La scoperta di un ulteriore antico frantoio ipogeo nel centro storico di Maglie? Il Trappeto del Leone di San Marco

La scoperta di un ulteriore antico frantoio ipogeo nel centro storico di Maglie?

Il Trappeto del Leone di San Marco

 

Oreste Caroppo 

 

Maglie, il frantoio ipogeo oleario ”trappitu” di via Vittorio Veneto. Foto di Oreste Caroppo, pomeriggio del 18 maggio 2022.

 

Nel caldo pomeriggio del 18 maggio 2022, era un mercoledì, durante una passeggiata a poche decine di metri da casa mia, percorrendo via Vittorio Veneto, tra il civico 7 e il civico 9 di un vecchio edificio in stile gentile, con qualche minimale decoro liberty, in muratura con blocchi di calcarea locale “pietra leccese”, la mia attenzione è attratta dalla possente grata in ferro di quella che appariva come una classica finestrella di cantina semi-interrata aperta sul piano stradale per ricambio d’aria e ingresso di luce. Non mancano in quella zona edifici con anche grandi cantine con volta in muratura e a botte ad esempio. Ma questa presa d’aria era assai più grande del solito. Da lì sarò passato centinaia di volte, io abito sin da piccolo a soli cento metri precisi in linea d’aria da quel luogo. Eppure quel momento era speciale, il Sole con la sua tipica altezza per quel luogo e tempo, permetteva un buon ingresso di luce all’interno della cantina, pertanto, passando da lì in quel momento, (erano le 18:20 del 18 maggio), con la coda dell’occhio avrò colto qualcosa che prima là era sempre per me stato celato dalle tenebre ctonie come dalla disattenzione. Così decido di fermare il passo, tornare indietro e provare a scattare una foto, ma già osservando al di là delle grate scorgo una gigantesca ruota di pietra, una possente mola, tipica degli antichi frantoi ipogei e correttamente posata sulla sua vasca di molitura, inoltre si percepiva sotto un tratto superiore di muratura la natura di cavità interamente scavata nel banco roccioso per quella cantina!

Era, è un antico “trappitu” ipogeo!

Ma come è possibile che per tanti anni non ne avessi saputo nulla, come era possibile che non me ne aveva mai parlato nessun abitante pur anziano della zona, né mia nonna paterna (Giorgina Miggiano), né mio nonno paterno (mio omonimo Oreste Caroppo) che avevano acquistato dei terreni intorno alla metà del ‘900 ubicati a poche decine di metri da quell’antico opificio sotterraneo (e su quei terreni i miei nonni vi edificarono la loro dimora e vissero; terreni dove oggi è anche la mia abitazione), come mai non me ne aveva mai parlato nessuno studioso locale, e nessuno mai di essi mi aveva invitato a mirare quella meraviglia da quella grata dalle larghe maglie esposta alla vista di tutti su quella assai trafficata strada?

Un mistero come un tale frantoio ipogeo, sebbene di proprietà privata, possa essere scivolato nel dimenticatoio, nell’oblio della comunità locale, e sebbene tanto potenzialmente visibile ai passanti. Forse il riserbo verso la proprietà privata ha prevalso nella maggior parte dei casi nei passanti sulla curiosità e il bisogno di comunicazione-divulgazione culturale? Né vi è stata alcuna deliberata volontà di occultamento dato che dalla pubblica strada attraverso la grata protettiva la vista è libera verso la inequivocabile grande macina all’interno ancora posta in perfetta posizione di lavoro sulla sua vasca di molitura. A meno che un pannello in legno (o una tendina) non ne impedisse la visione oltre la grata all’interno e questo è caduto o è stato rimosso negli ultimi mesi o anni?

Nella provincia di Lecce si contano oggi 124 antichi frantoi ipogei o semi-ipogei“, leggiamo in internet, al momento non ho avuto modo di trovare l’elenco e non saprei se il frantoio magliese in oggetto su via Vittorio Veneto sia stato già censito tra questi.

Resta comunque la meraviglia per la personale casuale scoperta di questo importantissimo bene culturale cittadino di cui nulla sapevo né sospettavo.

Dalle foto da me fatte il frantoio sembrerebbe scavato interamente nella roccia naturale. Quella strada, via Vittorio Veneto, pare fosse geologicamente in origine una antica gravina (“lama“), il letto di un fiume/fiumara come ben sanno coloro che avendo edificato sul lato opposto di quella strada hanno incontrato parecchie difficoltà edili per la realizzazione delle fondamenta incontrando diversi metri di materiali geologici sciolti non litificati.

