con le guglie dello stile medioevale gotico svettanti verso il cielo, ne fecero e ne fanno archetipicamente un albero dal grande valore simbolico di sacro bethilos congiungente Cielo e Terra, e anche per questo di certo tanto apprezzato inconsciamente per le alberature nei cimiteri pugliesi, come propiziazione di rinascita a nuova vita.
In certi orti della filosofia biodinamica in agricoltura vi è chi suggerisce di piantare al centro un Cipresso colonnare che farà da captatore di credute energie cosmiche: un credo questo indubbiamente ispirato dagli archetipi profondi che un tale albero muove negli uomini, benché la sua autopacciamatura ai suoi piedi svolga funzione deterrente, come nel caso di molte conifere, alla crescita di tante erbe.
Saggiamente ampiamente utilizzato tale Cipresso sempreverde mediterraneo (Cupressus sempervirens) anche nei rimboschimenti, oltre che per gli impianti arborei in aree cimiteriali (come per l’esemplare in foto sopra, nei pressi del cimitero di Sanarica; data dello scatto il 18 novembre 2007; foto di Oreste Caroppo), in Salento, il Cipresso mediterraneo mostra ampio adattamento al territorio salentino, nella cui terra i semi germogliano dando luogo alla ripropagazione naturale di questa essenza in tante aree.
Il Tasso (Taxus baccata)
Come il Cipresso sempreverde anche il Tasso comune europeo, pure esso conifera sempreverde, è molto impiegato in Italia per le alberature dei cimiteri. Ancor più forte può essere la sua associazione simbolica con la sfera della morte in quanto della pianta tutte le parti sono tossiche ad eccezione dell’arillo (parte carnosa di colore rosso e dolciastra che circonda il seme al fine di favorirne la disseminazione ornitocora, tramite uccelli, che pur ingoiando il seme non ne hanno conseguenze dato che questo assai duro resta grossomodo integro nel passaggio tramite il loro tubo digerente). Anche i bambini talvolta in Europa mangiavano il carnoso dolce arillo del Tasso e sputavano il duro seme senza averne conseguenze negative.
Il suo legno elastico era ottimo per la produzione degli archi (idem il legno dell’esotico albero della Maclura pomifera pur presente nel Salento oggi). Il Tasso, che è una specie per l’Europa relitta del Terziario, già cioè presente prima delle grandi glaciazioni del Quaternario, lo si ritrovava nelle antiche foreste pugliesi mesofile dei secoli passati, e lo si ritrova ancora anche con enormi esemplari plurisecolari, sovente cavi nella parte interna del vetusto tronco, nella Foresta Umbra sul Gargano, dove cresce insieme al Faggio e con sottobosco di Agrifoglio (Ilex aquifolium , per la segnalazione nell’ ‘800 ancora dell’Agrifoglio nei pressi di Otranto leggi questo articolo qui taggato). Il Tasso si ritrova in boschi della Lucania. In Salento è ancora relitto con rari esemplari in vecchie ville pubbliche e private e in qualche cimitero; lo si osserva, talvolta insieme all’autoctono Alloro mediterraneo, piantato intorno ai monumenti ai caduti delle grandi guerre mondiali della prima metà del ‘900; a volta a crescita libera, talaltra gestito secondo i dettami dell’arte topiaria (consiste nel potare alberi e arbusti al fine di dare loro una forma geometrica o comunque diversa da quella naturalmente assunta dalla pianta, per scopi ornamentali) cui, come il Bosso (pianta che non manca nelle siepi salentine), la specie si presta moltissimo.
Ma la nomea di pianta tossica per l’uomo e gli animali erbivori che occasionalmente se ne cibavano ha contribuito in Salento alla sua graduale estirpazione biocida. Un processo negativo questo che ha visto persino la sparizione in Salento dei roseti un tempo diffusi nei parchi pubblici, tutto semplicemente per una questione di esagerata apprensione per la sicurezza pubblica a causa delle spine che possono pungere qualche bambino disattento. E ok, ci si punge, ma che sarà mai, si impara e dopo si sta più attenti e si sviluppa la saggezza di ammirare le rose e annusarne il profumo ma senza necessariamente afferrarle. Queste esagerazioni biocide vanno stigmatizzate! Con le piante si convive insegnando magari che è buona norma non mangiare ogni cosa che si incontra ma solo dopo aver sentito degli esperti semmai. Tante cose, non solo vegetali, possono risultare tossiche se ingerite, non per questo le cancelliamo dalla nostra esistenza, ma anzi talvolta le usiamo frequentemente con scienza e coscienza; perché non dovrebbe essere idem con il mondo dei viventi, e quindi con le piante, i funghi, ecc.?
