Salento: reintrodurre la GRANDE OTARDA, la Gallina prataiola, Coturnici, Starne, ecc.

Salento: reintrodurre la GRANDE OTARDA, la Gallina prataiola, Coturnici, Starne, ecc.

Le praterie mediterranee della costa Otranto-Santa Maria di Leuca, dell’hinterland di Lecce, di Arneo, ecc. siano utilizzate per la reintroduzione della Grande otarda in primis, dell’Otarda minore e della Coturnice

nell’entroterra nelle aree più fresche si tenti anche la introduzione della Starna

 

Quei luoghi sono il potenziale habitat della Otarda minore (Gallina Prataiola – Otis tetrax), che ancora non è ritornata copiosamente, ma si sta reintroducendo meritoriamente nel Nord della Puglia, e della Grande otarda (Otis tarda), anche da fare reintrodurre quest’ultima come pure l’han reintrodotta in Inghilterra dopo secoli di assenza!

 

Grande otarda (Otis tarda) – copertina.

 

La testimonianza della presenza anche della Grande otarda in Salento la si ritrova nelle faune di Grotta Romanelli a Castro in Salento per il Paleolitico superiore.

Osserviamo questo paesaggio spagnolo dove ancora questi animali sono ben presenti:

 

Guardiamo per confronto i paesaggi salentini dei prati rocciosi e con campi coltivati dove questi uccelli possono ben ritornare:

 

In un quadro di epoca moderna:

 

Attribuito a Giorgio Duranti (Brescia 1683-Palazzolo sull’Oglio 1753) ANATRE E OTARDA NEI PRESSI DI UN CORSO D’ACQUA.

 

Le Grandi otarde erano comuni ergo in passato ancora in Italia come dimostra questo dipinto … ma oggi la Falsa ecologia ne impedisce la reintroduzione!

Queste le principali aree di sopravvivenza più prossime oggi della Grande otarda: area danubiana, Penisola iberica, Anatolia

Areale di distribuzione odierno della Grande otarda (Otis tarda) dall’articolo al link. Si capisce come il Salento sia ancora nel Mediterraneo al centro del suo vasto areale oggi frammentato per causa antropica.

Area da cui prelevare esemplari, poche coppie, per le riproduzioni/allevamento a fini reintroduttivi.

 

 

Più nota è la presenza anche in Terra d’Otranto in tempi più recenti della Otarda minore (anche chiamata Gallina prataiola).

 

Gallina prataiola, disegno di una coppia. Dimorfismo sessuale: a destra il maschio a sinistra la femmina. Immagine dal Web al link.
Ossa di Gallina prataiola da Grotta Romanelli a Castro di Minerva (Lecce) – Paleolitico.
Animali selvatici quindi che hanno sfamato le popolazioni locali per millenni e millenni, e poi tutto distrutto dall’uomo per eccesso di prelievo e compromissione degli habitat.
Gallina prataiola – maschio.
Nell’hinterland di Maglie è ancora nel ricordo di anziani cacciatori la presenza della Gallina prataiola che viveva in particolare nel pianoro carsico chiamato “i Chiani” che si estendevano tra Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Sogliano Cavour, Galatina, Corigliano d’Otranto e Melpignano.
Esemplare femmina di Gallina prataiola imbalsamata – Liceo classico ”P. Colonna” Galatina – collezioni scientifiche. Non conosciamo il luogo e l’anno del suo abbattimento, ma il fatto che sia proprio a Galatina rende molto interessante l’esemplare, forse frutto di attività venatoria in zona.
Oggi è una assolta rarità! Era chiamata localmente “Turlita” la Gallina prataiola, (dato tratto dalle ricerche naturalistiche dell’ingegnere Roberto Aloisio di Maglie). Ma anche a Otranto c’è chi conserva memoria della sua caratteristica presenza decenni or sono in zona Laghi Alimini in contrada Masseria Pozzello (dato fornitomi da Elio Paiano studioso idruntino e giornalista).
Gallina prataiola, esemplare maschio, in volo.