Quindi il frantoio ipogeo poteva aprirsi sul solido costone roccioso della gravina in origine. Qualcosa del genere in antichità, a quanto ancora possiamo vedere nel villaggio rupestre di Macurano a Sud di Maglie nel Capo di Leuca, in feudo di Alessano, dove anche troviamo frantoi ipogei scavati sul costone roccioso che si eleva a partire dal piano:

 

Il villaggio rupestre di Macurano in feudo di Alessano. Foto dal web dall’articolo al link.

 

Se così nel caso magliese il palazzo gli è stato costruito sopra successivamente, dopo, sfruttando a tal fine il banco roccioso emergente per le sue fondamenta. Mentre depositi alluvionali e materiale inerte di apporto antropico hanno nel tempo sollevato il piano della “lama” fino all’attuale livello stradale.

Quell’area del centro storico magliese ha poi conservato vocazione frantoiana fino ancora ad oggi, come attesta il frantoio per olive in epigeo contemporaneo e attivo che si trova nella seconda parallela alle spalle di questo frantoio ipogeo ancor più nel centro storico del paese in un quartiere fortemente caratterizzato da proprietà della famiglia De Marco.

Questo “nuovo” disvelato (almeno per me) frantoio ipogeo magliese si trova ai margini del centro storico, e lungo la direzione della strada che conduceva a Cutrofiano.

 

Maglie, il frantoio ipogeo di via Vittorio Veneto. Foto di Oreste Caroppo, pomeriggio del 18 maggio 2022. Vista oltre la grata di ferro. Si vedono i solchi del percorso dall’asino intorno alla macina. Interessante sarebbe conoscere il sito di estrazione del duro materiale lapideo in cui è stata ricavata la pietra di molare.

 

La conservazione in posizione della pesante macina, anche dopo il venir meno delle strutture lignee che completavano quella antica macchina di molitura ci suggerisce che nessun forte terremoto ha interessato il sito dopo la caduta in disuso ormai da molti decenni e forse secoli dell’opificio oleario. L’ultimo significativo terremoto per intensità che ha interessato il basso Salento ricordiamo che risale al 1743, periodo nel quale probabilmente il frantoio era in attività.

Dopo aver fotografato l’interno del frantoio tra le maglie della grata, ho realizzato una foto della facciata del concomitante soprastante edificio caratterizzato dal solo pianterreno:

 

L’edificio sul frantoio ipogeo di via Vittorio Veneto a Maglie; numero civico del portone è il 9. Foto di Oreste Caroppo, scatto del pomeriggio del 18 maggio 2022. Al centro leggermente sulla sinistra vediamo la finestrella con grata in metallo da cui si può vedere all’interno in basso la grande macina del frantoio ipogeo come sopra mostrato in precedenti foto. Questo palazzo mostra una iniziale volontà poi abortita di realizzare, magari in un secondo momento, un piano abitativo superiore, è infatti presente sullo stesso lato della strada e nel medesimo isolato al numero civico 31  un palazzo non molto differente per stile e materiale, con anche una cantina, maggiori fregi liberty e però anche un piano superiore, sopra il portone centrale esso mostra un balconcino con mensole decorate da scalpellini; stessa predisposizione per un balconcino con mensole decorate da scalpellini vediamo sopra il portone centrale del palazzo corrispondente al frantoio in oggetto, palazzo rimasto però a solo pianterreno. Forse la presenza del vasto ipogeo sottostante del frantoio scavato nella roccia ha portato ad una decisione in corso d’opera di prudenza per evitare crolli delle fondamenta fermando un iniziale progetto edile più ambizioso al solo pianterreno?

 

Quello che sembrava un edificio storico un po’ anonimo, (eccezion fatta per qualche minimale fregio opera degli abili scalpellini della “pietra leccese” e per i cancelletti in ferro battuto), tra i tanti del centro storico magliese, racchiudeva invece sotto di sé un tesoro che ne incrementa assai il suo complessivo valore e pregio!