Nella piantumazione ricostruttiva di boschi mesofili nel cuore del basso Salento, il Tasso comune come l’Agrifoglio ben potrebbero trovare ottima collocazione all’ombra di altri alberi già più alti. Per queste due specie è necessario piantare per una buona loro naturalizzazione sia esemplari femmina che maschio, trattandosi di specie dioiche, cioè a sessi separati come idem avviene per il Gingko biloba o per la Cycas revoluta o la Palma da dattero (Phoenix dactylifera) tre specie esotiche queste ultime presenti nei giardini del Salento.
La Mandragora (talvolta chiamata anche Mandragola)
“La radice di questa pianta è caratterizzata da una peculiare biforcazione che le conferisce una forma antropomorfa (maschile e femminile); insieme alle proprietà anestetiche della pianta, ciò ha probabilmente contribuito a far attribuire alla Mandragola poteri sovrannaturali in molte tradizioni popolari.
Secondo le credenze popolari le Mandragole nascevano dallo sperma emesso dagli impiccati in punto di morte. La mandragola può essere ricondotta ad alcune usanze della stregoneria, nelle quali era utilizzata come surrogato delle più famose bambole di cera.” (estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Mandragora).
In Terra d’Otranto attualmente è presente ancora con la specie Mandragora autumnalis; qui di seguito il raccolto di una mia sortita fino a Taranto da Maglie (la mia città nel cuore del basso Salento), per raccogliere i suoi semi per ripropagarla e ridiffonderla maggiormente nel Salento, con tanti dati su questa pianta anche nei commenti e nei link riportati in questo mio post facebook:
La Mandragora compare anche nella scuola per maghi della saga cinematografica del primo decennio del XXI secolo di “Harry Potter“; come pianta dai poteri magici la ritroviamo anche in una commedia di Niccolò Machiavelli intitolata “La Mandragola” della prima metà del ‘500, alla radice della Mandragora secondo la commedia cinquecentesca venivano attribuite proprietà afrodisiache e fecondative.
“La Mandragora è raffigurata in alcuni testi di alchimia con le sembianze di un uomo o un bambino, per l’aspetto antropomorfo che assume la sua radice. Era considerata un essere vivente a metà tra il vegetale e l’umano. Da ciò ne è derivata la leggenda del pianto della Mandragola se sradicata, ritenuto in grado di uccidere un uomo. Perciò, come ricorda anche Machiavelli nell’omonima sua commedia, il metodo più sicuro per coglierla era legarla al guinzaglio di un cane e quindi lasciarlo libero di modo che, tirando la corda, questi avrebbe sradicato la Mandragora udendone il lamento straziante e morendo all’istante, consentendo così al proprietario di coglierla.” (estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Mandragora). In tale operazione l’uomo doveva tapparsi le orecchie con tappi di cera per la sua incolumità.
Il Crisantemo
Mentre in Giappone il Crisantemo è il fiore ufficiale del paese e simbolo del Sole, della perfezione, della lunga vita e della nobiltà, ornamento ai matrimoni, in Italia esso è stato utilizzato negli ultimi decenni sempre più come fiore da cimitero, pertanto sebbene esso fosse coltivato nei giardini di Terra d’Otranto per la sua bellezza e con numerose specie e cultivar nell’ 8oo, come apprendiamo dal botanico ottocentesco Martino Marinosci di Martina Franca (alcune di esse avevano nome volgare Arcimese), oggi è praticamente scomparso dai giardini privati e dalle aiuole pubbliche e viene prodotto dal settore florovivaistico e commercializzato dai fiorai proprio come fiore reciso per adornare le tombe. E’ diventato così suo malgrado in Italia un fiore dalla sgradevole associazione concettuale esclusiva con la dimensione della morte. Un gran peccato.
Keika Hasegawa è un’artista giapponese della fine del XIX secolo. Produsse stampe su legno rappresentanti crisantemi. Ogni xilografia presenta un lungo fiore a stelo singolo e illustra le pagine del libro “Cento crisantemi”, stampato nel 1893.