 

I Chiani sono una area caratterizzata da steppa mediterranea, suoli rocciosi di calcarenite, con rocce affioranti (“cuti” chiamate in dialetto locale), zone brulle, dette di “nicchiarica” in vernacolo, dominate da Scilla marittima (“cipuddhiazzu“, anche chiamato Cipolla marina), e asfodeli, con voragini attive come quella di Masseria Torre Mozza, chiamata “Avisu” (dal greco abisso), più in particolare “Avisu da Turre” in cui affluiscono dei canali (“il Canale Lame” detto) che vengono dall’area paludosa stagionalmente dei Paduli, il canalone carsico “de lu Riu“, l’area delle masserie Francavilla dove si dice che nacque e visse Santa Cesarea, la Masseria Petrore (un toponimo che fa riferimento alla pietrosità dell’area), Masseria Appidè con la voragine omonima (“appidèa” in griko, il dialetto grecanico salentino, è il nome del pero domestico, come confermatomi dalla studioso locale Paolo Dimitri di Calimera).

Area preposta alla raccolta delle erbe eduli, e vi son documenti dei secoli trascorsi dove si concede questo privilegio esente da tasse agli abitanti di Scorrano nell’area di contrada Francavilla, grossomodo, ce ne parlò in un’ escursione tempo fa lì lo studioso e soprintendente Giovanni Giangreco di Scorrano.
Aree ai margini della Foresta di Cutrofiano-Belvedere in quel tempo ora ricoperta in parte da macchia mediterranea avanzante, lì dominata da Quercia spinosa, ora smacchiata e bruciata, aree di buon pascolo. Zone rinomate per la raccolta dei funghi detti “cardunceddhi” (cardoncelli).
I Chiani, frequentati anche dalle Pavoncelle, sono un luogo caratterizzato dalla presenza del bellissimo Lino delle fate piumoso (Stipa austroitalica), una specie caratteristica dell’ambiente della steppa mediterranea in Puglia, tipica dell’hinterland di Maglie nel Sud Salento.
LINO delle FATE PIUMOSO (Stipa austroitalica) Maglie, contrada FRANITE,
foto di Oreste Caroppo
Stupenda e rarissima graminacea inclusa nella Lista Rossa nazionale delle specie a rischio, presente nel feudo di Maglie e Scorrano nei prati rocciosi carsici, habitat della pseudo-steppa mediterranea, protetto dalla Direttiva Habitat 92/43/CEE.
“Austro-italica” vuol dire del sud Italia. Nella mitologia greca, infatti, Austro (od Ostro) era il nome di uno dei quattro venti, quello del sud, appunto.
Localmente nel Salento veniva raccolta come erba ornamentale secca, e chiamata anche volgarmente “a nebbia” per il suo caratteristico aspetto piumoso. Da un mio post facebook del 7 giugno 2013.

Guardate il bellissimo progetto assolutamente da proseguire che hanno sviluppato nell’Oasi Lago Salso nel nord Puglia coordinato dall’infaticabile naturalista del Nord della Puglia Vincenzo Rizzi.

È ormai difficile vedere progetti di vero alto valore naturalistico come questi.
C’è la volontà di sviluppare progetti simili anche nei parchi delle Murge, urgono anche in Salento!

Se ormai da noi sono scomparse o in rarefazione si va a prenderne esemplari dove ancora ci sono in buon numero così da farli allevare, fare riprodurre e reintrodurre. Cioè è lapalissino ma viene spesso ostacolato dai falsi ecologisti con varie scuse e pastoie speculative (sconfinati copia/incolla definiti “studi di fattabilità” a monte della realizzazione di questi progetti, solo ad esempio, spesso inutili costosissimi da commissionare a “periti”), persino questioni di “lana caprina” di purismo verde razzista verde e bizantinismi burocratici, ipotesi sconfinate di danni, malattie, infezioni e pericoli e rischio di maltrattamenti degli animali nelle operazioni più degne di indagini sulle nevrosi fobiche-ossessive o di artefatte perizie assicurative che di studi ecologisti … contro tutto questo servono colpi secchi contro i nodi gordiani da parte di persone intelligenti sagge e pragmatiche, in una o due sole parole “veri naturalisti” nei posti giusti della macchina amministrativa!