 

Ubicazione del frantoio ipogeo di via Vittorio Veneto a Maglie con vista dall’alto di Google Maps. Ulteriori approfondimenti e studi permetteranno di capire da dove si accedeva al frantoio ipogeo, se dall’interno del palazzo o dal suo ampio giardino retrostante impreziosito da pergolati, se tali ingressi sono ancora accessibili o sono stati murati, e quale era il più antico accesso al frantoio, magari su quello che oggi è il fronte su via Vittorio Veneto o no. Da voci raccolte da abitanti di Maglie, di quel palazzo si rimarca il grande giardino retrostante, che effettivamente ben vediamo qui da Google Maps, ma anche la sua vasta cantina: questo ci fa ben sperare che ciò corrisponda alla conservazione di ampi tratti se non di tutto l’antico frantoio ipogeo.

 

Qui di seguito una foto dello stemma che campeggia sulla chiave d’arco del portone di ingresso principale. Portone posto in asse con la antistante via Luisa Frisari. Ricordiamo che comunque questa facciata dell’edificio è lungo via Vittorio Veneto.

 

Maglie, stemma sulla facciata dell’edificio costruito sopra il frantoio ipogeo di via Vittorio Veneto. Foto di Oreste Caroppo, pomeriggio del 18 maggio 2022. Si nota dalla parte interna della vetrata un piccolo geco (rettile autoctono chiamato in vernacolo magliese “scarpiune“, nel dialetto di Corigliano d’Otranto “salamitro“, mentre “lucertola fracedana” a Salice Salentino).

 

Vi vediamo raffigurata una torre sormontata da tre stelle e un leone alato, (nell’iconografia del Leone detto di San Marco o Marciano, con il libro del Vangelo dell’Evangelista Marco aperto), leone che sta sopra tre colli.

 

Stemma sulla facciata dell’edificio costruito sopra il frantoio ipogeo di via Vittorio Veneto a Maglie. Foto di Oreste Caroppo, pomeriggio del 18 maggio 2022. Sopra la torre si riconoscono tre stelle proprie dell’araldica del ramo salentino della famiglia “de Marco”.

 

E’ araldicamente parlando uno “stemma parlante”, almeno in parte, che ci richiama alla ricca e famosa famiglia locale dei De Marco, ancora nel nostro tempo possidente di vaste tenute, giardini gentilizi e palazzi nelle aree prossime a questo edificio nel medesimo centro storico magliese.

«De Marco: cognome patronimico che ha alla base il nome Marco, affermatosi per il culto di San Marco evangelista. Immigrati a Maglie da Tutino nei primissimi anni dell’Ottocento in quanto eredi della ricchissima famiglia Droso, la cui ultima discendente a Maglie fu una “soro Agnesa“; scelsero per impresa un ovale diviso in fascia, sormontato da corona gentilizia; in alto una torretta sotto tre stelle; in basso il leone di San Marco.» (estratto dalla monografia su Maglie del professor Emilio Panarese, Congedo Editore 1995).

Nel caso di questo specifico stemma magliese scolpito nella pietra leccese osserviamo come la corona che sormonta lo scudo pare corrispondere nella semantica otto-novecentesca del Regno d’Italia alla simbologia indicante un duca, “la corona di duca è cinta da otto fioroni d’oro (cinque visibili), sostenuti da punte con perla“; aspetti da approfondire.

Non sappiamo, per non aver indagato, quali vicissitudini e passaggi di proprietà hanno interessato l’edificio ed il sottostante frantoio, ma è assai probabile che l’edificio ottocentesco o del primo novecento in questione sia stato edificato inizialmente proprio dai De Marco, dato lo stemma sulla sua facciata.

Chiamo per questo quel frantoio ipogeo il “Trappeto del Leone di San Marco” o più semplicemente il “Trappeto del Leone”, in attesa di ulteriori studi che ne approfondiscano i legami, o meno, data la sua evidente vetustà, anche con il vicino monastero della Chiesa della Madonna della Scala (che vi dista meno di duecento metri), già chiesetta bizantina poi concessa nel 1585 ai Francescani conventuali che rimasero a Maglie fino al 1806.

 

Antico rosone romanico nella facciata laterale sulla via per Cutrofiano della Chiesa della Madonna della Scala a Maglie. Foto di Oreste Caroppo, mezzo dì del 27 maggio 2022. Notiamo anche l’uso architettonico della piattabanda.

 

Facciata laterale sulla via per Cutrofiano della Chiesa della Madonna della Scala a Maglie. Foto di Oreste Caroppo, mezzo dì del 27 maggio 2022. Era questa la facciata principale dell’edificio nell’ XI secolo d.C., si ritiene data anche la conservazione del piccolo rosone in stile romanico, prima di modifiche subite da quel tempio cristiano nei secoli successivi.