Casualmente nella ricerca mi è comparsa questa sua opera e la somiglianza con i fiori di Cursi è notevole,
ma sarebbe interessante sapere cosa significano gli ideogrammi giapponesi sulla stampa, magari ne possiamo trarre maggiori dettagli sul nome della cultivar.
Un gran peccato dunque la cattiva nomea sviluppata dal Crisantemo in Salento. Una tendenza esclusiva di associazione con la morte che bisogna rompere alla luce poi dell’incontro con questi fiori magnifici relitti di vecchie coltivazioni dal valore estetico in Terra d’Otranto; una riscoperta cultivar in loco che mi son impegnato subito a ripropagare e ridiffondere di più!
Il Tronchetto della felicità (Dracaena Fragrans)
Si tratta di una pianta sempreverde originaria dell’Africa tropicale molto adatta come pianta di appartamento in quanto ben sopporta l’ombra, ama ambienti sì luminosi però deve stare lontana dal Sole diretto. Veniva venduta con il nome vivaistico commercialmente furbo di “Tronchetto della felicità“, quindi come sorta di bella pianta inconsciamente ritenuta dall’acquirente anche come porta-fortuna, felicità appunto, e che pertanto è bene avere in casa non solo per motivi estetici. Fu così che in Salento negli anni ’70 e ’80 del ‘900 questa pianta aveva avuto una vastissima diffusione negli appartamenti, ma tutto ciò finché non si è diffusa una inattesa ondata di terrore!
La nefasta voce che in maniera esplosiva si diffuse negli anni ’80 in Italia era questa: “dal Tronchetto della felicità esce un enorme ragno peloso dal morso velenosissimo! Dentro di esso, nelle sue cavità esso ha la il suo nido”. Quasi come se per generazione spontanea questo ragno potesse nascere grazie alla presenza della pianta come suo substrato di partenza anche dopo molti anni che la si teneva in casa, fatto sta che le strade cittadine cominciarono a riempirsi di interi vasi con queste povere piante date in pasto ai netturbini per essere gettate e distrutte in discarica!
A Maglie tale ragno grande e peloso immaginario legato al Tronchetto della felicità era detto comunque, pur senza molta attinenza tassonomica, la “Vedova nera”. Io già fremevo contro tutto questo e volevo salvare quelle piante ma ero troppo piccolo e non mi fu permesso. Oggi ci si è dimenticati di quella voce di terrore popolare e la pianta torna ad essere ben presente nei vivai e sta ritornando lentamente nelle case. Nelle hall di ingresso di grandi condomini degli anni ’70 e ’80 a Gallipoli e Lecce ho avuto modo di scorgere vecchi esemplari superstiti insieme ad altre ormai pluridecennali tipiche piante di appartamento della moda di quegli anni. E’ bene far sì che nel passaggio delle mode le specie passate non vadano perdute!
La Fucsia
Reginetta dei giardini con vasi di creta (“craste” in vernacolo salentino tali vasi per giardinaggio) delle nonne del Salento negli anni ’80 del ‘900 era la Fucsia a fiori rosso-viola, pianta originaria del Sud America assai simile tassonomicamente, trascurando le possibili ibridazioni orticole, alla specie Fuchsia magellanica.
La mia nonna patena a Maglie la coltivava con grande amore. Cominciò a diffondersi però negli anni ’80 a Maglie l’assurda idea che la graziosissima pianta portasse sfortuna, questo perché, a dire di alcune donne più giovani della mia nonna, il fatto che la pianta portasse i suoi fiori rivolti verso il basso non sarebbe stato un segno buon augurale. Forse contribuì a questa cattiva nomea anche il colore violaceo nel fiore della Fucsia diffusasi in Salento, un colore cadaverico non sempre associato a valori positivi. Questa diceria ha contribuito ad un declino della sua presenza nei giardini della mia città, Maglie.
Un fiore così caduto dissennatamente nel dimenticatoio in loco negli ultimissimi decenni in quanto per il suo verso capovolto simboleggerebbe l’abbandono secondo un locale linguaggio tramite i fiori, e si sa è ciò qualcosa che tante donne temevano di propiziare.