Né vanno eliminati certo i predatori dal territorio prima, come qualcuno vorrebbe, “contro Volpi, Faine, Martore, Poiane e ora anche gli Sciacalli dorati”.
Ad esempio parlando della Grande otarda per reintrodurla una delle aree più prossime a cui accedere può essere l’area danubiana dove ancora le Grandi otarde hanno una buona presenza e guarda caso sono le stesse aree dove abbondante è la presenza dello Sciacallo dorato!  Già solo questo deve fare capire qualcosa!

Non c’è nulla di più semplice delle reintroduzioni se si punta sul numero, massima riproduzione in cattività e numerosi rilasci. Invece nei progettini ipercostosi oggi di sovente pseudo-rinaturalizzazione falso-ecologista i costi maggiori sono indirizzati allo stalking tecnologico di pochissimi esemplari rilasciati. Va bene monitorare qualche esemplare a fini di maggiore conoscenza, ma si è arrivati alla follia del monitoraggio satellitare o con altro mezzo tecnologico di ogni capo rilasciato, per di più con invasivi strumenti di registrazione, ricezione e invio che ne fiaccano il ritorno in natura stesso degli animali oberati da corpi estranei hi-tech costosi nei loro corpi o adesi ad essi!

Se non vengono utilizzati i parchi naturali di ogni tipo istituiti per queste reintroduzioni coordinate dallo Stato di grande interesse e appeal, i parchi naturali servono a poco e rischiano anzi di impegnarsi in progetti speculativi inutili e devastanti di razzismo verde (contro specie bollate esotiche e/o dannose) e/o di infrastrutturazione da industriale impattante falso-green economy e/o persino orrida costosa land-art di dubbio gusto.

Scorcio delle praterie costiere otrantine:

 

Contrada “Orte” a Otranto, 4 giungo 2020, foto di Roberto Aloisio.

 

Fondamentale per tutto questo lo stop ai pesticidi chimici industriali in agricoltura, e una attenzione nelle pratiche agricole, modi e tempi, a tutela dei nidi.

Discutiamo con i cacciatori e spieghiamo l’importanza di non uccidere questi uccelli che si dovranno reintrodurre, anzi coinvolgiamoli attivamente. Si deve discutere con loro, è molto più facile che siano entusiasti e interessati loro a reintrodurre in collaborazione con gli enti preposti nella speranza di una futura caccia, che non i falsi animalisti, che temendo la prospettiva futura di una possibile caccia vorrebbero bloccare ogni rinaturalizzazione ed estinguere oggi artificialmente ogni cosa, con sterilizzazioni seriali, cessazioni di allevamento e reintroduzioni-ripopolamenti, eutanasia in forme secondo loro cruelty-free, una pazzia che stanno follemente tentando di attuare!

Nei virtuosi progetti di rinaturalizzazione coordinati dalle autorità statali preposte siano coinvolte le masseria didattiche; gli enti parco si appoggino ad esse per allevamento della esatta specie Otis tarda e Tetrax tetrax, e quante più ce ne sono fertili e riproduttive nelle fattorie didattiche tanto più le fughe accidentali di alcuni esemplari – conseguentemente ripopolamenti – sarebbero eventi graditi!

Così come per altre specie di facile allevamento bucolico per i ripopolamenti, Lepri (europee/italiche) e Conigli selvatici europei (Oryctolagus cuniculus, questi attestati tra le faune pleistoceniche del Salento e da far tornare diffusi in natura). Le Quaglie e i bellissimi Fagiani colchici (della varietà con colletto o senza), immancabili nel nostro paesaggio antropocenico in cui si devono rispettare e mantenere fertili e presenti tutte le specie senza razzismo verde e sue demonizzazioni strumentali.

Per di più il Fagiano ha rivelato una maggiore espansione del suo areale in Europa nel Pleistocene, così come in Europa in tempi preistorici pre-domesticazione il genere Gallus, lo stesso genere dell’Eurasia da cui derivano la nostre galline domestiche!