 

Non a caso ampi terreni li attorno erano detti del “cumentu” (voce vernacolare per “convento”) e la stessa chiesa è anche conosciuta come “Convento” o “Chiesa dell’Assunta, già nel 1522 aveva comunque titolo di “Sainte Marie de la Scala“. Alle spalle della chiesa sorgeva un hospitale per i poveri e gli infermi pellegrini.

 

Corpo di fabbrica possibile resto dell’antico hospitale-convento prossimo alla Chiesa della Madonna della Scala a Maglie. Foto di Oreste Caroppo, mezzo dì del 27 maggio 2022, via Pasquale de Lorentiis. Notai questo interessante corpo di fabbrica e il suo doccione decorato l’11 aprile 2021.

 

Antico doccione in pietra decorato dell’hospitale-convento prossimo alla Chiesa della Madonna della Scala a Maglie. Foto di Oreste Caroppo, mezzo dì dell’11 aprile 2021, via Pasquale de Lorentiis. Simili doccioni sporgono da corpo di fabbrica della adiacente chiesa come possiamo vedere da Street View di Google Maps.

 

Come digressione mi piace anche ricordare che a Maglie tra il ‘500 e fine ‘600 vi era una chiesetta dedicata a San Marco che si affacciava sull’attuale piazza principale del paese dove oggi vi è il palazzo in stile liberty e pietra leccese del famoso negozio di abbigliamento Candido.

 

Tornando alla facciata dell’edificio con nelle sue viscere il frantoio ipogeo qui in oggetto mi piace anche riportare questa foto di un suo particolare:

 

Particolare dell’inferriata a cancelletto delle porte dell’edificio costruito sul frantoio ipogeo di via V. Veneto a Maglie, porte poste ai due lati del grande portone centrale. Foto di Oreste Caroppo, pomeriggio del 18 maggio 2022. La citta di Maglie era nei decenni passati un rinomato centro per le produzioni artigianali in ferro battuto. Mi piace fare osservare alcuni particolari di questa inferriata. Al centro in alto vediamo quella che pare la sagoma in negativo di una donna con borsetta e ai suoi lati in simmetria speculare tra loro due circonferenze con dei segni S all’interno sul modello del famoso simbolo taoista dell’yin e yang (il taijitu).

 

Tra le pochissime notizie che son riuscito ad avere da famiglie che abitano nei pressi del dimenticato frantoio vi è quella relativa ad un triste episodio che pare avvenne proprio nell’edificio costruito sul trappeto: si tramanda di un fulmine che colpì quello stabile e vi uccise una persona all’interno.

La testimonianza di un’altra cavità ipogea di incerta natura si è avuta anni fa a seguito di un piccolo sink-hole avvenuto sempre in via Vittorio Veneto al centro dell’incrocio con via Sant’Antonio Abate, a circa 230 metri a Sud-Est del frantoio ipogeo in oggetto. Il problema arrecato alla strada fu risolto, forse tramite colmatura di materiale inerte, ma non saprei cosa fu rinvenuto sotto né se vi furono ispezioni.

In questa brevissima digressione su ulteriori misteri della Maglie sotterranea mi piace ricordare anche di una ampia cavita artificiale con sezione ad arco a tutto sesto della volta che fu intersecata alcuni anni or sono durante lo scavo per le fondamenta di un condominio nell’angolo tra via A. Pisino e via Clementina Palma (a circa 370 metri a Sud-Ovest del frantoio in oggetto), non seppi di che cosa si trattava.

Ben vengano vostri commenti in merito se avete maggiori dati su tutti questi aspetti del nostro sottosuolo e non solo.

 

Recentemente è stato recuperato dal Comune di Maglie un frantoio ipogeo sempre scavato nel suolo roccioso al centro di una “piazza chiusa” in via dei Foggiari e sempre nel centro storico. Interessante un accenno ad esso per le similitudini che rivela con il frantoio oleario pur ipogeo di via Vittorio Veneto, ad esempio nella forma e muratura della vasca di molitura e della mola. Stessa tecnologia olearia e con tutta probabilità operatività nei medesimi secoli.