Ho avviato pertanto una ricerca sul campo, e anche per mezzo dei social. Ho scoperto così i bei risultati delle ricerche condotte da una collezionista italiana di Fucsie:
Son così riuscito a ritrovare l’antica cultivar di Fucsia, che ricordavo da piccolo presso mia nonna nel suo giardino dietro casa a Maglie, sia riconoscendola nella varietà battezzata “Cosimina” (leggi didascalia sopra), sia nel cortile di una casa a corte di Melpignano nei vasi di creta di una anziana e perspicace gentile signora, sia presso gli esterni e giardini di abitazioni di Castrignano dei Greci. Da qualche anno ho così potuto anch’io coltivarla e contribuire tramite facili talee a diffonderla di nuovo nel territorio maggiormente. Perdere nel nostro paesaggio quotidiano una tale meraviglia per una tale diceria sarebbe stato un peccato inaccettabile!
La “Patana“
In dialetto salentino magliese è chiamata “Patana” la Batata dolce (Ipomoea batatas L. o sinonimo Convolvulus batatas), pianta edule in tutte le sue parti appartenente alla famiglia delle Convolvulaceae. E’ chiamata anche talvolta come Patata americana dolce, ma a differenza della Patata propriamente detta che è una solanacea, la Batata appartiene ad una diversa famiglia tassonomica. Originaria delle Ande in Sud America, la coltivazione della Batata è stata diffusa nella provincia di Lecce. Qualche dato lo estraiamo da questo post facebook della pagina Biodiverso:
“Intorno alla metà del XIX secolo, il Segretario Perpetuo della Reale Società Economica di Terra d’Otranto introdusse la “batata dolce” a Brindisi e Lecce. Le cattedre ambulanti per l’agricoltura dispensavano gratuitamente sia i rizotuberi che le istruzioni su come coltivarli ed ebbe subito successo. Sempre in quel periodo, il Signor Eufemio Fazzi la introdusse in agro di Calimera dove, grazie ai terreni profondi ed alla disponibilità idrica, divenne una delle colture maggiormente produttive. Ben presto, con il carbone – gli abitanti di Calimera sono non a caso ingiuriati come “craunari“, ovvero carbonai in vernacolo locale -, divenne prodotto da esportare in tutti i comuni del basso Salento. Negli anni ’60, questa coltura si ritrova coltivata sporadicamente nei comuni leccesi. Per fortuna, intorno agli anni ’70 la coltivazione della batata venne ripresa nelle aree a disponibilità idrica più elevata. Oggi è conosciuta anche come patata americana, ma non è un vero tubero, bensì una radice che ingrossa per l’accumulo di sostanze di riserva. La varietà prevalente è molto rustica, vigorosa, quasi invadente, forma piante striscianti molto estese dall’elegante fogliame cuoriforme e dalla bella colorazione verde brillante con fusti e nervature in alcune loro parti di color rosso-violaceo. I rizotuberi sono solitamente di forma allungata con le due estremità affusolate, spesso contorti, bitorzoluti con epidermide di color rosso-ocra. La polpa è gialla e molto zuccherina.”
Altri interessanti dati li traggo dagli articoli in merito del dottore agronomo salentino Antonio Bruno, da cui leggiamo che “se i tuberi vengono messi in un vaso con dell’acqua, ecco che emerge una cascata di bellissima vegetazione”, “se prendete il tubero e lo mettete nell’acqua sapete cosa accade? Dalle gemme ecco vien fuori una bellissima vegetazione di foglie lobate o palmate a fillotassi (deriva dal greco phyllon=foglia + taxis=ordine) alterna.”, “Ne fanno un uso decorativo, (…) gli americani che hanno sul balcone o sul terrazzo un bel tubero da cui far venir fuori tante e belle foglie da decoro! I fiori sono solitari e simili a quelli del convolvolo, il frutto è una capsula.”
Queste potenzialità decorative ricordo che mi furono raccontate da bambino da mia madre e vidi per la prima volta questa pianta verdeggiante con i suoi lunghi flessuosi steli emergenti da un bicchiere d’acqua nella casa della mia materna zia Graziella, una sarta amante del mondo naturale: mettendo il tubero in verticale in un bicchiere, semi-immerso in acqua e incastrato in modo tale che non tocchi il fondo del recipiente di vetro, si poteva decorare con le sue foglie e steli anche qualche angolo illuminato all’interno della casa. Feci anch’io la prova e il risultato fu bellissimo e ottenibile in poco tempo.
Poco dopo però ecco che si diffuse la seguente diceria: “fare germogliare e crescere in casa i flessuosi steli della Patana dal suo rizotubero messo in un bicchiere con acqua porta sfortuna!”