Apprezzare le specie autoctone ed esotiche naturalizzatesi, le specie selvatiche e le specie o varietà domestiche (da allevare sempre in forme bucoliche) anche magari apprezzandole se inselvatichite (vedi ad esempio il bellissimo caso dei Pavoni a Marina di Ravenna insidiati dai professionisti del biocidio della Falsa ecologia, sebbene già introdotti in Europa dagli antichi greci almeno). A tutto ciò nella rinaturalizzazione fondamentale l’opera statale pro reintroduzione delle specie estinte territorialmente, per il Salento quindi è doveroso reintrodurre anche Starne (nell’entroterra) e Coturnici.

Quando la reintroduzione in Salento della Coturnice (Alectoris graeca) dalle aree peninsulari più prossime dove ancora vive?
Tra gli uccelli che nel paleolitico vivevano in Salento, documentati dalla faune fossili scoperte in Grotta Romanelli a Castro di Minerva (Lecce) (vedi questo studio divertitevi a capire tramite Google i nomi scientifici presenti nella tabella a quali uccelli corrispondono, una guida per la rinaturalizzazione e le reintroduzioni di avifauna) troviamo la Coturnice (Alectoris graeca), la Pernice rossa (Alectoris rufa), la Quaglia (Coturnix coturnix) e il Re di Quaglie (Crex crex).
Vediamo questo impegno a favore delle Coturnici in Sicilia:
In questo vaso del pittore detto della Rosa, datato 330-320 a.C. (alt. max 11,3 cm; diam. orlo 9,6 cm), in ceramica di Gnathia o ceramica di Egnazia, (che è una sottoclasse della ceramica apula che è datata dal 360-350 a.C. alla conquista romana di Taranto nel 272 a.C.) vediamo raffigurato un uccello, è classificato come Pernice, (potrebbe essere anche una autoctona Coturnice):
In questo vaso in stile Gnathia di produzione pugliese del pittore detto della Rosa, datato 330-320 a.C., una Pernice (possibile una autoctona Coturnice o la Pernice rossa). 
Aggiungo che mi pare di poter dire che l’uccello è posato su una grande foglia di Loro sacro d’acqua (Nelumbo nucifera). Non mi tornavano le dimensioni relative, una Coturnice su una piccola foglia di Ninfea? Viceversa il Loto d’acqua può produrre foglie enormi che ben possono reggere una Coturnice al centro! Le Ninfee sono autoctone in Italia (in Salento la Ninfea bianca era presente allo stato spontaneo ancora nell’ ‘800), ma anche il Loto d’acqua si trova nell’arte romana a Pompei. Il loto era presente in Europa nel Terziario e si ritiene reintrodotto nel Mediterraneo dall’uomo in antichità dall’Oriente (Asia). Dal confronto naturalistico la foglia circolare dipinta sul vaso ricorda di più quella del loto che non quella della ninfea,
Oggi i falsi ecologisti lo vorrebbero cancellare dall’Italia il Loto d’acqua per razzismo verde … mostri di ignoranza funzionale alle speculazioni biocide da fermare!
“Pernici” e “Starne”, come qui possiamo leggere, son annoverate tra gli uccelli che connotavano il cuore del basso Salento anche nei recenti secoli passati dove vi era la Foresta di Belvedere.
Sotto il nome “pernici”, in riferimento al documento, certamente si annoveravano proprio le Coturnici che appartengono alla sottofamiglia Perdicinae, (Coturnice diffusa anche nei Balcani oltre che nel sud Italia), e magari anche la Pernice rossa (Alectoris rufa), molto simile alla Coturnice ma più rara oggi nel sud Italia, comunque è attestata nel Salento pleistocenico come sopra rimarcato.
Da ridiffondere anche il Re di Quaglie dal caratteristico verso stridente:
Anche la Starna (Perdix perdix) come la Pernice, la Coturnice, il Fagiano e la Quaglia appartiene tassonomicamente all’Ordine Galliformes, Famiglia Phasianidae, Sottofamiglia Perdicinae.
Nell’entroterra salentino nelle aree più fresche si tenti anche la introduzione della Starna:
Starna (Perdix perdix). Immagine dal web.