 

Foto della macina del frantoio ipogeo di via dei Foggiari a Maglie recentemente recuperato e restaurato. Foto tratta dal web. Si nota un gran somiglianza anche della vasca di molitura con quella del frantoio ipogeo di via Vittorio Veneto.

 

Dal progetto presentato dal Comune di Maglie per il finanziamento regionale per il recupero di quell’area estraiamo questo interessante passo:

«Il paesaggio della terra del Salento è costellato di oliveti secolari che fanno da cornice a numerosi e altrettanto secolari frantoi o trappeti ipogei e semipogei. Essi occupano un posto di notevole interesse nel panorama storico-culturale e architettonico di Terra d’Otranto e, possono essere annoverati tra i più peculiari esempi di manufatti
archeologico-industriali presenti sul territorio salentino.
“[…] I trappeti sono generalmente tra noi tante grotte sotterranee scavate nel tufo, o in una specie di pietra calcarea più, o meno dura detta volgarmente ‘leccese’ […]”. Così Cosimo Moschettini, medico e studioso di “rustica olearia economia”, nel suo trattato “Osservazioni intorno agli ostacoli de’ trappeti feudali” edito a Napoli nel 1792, descriveva le strutture ipogee dove avveniva la trasformazione delle olive in olio.
I frantoi presenti sul territorio del Salento, realizzati nei secoli XV-XIX, sono prevalentemente ipogei, ricavati nel banco roccioso calcarenitico; pochi sono i semipogei. Su tutta la Terra d’Otranto (l’antica Terra d’Otranto era divisa in quattro circondari e comprendeva Lecce, Gallipoli, Brindisi e Taranto) nel 1880-1890 vi erano 1800 frantoi ipogei e semipogei. I trappeti sono sottostanti al piano stradale e raggiungono una quota di calpestio che varia da metri 3.00 a metri 4.50 circa: la loro altezza media all’interno varia da metri 1.70 a metri 3.00 circa.
Il fatto che fossero ipogei, scavati sottoterra, era studiato appositamente al fine di ottimizzare la conservazione del prodotto: la struttura, infatti, doveva avere una temperatura calda e costante (oscillante tra i 18° e i 20° centigradi), tale da favorire il deflusso dell’olio quando la pasta delle olive macinate erano sottoposte alla torchiatura e alla separazione dell’olio dalla “sintina” che si depositava nei pozzetti di decantazione. La struttura ipogea in esame è parte integrante di una più vasta realtà esistente nel territorio di Maglie, dove vi erano numerosi trappeti ipogei. Infatti nel 1876-1880, quando Maglie apparteneva alla Terra d’Otranto e al Circondario di Gallipoli, erano attivi ventuno frantoi. L’ipogeo ubicato nel nucleo antico di Maglie è stato interamente scavato nel banco roccioso calcarenitico locale e lo si può ascrivere, probabilmente, tra la fine del secolo XVI e la prima metà del secolo XVII. […] gli ordigni oleari (n.d.r.: in legno a seguito della loro disgregazione) non sono più in situ. […] Gli ambienti hanno un’altezza molto variabile da metri 1.90 a metri 2.60 circa. Per oltre quattro secoli il trappeto è stato attivo svolgendo il processo produttivo di trasformazione delle olive in all’olio. L’opificio ha smesso il suo ciclo produttivo verso il primo quarto del secolo XX poi venne abbandonato per motivi di natura igienica come accadde per la gran quantità di frantoi presenti nel Salento.»

Il termine italiano centro-meridionale “trappeto” (in salentino “trappitu“) viene dal latino trapētum o trapētus, a sua volta derivato dal greco τραπητόν, derivato dal verbo τραπέω che significa pigiare l’uva; trae dunque origine da termini riguardanti l’uva-vino ma indicava il frantoio per le olive, l’opificio per la estrazione dell’olio d’oliva. Si chiamava invece “palmento” la vasca larga e poco profonda, con pareti di mattoni o anche scavata nella roccia impermeabile, usata per la pigiatura e la fermentazione dei mosti nell’Italia meridionale, e specialmente in Puglia, Calabria e Sicilia, o più in generale il luogo in cui vi erano tali vasche.

 

Cosa altro potrebbe rivelare l’esplorazione del frantoio di via Vittorio Veneto?