Dall’articolo dello studioso Antonio Bruno forse possiamo capire l’origine di tale nefasta idea. In Salento si coltiva una varietà di Batata dolce assai rustica, i suoi “tuberi” frutto della coltivazione, anche nelle paludose zone di Frigole in feudo di Lecce, sono richiestissimi sul mercato siciliano dove vengono importati. Ma mentre l’uso della pianta in Salento è principalmente gastronomico, (anche se pochi ne consumano oggi come sarebbe possibile le commestibili foglie e teneri germogli come verdura, ma ci si limita alla consumazione del “tubero”), in Sicilia se ne fa un ampio uso decorativo: la batata messa in un barattolo pieno d’acqua in inverno crea bellissime foglie che abbelliscono le tombe dei cimiteri siciliani!
Sarà stata dunque a un certo punto la notizia diffusasi in Salento di tale uso fattone in Sicilia delle nostre Patane che, così come per i Crisantemi, fiori che la tradizione italiana relega a mero bistrattato fiore da cimitero, ha portato a bandirla come pianta decorativa dalle nostre case magliesi?
Il caso della Mandragora con la sua radice fittonante ingrossata che ne ha accresciuto la suggestione ci fa qui pensare che possano aver contribuito anche gli irregolari rizotuberi della Batata dolce a eventuali suggestioni stregonesche malefiche nello sviluppo di questa diceria.
Per fortuna, mi pare di capire, questa diffamazione della pianta ha avuto al tempo esigua diffusione, limitata alla mia città o addirittura famiglia; non trovo infatti menzione di questa diceria altrove. Meglio così. Forse poi proprio la scarsa diffusione di questa pianta in Italia, eccezion fatta per la provincia di Lecce e poche altre zone d’Italia dove si coltiva o dove viene apprezzata come ornamentale, ha impedito il dilagare della calunnia-verde che si è pertanto spenta localmente.
Dobbiamo rinobilitare in Salento la Batata dolce anche come pianta decorativa, per l’interno e l’esterno delle nostre case e copiare anche il bello ed intelligente uso decorativo che i siciliani hanno imparato a farne nei cimiteri, ponendo anche talvolta un tubero di “Patana” nei vasi da fiore dei loculi cimiteriali. Sempre meglio degli inanimati fiori di plastica!
La Batata è una pianta potenzialmente perenne, se anche a fini ornamentali la si pianta in un vaso con della terra forse ha bisogno di meno attenzioni, come ad esempio quella di aggiungere rapidamente l’acqua quando si consuma nel recipiente. Occorre valutare se in termini decorativi l’effetto è simile o meno se tenuta in piena acqua come mostrato sopra o messa nella terra di un vaso.
La Zucca tondeggiante
Non possiamo non aggiunger in questo elenco il frutto edule della zucca, soprattutto le zucche di origine americana tondeggianti, importate in Europa dopo la scoperta dell’America del 1492, che vengono utilizzate nelle tradizioni di Halloween-Giorno dei Morti tra fine ottobre e inizio novembre per la creazione di teste orrifiche illuminate all’interno da piccoli ceri accesi nella notte; tanto da esser divenute ormai un simbolo dei festeggiamenti lugubri di Halloween.
LA TRADIZIONE DELLE ZUCCHE ORRIFICHE NEL PASSATO SALENTINO
Una tradizione da recuperare con orgoglio,
anche perché negli Stati Uniti è forse giunta proprio dal nostro sud Italia!
In sintesi: ed anche la tradizione ormai internazionale delle zucche svuotate ed intagliate in forme apotropaiche, con dentro una tetra candela, accesa nelle prime notti di novembre, è nata in Puglia! Né mancano anziani che raccontano che anche nei paesi del basso Salento da bambini erano soliti far queste zucche in corrispondenza delle prime magiche notti di novembre intrise di paganesimo cristianizzato. E questo ben prima che la stessa tradizione tornasse e si ridiffondesse, come oggi è successo, nelle forme di una tradizione “americana”!
C’è chi sostiene che in America la tradizione di queste zucche fu portata proprio dagli emigranti pugliesi!!!