 

Nel Pleistocene la Starna (Perdix perdix) è attestata in Salento dalla paleontologia (vedi risultati degli scavi paleontologici nell’area di Avetrana ad esempio).

Tutto questo deve svolgersi senza razzismi verdi: introdurre e non togliere/sterilizzare qualcosa!

Pernice rossa- Isola d’Elba.
Il mio commento:
Nel razzismo verde la strage è a discrezione
guardate qui il giro che fanno, leggete, poi alla fine arrivano a più miti consigli. Bene, forse qualche protesta e denuncia del razzismo verde serve.
Ma poi se le due “specie” si sono incrociate e ciò da prole fertile
altolà
c’è un errore:
stanno chiamando specie diverse ciò che specie diverse non sono!
Io non posso accoppiarmi con una babbuina e avere prole fertile, siamo specie diverse,
Ergo si deve parlare di due razze, varietà diverse, sottospecie se le due tipologie di uccelli si son accoppiati con prole fertile in Italia, ergo poi dunque neppure nessun vero danno!
Ora vuoi le più pure secondo te?
Va bene te le riselezioni e diffondi le più pure, ma giù le mani da quanto è presente!
A Lecce hanno visto delle coturnici tempo fa, le hanno dette Alectoris chukar, ciò le orientali, senza neppure conferma vera, e via demonizzazione e ricerca per catturarle, invece di chiedere di rilasciarle ad hoc e ripopolare un po’!
Invece di festeggiare sia che fossero scappate, sia che fossero state lasciate deliberatamente da cacciatori o meno, sia che fossero giunte in migrazione e invece demonizzazione!

 

Grande otarda (Otis tarda).

 

Da un mio post facebook del 4 giugno 2020.

 

In merito alle Quaglie nel Salento:

 

Quaglie comune (la specie autoctona Coturnix coturnix).

 

RIPRISTINARE ASSOLUTAMENTE LA BUCOLICA TRADIZIONE DEL “TIRO ALLA QUAGLIA” NEL CAPO DI LEUCA IN CHIAVE NATURALISTICA!

Con queste aggiunte e riadattamenti:
-) fiera concomitante con vendita/donazione di coppie di Quaglie comune (la specie autoctona Coturnix coturnix) da allevare nei propri giardini godendo così delle loro eduli uova e facendole riprodurre;
-) rilascio di alcune coppie come simbolo di rinascita e per un bel ripopolamento continuo, utilizzando allevamenti locali, e Quaglie che si è riusciti a far nascere in casa da quelle degli anni precedenti, gesto di buon augurio per la comunità e le famiglie;
-) non disperare ma considerare come naturale e anche giusto per la catena alimentare e l’intera biodiversità il fatto che alcune di queste Quaglie possano poi essere predate da Gatti e Cani;
-) sostituzione delle Quaglie da prendere a sassate secondo la tradizione con Quaglie fatte di creta e cotte nei forni del Salento, Quaglie dalle forme realistiche che diventino anche un oggetto artistico simbolico della tradizione. Oppure sagome in cartone o paglia per il bersaglio sempre in forma di Quaglia;
-) permettere anche l’uso di fionde a molle e forcella e quelle arcaiche a corde rotative (stile Davide biblico contro Golia, ma anche utilizzate negli eserciti italici e romani dell’antichità, la “funda“, frombola), in un campo adeguato per la sicurezza ma assolutamente dall’estetica bucolica rispettosa del Genius loci, e valutare come organizzare la competizione, con singoli, con squadre rionali o meno, con le sezioni per i bambini e per gli adulti;
-) accompagnare la fiera con la vendita anche di altri galliformi come i Fagiani colchici e Galli/Galline (Gallus gallus) due specie che pochi sanno essere attestate già in Europa in tempi pre-olocenici, e così anche altri galliformi come Coturnici, ecc. di cui studiare e favorire il ritorno in libertà in Puglia.