Solitamente oltre al bacino della vasca per la molitura con la macina in questo tipo di frantoi ipogei salentini è possibile trovare diversi ulteriori elementi e ambienti, una scala ad una rampa per accedervi, alcuni depositi per le olive in gergo meglio noti come “sciave“, fori in alto per l’areazione, un ambiente destinato a stalla con mangiatoie dove vi era il mulo o l’asino cui si faceva girare la pesante ruota di pietra dura (mola) della molitura, una zona destinata alla torchiatura dove si possono trovare sia resti di torchi a due viti del tipo detto “alla calabrese”, sia di torchi a una vite del tipo detto “alla genovese”, sia sul banco roccioso della copertura che sul piano di calpestio gli alloggiamenti delle parti in legno (disfattesi nel tempo) dei torchi e i blocchi di pietra calcarea dove essi poggiavano, le piattaforme per gli alloggi dei fiscoli e i pozzetti di decantazione, ambienti con grandi “pile” (recipienti scavati in blocchi monolitici di pietra calcarea locale) per il deposito dell’olio e una zona dove i trappetari si riposavano, lavabi in pietra, resti di terrecotte, tra cui le immancabili lucerne ad olio, e ossa animali, magari anche resti delle parti in legno di travi, mensole o altri componenti di torchi (“ordigni oleari”) e dei mulini, resti di fiscoli che erano realizzati in fibre animali/vegetali facilmente deperibili nel tempo come del resto il legno, chiodi e altri manufatti-utensili di metallo, graffiti sulle pareti di vario genere, come croci, raffigurazioni del Sole in quegli ambienti oscuri, tacche per la misurazione, ecc. (e persino in alcuni casi eccezionali intere battaglie, come la Battaglia di Lepanto del 1571 raffigurata sulle pareti in muratura del frantoio oleario semi-ipogeo nel palazzo dei Protonobilissimo di Muro Leccese). Tutti elementi importanti da ricercare, salvaguardare e studiare, e reperti da conservare gelosamente in situ.

L’indagine ulteriore risponderà alle domande ancora aperte, “quando è stato realizzato lì il frantoio?”, “per quanto tempo è stato in funzione?”, “era già presente una qualche cavità naturale o artificiali poi ampliata adattata a frantoio o il tutto fu scavato appositamente per la realizzazione dell’opificio oleario? E se già presente e artificiale una cavità o complesso di cavità, che precedenti funzioni avevano avuto?”, “ci furono cambi nel tempo in merito all’archeologia industriale?”, ecc.

Quanti altri antichi frantoi ipogei sono presenti e conservati ancora oggi a Maglie in corrispondenza di aree pubbliche o private che siano?

 

Il paese di Maglie era un famoso centro per la raccolta delle olive provenienti dagli oliveti circostanti, la loro molitura (o frangitura detta) sotto pesanti macine e spremitura (o torchiatura detta) nei torchi per ricavarne l’olio d’oliva che veniva avviato in gran parte verso i principali porti salentini per la vendita e l’imbarco verso altri paesi anche nord europei. Particolarmente importante era in tal senso il porto di Gallipoli. Famoso è un tratto di antica carrareccia, nominata dai locali “l’antica via dell’olio“, in feudo di Maglie, ben conservata, dove si notano i solchi scavati nei secoli dal passaggio delle ruote dei carri e al loro centro dagli zoccoli dell’animale da traino (sovente il cavallo), sulla roccia affiorante di  calcarea “pietra leccese”. Essa conduceva da Maglie verso Ovest, proprio verso Gallipoli. Maglie sorge nel cuore del basso Salento tra Otranto a Est e Gallipoli a Ovest.

 

“La Via vecchia dell’Olio”, plurisecolare carrareccia in feudo di Maglie (Lecce) in direzione di Gallipoli contrada “Muntarrune” sulla serra (collina del basso Salento) con affioramenti di banchi di miocenica “pietra leccese”, bordata da macchia mediterranea con caratteristica presenza di Quercia spinosa di Palestina (Quercus coccifera subspecie calliprinos). Ore 18 del 19 settembre 2020. Foto di Oreste Caroppo.

 

Questa mia foto di quella carrareccia fu assai apprezzata e premiata in un concorso dei geologi di Puglia (Sigea), per approfondimenti vedi i miei commenti al mio correlato post facebook.

Segue un mio post facebook solo per ricordare l’importanza degli vari utensili adoperati per lavorare la pietra calcarea.