Nell’Apulia salentina in passato, come in Abruzzo, e ad Orsara di Puglia in Daunia, (conformemente a quanto avviene negli Stati Uniti, in occasione della festa di Halloween, il che suggerisce molto probabili influssi di tradizioni lì giunte con i nostri emigranti), era tradizione, ancora agli inizi della seconda metà del secolo scorso, scavare e intagliare le zucche in forme di teste mostriformi, da parte dei bambini, forandovi occhi tondi o triangolari, nasi triangolari con base verso il basso, e bocche semi aperte con denti aguzzi dal malefico sorriso, e porvi poi una candela all’interno per utilizzarle come lanterne poste in luoghi visibili ai passanti durante la notte novembrina del Giorno dei Morti (tra l’1 e il 2 novembre), al fine di incutere terrore!
Non dunque la anglo-americana notte di Halloween, che cade invece il giorno prima, la notte tra il 31 ottobre e il primo di novembre festa cristiana di Ognissanti!
La parola inglese “Halloween” deriva dalla contrazione di “All Hallows’ Eve”, cioè la vigilia di Ognissanti (All Saints o All Hallows’ day) dove Hallow è il vocabolo arcaico inglese che significa santo/persona santa.
Ma l’inglese “HALLOW” (SANTO) deriva dal greco “AGHIOS” (SANTO)?
“In Abruzzo, come anche qui da noi nel Salento in passato, – la notte del Giorno dei Morti – conformemente a quanto avviene nel mondo anglosassone in occasione della festa di Halloween, era tradizione scavare e intagliare le zucche e porvi poi una candela all’interno per utilizzarle come lanterne.” (estratto dal Web).
Cerco in internet qualcosa sull’origine della tradizione della zucca nella Festa di Halloween. Trovo questo primo articolo qui in link taggato in merito all’ipotesi di una possibile origine irlandese, ma con onestà intellettuale però scrivono che “in origine, poi, non fu con una zucca che … si fabbricò la lanterna, bensì con una rapa. Quando, però la leggenda si diffuse negli Stati Uniti in seguito alle massicce immigrazioni di irlandesi stremati dalle carestie alla fine del 1800, siccome in quel nuovo paese abbondavano le zucche e meno le rape, il frutto venne sostituito anche nei racconti.” questa è l’ipotesi degli autori.
Si aggiunga poi che: il dizionario Zanichelli fa derivare il termine “zucca” da “cocutia” (“testa”)- Lat. tardo cucutia, sottoposto alla metatesi da *cucuzza a *(cu)zucca – poi trasformato in “cocuzza“, “cozuccae” e, infine, zucca. E nel Salento ancora si chiama la zucca “cucuzza”, praticamente testa!
Il tutto congiunto alla tradizione pugliese delle zucche, sagomate in forma di teschi orrifici, dette appunto localmente, ad Orsara di Puglia, “cocce priatorie”, ovvero teste di defunti le cui anime son in Purgatorio, anime di defunti dunque senza vera pace, (fa pensare tutto ciò ad originari riti ancestrali in cui le candele, o lucerne, erano messe direttamente dentro i teschi dei defunti a simboleggiarne con il fuoco la loro anima vivificante), e in un territorio dove testa e zucca sono indicate con lo stesso nome latino dialettizzato “cucuzza”, e poi, quindi, con un senso, con un simbolismo molto forte e strutturato assegnato a queste zucche, correlate all’europea fredda Notte dei defunti … come minimo trovo tutto molto interessante!
Nessuno vuole qui necessariamente imporre la inglese Festa di Halloween anche in Italia, pure piuttosto degenerata e snaturalizzata nel suo consumismo globalizzante, abbiamo il Carnevale, e non ce ne servono altri; ma non per questo occorre farsi strappare, tanto da reputarle poi aliene a noi, tradizioni che affondano le loro origini nelle tradizioni pagano-popolari, poi semi-assorbite anche dalla Chiesa Cristiana, del nostro Sud!
Il Babbo Natale della Coca-cola deriva risaputamente dal nostro San Nicola, le cui spoglie a Bari salvammo con un furto nel medioevo dalle devastazioni che ne seguirono in Anatolia contro i luoghi di culto cristiani ad opera di conquistatori islamici. E’ un simbolo negli Stati Uniti persino la cantante mainstream Madonna, il cui nome ricopia quello romano di Maria, e la cui origine, come il suo cognome ben attesta, è legata ad immigranti italiani provenienti dal sud Italia. L’ultima cosa che potrebbe meravigliarmi è scoprire che anche la tradizione delle zucche di Halloween, abbia ben poco di originario negli Stati Uniti!
Dall’anno scorso ho deciso di iniziare a piantare in orti del basso Salento le zucche di origine americana NoOGM della entusiasmante varietà chiamata “Atlantic Giant” (ordinandone i semi via internet) capace di dare Zucche enormi da record dal peso di centinaia di chilogrammi.
Mi piace citare anche il caso dell’Erba della Pampas (Cortaderia selloana) qui, non in quanto pianta malefica in qualche modo ma per il rischio che anche lei ha corso di cadere in disuso nelle mode del giardinaggio a seguito di questo evento:
diversi media hanno riferito che veniva piantata dalle coppie che praticano lo swing (scambismo) nel Regno Unito come un modo per indicare ad altri scambisti che amano quello stile di vita. Ciò ha causato lì un crollo delle vendite della pianta. Diffusa assai in ville e giardini in Salento negli anni ’80 del ‘900, al suo declino ha contribuito invece in loco soprattutto la nomea che si è affermata di pianta pericolosa per bambini e non solo per l’alta capacità tagliente del margine della sua foglia e più in generale abrasiva delle sue superfici fogliari se vengono strofinate sulla pelle umana nel verso dalla punta verso la loro base, in tal caso si risente l’effetto dei microscopici dentelli che proteggono queste foglie, a causa del preferenziale orientamento di tali dentelli, viceversa infatti tale rugosità della foglia si avverte assai meno al tatto se si percorre la foglia nel verso che va dalla sua base verso la punta. E’ una pianta che in quanto esotica e dalle buone capacità di naturalizzazione in Europa subisce gli attacchi demonizzatori xenofobi e biocidi del razzismo verde falso-ecologista, motivo per cui già con pieno diritto rientra tra le specie del “festoso giardino delle piante infestanti“!
Si riteneva che la Salamandra avesse la capacità di resistere al fuoco diretto. Tale caratteristica (presunta) ne fece quindi un animale con un’alta carica simbolica in passato. Essa veniva spesso rappresentata accanto o addirittura in mezzo alle fiamme.
E mi piace immaginare che la Salamandra del sud Italia, la Salamandra appenninica (Salamandra salamandra varietà gigliolii endemica con distribuzione dalle Alpi Marittime fino alla Calabria), vivesse anche nel cuore del basso Salento nella umida e fresca Foresta Belvedere dei Paduli, molte delle cui specie arboree di un tempo le ritroviamo oggi ancora nella vicina Lucania, come il Frassino ossifillo, il Castagno e il Carpino bianco, e lì ancora vive in Lucania questo animale mitico, la Salamandra!
Nel cuore del basso Salento come in Lucania vive ancora il Tritone italico, anfibio caudato come la Salamandra!
Non vedo confini tra Salento e Lucania, vedo invece in Lucania la conservazione di ciò che in aree salentine era presente grazie a particolari microclimi come quelli dei Paduli nel basso Salento, ma una biodiversità che i nostri recenti avi si son impegnati a distruggere con grande nefasto zelo!!!!
E che non vi siano veri invalicabili confini per la Natura ce lo mostra, oltre ogni ragionevole dubbio, il ritorno del Lupo in Salento dall’Appennino sulle sue veloci zampe e per sua volontà!
E vedo l’importanza della rinaturalizzazione senza nulla togliere ma solo aggiungendo, riaggiungendo!
Ma anche il regno dei funghi non manca di avere in Europa dei rappresentati di spicco nel mondo del magico, sopra tutti l’Ovolo malefico (Amanita muscaria), fungo anche dagli effetti allucinogeni se ingerito. Un fungo simbionte di alcune specie arboree, come l’Eucalipto camaldolese importato dall’Australia (è il caso dell’Amanita muscarica varietà flavivolvata i cui carpofori sono stati osservati nella metà del mese di novembre 2009 nelle pinete costiere di San Cataldo di Lecce) o la Betulla bianca (Betula alba), albero relitto glaciale che si ritrova nella vicina Lucania e Campania (sui monti del Cilento e sul vulcano Vesuvio) e nell’ ‘800 anche segnalato sul Gargano nel Nord della Puglia:
Nei boschi del basso Salento è oggi più diffusa una specie assai affine, l’Amanita panterina, in tutto simile, anche negli effetti allucinogeni, ma nella quale il colore rosso del cappello della A. muscaria è sostituito da un colore bruno.
Oreste Caroppo
Bellissimo brano di Ivan Torrent: “Before I leave this world”