 

Puntiddu” martello per rompere i sassi e lavorare i “cuti” (le grandi rocce calcaree affioranti, come sono chiamate in Salento, levigate dall’azione carsica). Pesante martello simmetrico a punta sulle sue due estremità proveniente da un cavamonti di Cursi (Lecce), un lavoratore estrattore della calcarea “pietra leccese”. Foto presso la bancarella di un rigattiere nel mercato settimanale di Maglie (Lecce), rigattiere che mi ha raccontato di quell’arnese che aveva colpito la mia attenzione.

Non solo si cavavano e scolpivano massi, si scavavano intere grotte, ma anche le rocce affioranti su cui passavano le carrarecce venivano opportunamente modellate per permettere il migliore transito dei carri e dei loro animali da tiro.

 

NOTA: diverse grotte artificiali ho scovato negli anni passati nell’hinterland di Maglie e meritano di essere segnalate e tutelate, come quella sulla via per Cutrofiano all’altezza dell’intersezione con la circonvallazione ovest di Maglie scavata sfruttando un dosso roccioso (“nu munte” si direbbe in vernacolo), o quella più piccola con piccolo dromos di ingresso bordato di massi a pianta circolare in contrada Murichella, sempre scavata sfruttando un dosso roccioso, quest’ultima fa parte di un interessante complesso litico ipo ed epigeo, la grotta ha una fessura rettangolare sulla volta coperta di pietre giustapposte e il tutto è sormontato dai resti di un tumulo di pietrisco, cippi informi vagamente conici si scorgono nei dintorni, coppelle e bacinelle sono scavate sul banco roccioso accanto all’ipogeo. In un caso e nell’altro cavità segnalate da alberi di Fico comune (Ficus carica) cresciuti affondando le radici in esse sfruttando la maggiore umidità che connota una grotta rispetto alle altre zone del medesimo costone roccioso.

 

Mi piace ricordare che veniva chiamato “nachiru” in dialetto salentino il capo dei frantoiani; etimologia: dal greco “ναύκληρος” (nàucleros): specificamente, “padrone o proprietario di una nave”, genericamente. Il termine indicava chi in un “trappitu” sovraintendeva ai “trappitari” (i frantoiani) nella stagione della molitura delle olive. Capitava che intere ciurme nel periodo della raccolta delle olive lasciassero l’attività marinaresca con baricentro nei porti salentini per dedicarsi al lavoro nell’industria olearia dei frantoi. Ecco perché si ritrovano vari termini del gergo dei marinai tra quello dei frantoiani salentini, tra questi oltre a “nachiru” possiamo citare anche il termine dialettale “sintina” che indica le acque di vegetazione ottenute nel frantoio dalle olive dopo la separazione dell’olio dal liquido di spremitura; acque di scarto, rifiuto della filiera produttiva dell’olio d’oliva che però possono essere, in un regime di agroecosostenibilità, un ottimo fertilizzante se ridate con misura agli stessi ulivi. “Sintina” deriva dal termine latino e italiano sentina che indica nella costruzione navale la parte interna e più bassa del fondo di ogni galleggiante, dove si raccolgono le acque, penetrate dall’esterno o prodotte dalla condensazione dell’umidità dell’aria, del vapore, e ogni altro liquido (compresa, una volta, anche l’acqua lurida). La “sintina” del frantoio paragonata quindi alle putride acque di sentina non potabili delle imbarcazioni delle quali a bordo ci si deve disfare gettandole fuori bordo anche per garantire la buona galleggiabilità del mezzo natante.

 

Suggestiva scena con i marinai vogatori dal film “Ben Hur”.

 

Le condizioni di lavoro nei frantoi oleari salentini erano così dure e sudicie che, come leggiamo di seguito, vi era il detto salentino in dialetto:

Se oi cu ssai le pene de lu nfiernu, fane nu mese e menzu de trappitu:

la prima notte perdi lu sonnu, l’atre perdi lu sonnu e l’appititu

 

 

Non stupisce poi anche il paragone con l’inferno cristiano essendo spesso associate ad esso nel sentire popolare le grotte naturali, le voragini, come anche le cavità scavate artificialmente come sovente erano scavati artificialmente i frantoi ipogei in Salento. La stessa etimologia della parola “inferno”, del resto, dal latino vuol dire “luogo che sta sotto”.

 

Nella zona di Torre Lapillo e villaggio Boncore, sempre in provincia di Lecce, raccolsi da gente del luogo il ricordo di un efferato omicidio che ebbe come sua macabra scenografia proprio un trappeto: si racconta di un assalto dei briganti avvenuto di notte ai danni degli operai di un “trappitu”, una masseria con frantoio delle olive poco distante dal villaggio Boncore, chissà avvenuto quanto tempo or sono, ma un evento tale da lasciare un ricordo continuamente lì tramandato. Un operaio catturato (un “trappitaru” dunque) fu gettato dai briganti nella macina delle olive e molito insieme ad esse, lo spettacolo raccapricciante; un secondo operaio riuscì a fuggire dopo una colluttazione con loro, ma morì poi su una strada nei pressi di un bosco, e lì fu poi così ritrovato, e quella contrada di Torre Lapillo è chiamata per questo da allora “dell’uomo morto”, (toponimo non di recente genesi poiché riportato anche nelle cartine topografiche 1:25000dell’IGM – Istituto Geografico Militare, “Contr. Uomo Morto”), e nome di quel bosco e dell’intera insenatura sabbiosa tra Torre Lapillo e Scalo di Furno, e lì di un bacino retrodunale. Questa almeno è la tramandata spiegazione che la persona del posto da me intervistata conosceva per quel tragico toponimo!

 

Disegno dal web di un immaginario “laurieddhu” secondo la tradizione.

 

Leggende popolari salentine vogliono poi che ad animare i frantoi, soprattutto quelli ipogei maggiormente avvolti dalle tenebre, fossero anche speciali esseri, né umani né animali, i cosiddetti “uri, o “laurieddhi“, descritti come folletti dispettosi e fastidiosi. A Maglie in particolare sono chiamati “scazzamurieddhi“. Non sono esclusivi comunque dei frantoi ipogei; si narra della loro comparsa anche nelle stalle, ecc.

Nei paesi salentini dove si parla ancora anche il griko, il dialetto grecanico salentino, oltre al dialetto romanzo locale, tali esseri fantasiosi sono pure chiamati “sciacuddhi, che etimologicamente dal greco vuol dire piccole ombre, e un po’ tale etimologia ci richiama anche a quei fantasmi malvagi chiamati invece dalla tradizione salentina “malumbre“.

 

Nei trappeti, sorta di proto-industrie, si produceva l’oro liquido del Salento, l’olio d’oliva!

Il Salento era terra a fortissima devozione in epoca antica per la dea pagana Atena (Minerva chiamata dai Romani), dea cui era associato il sacro albero d’olivo; sede non a caso di suoi importantissimi santuari, ad esempio sulla costa del Canale d’Otranto. Ed è terra con diverse contrade dove il microclima e il suolo sono assai congeniali alla vita di questa essenza vegetale tanto caratteristica e forte, imperitura, del bacino del Mediterraneo e delle civiltà sviluppatesi attorno ad esso.

 

Versi del poeta Virgilio inneggianti alla vitalità degli Ulivi sempre ripollonanti dopo ogni avversità, incendi inclusi. Vitalità che mostrano in questi anni in Salento anche gli Ulivi più acciaccati!

 

Una storia e una cultura che ci devono portare sempre più a combattere le ingerenze della Falsa ecologia contemporanea e della sua mala-agronomia, serva delle multinazionali capitaliste transumaniste, che stanno soggiogando e distruggendo il nostro territorio e le sue antiche cultivar olearie da aridocultura selezionate dai nostri avi nei secoli e assai adattate al nostro territorio, e ciò con le menzogne scientiste delle fitopatie attribuite a parassiti naturali più o meno esotici ma in realtà provocate con la folle snaturata agrochimica industriale presentata furbescamente come curativa e in realtà causa di ogni agro-male, ciò per passare a cultivar spacciate come resistenti e modificate brevettate, magari anche OGM, di ulivo abbisognanti secondo protocollo anche di tanta agrochimica per una speculazione senza fine che sia autoalimenta!

 

Sugli Ulivi, Aristotele, Costituzione degli Ateniesi. Foto del Tempio della Concordia ad Agrigento

 

Diciamo sonoramente convintamente: BASTA ALLA FALSA ECOLOGIA!

 

Brano musicale di sottofondo: “Ballo del fiore” del compositore Fabritio Caroso (1526-1600), musica del Rinascimento italiano

 

Un ulteriore brano musicale: Galliarda ”Su l’erba fresca” musica rinascimentale italiana di anonimo

 

     Oreste Caroppo     maggio 2022

 

 

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