Il racconto della originale tradizione da parte dello studioso antropologo ed etnografo Giovanni Monteduro  di Castrignano del Capo (di Leuca) che ringrazio:

“Oreste purtroppo la tradizione del “tiro alla quaglia” a Castrignano del Capo non si pratica più da anni (Io ne ho 43 e non l’ho mai vista). Resta un ricordo, sempre più sbiadito, degli ultimi anziani del paese. Veramente pochi e ultraottantenni. Come mi raccontavano alcuni, anche mio nonno buonanima, era usanza che qualche giorno prima dei festeggiamenti della “Madonna de le Muredde” (Morelle), l’8 settembre, nel viottolo antistante la cappella rurale tutt’ora esistente si svolgesse “lu tiru alla quaja“. Consisteva nel colpire una quaglia viva legata per le zampe, in modo che non svolazzasse perdendosi tra i rovi, posta su un muricciolo, tirandogli una o più pietre (grandezza più piccola di un pugno, “più o meno nu pusciddu” ) del valore di “due soldi” ciascuna. Chi riusciva a centrala, non necessariamente doveva ammazzarla, se ne appropriava. Qualcuno mi diceva che le quaglie venivano poi donate a persone povere. Questa però è una versione che non sono riuscito a verificare, mancando ovviamente altre fonti di conferma. Però è possibile. I fondi raccolti con il “tiro” venivano poi utilizzati per la festa in paese in onore della Madonna. Una festa che era molto sentita. I più anziani la portano ancora nel cuore. Si prelevava la statua dalla cappella, adiacente il cimitero, e la si portava in processione nel paese. Dove si tributavano onori anche con banda e colpi secchi. La si riportava in cappella il giorno dopo.

La storia della Madonna delle Morelle, è storia simile a tante altre storie salentine di madonne sotterrate o nascoste sotto le macerie, protagoniste poi di ritrovamenti a volte “magici” o “miracolosi” ; ed è ha fondamenti reali. Te ne scriverò.”

Da un mio post facebook del 5 febbraio 2020.

 

APPENDICE

Un dipinto naïf sulla facciata esterna di un semplicissimo edificio rurale colonico in blocchi di pietra leccese, in un uliveto non lontano dalla “Pineta de lu Pumu”, in un’ area al confine tra i feudi di Maglie e Melpignano.

 

Foto del 20.08.2006 di Oreste Caroppo, parete esterna di una casa colonica, zona ”Pineta del Pumu”, zona al confine tra i feudi di Melpignano e Maglie.

 

Mi colpì tanto la sua presenza e la sua semplicità quando lo scovai durante le escursioni di bambino in zona, dove mia nonna paterna possedeva un piccolo uliveto.
Finalmente tornai poi lì con la fotocamera digitale per strapparlo alla distruzione del tempo con questo scatto del pomeriggio del 20.08.2006, che con piacere ora condivido con tutti.
Probabilmente un fagiano quello in basso, presenza caratteristica del Salento e quasi immancabile nei dipinti a tema venatorio. L’ albero a destra pare un Palma da dattero anch’ essa diffusa presenza nel paesaggio salentino sin da epoca messapica forse (a giudicare da alcuni ritrovamenti archeologici di semi di datteri).
Questo dipinto, largo circa una cinquantina di centimetri, di alcuni decenni or sono, racconta di un rapporto con la campagna, dei contadini e dei cacciatori, ispirato da una profonda ispirazione artistica, quasi un istinto ininterrotto dai tempi paleolitici quando sulle pareti delle loro grotte i cacciatori paleolitici raffiguravano naturalisticamente gli animali che vedevano quotidianamente nelle loro battute di caccia, come ad esempio sulle pareti di Grotta Romanelli a Castro sempre in Salento.
Un rapporto di profonda apertura a lasciarsi ispirare dalla natura, che è il segreto delle opere d’arte e delle realizzazioni umane più belle e armoniose, da riscoprire sempre!

Da un mio post facebook del 5 dicembre 2015.

 

Foto intitolata “IN ARCADIA EGO“.
Una stupenda foto bucolica che esalta l’importanza pittoresca degli allevamenti bradi lungo la costa salentina del Canale d’Otranto con visibile qui la chiamata “Torre Minervino”. Si vedono in foto pecore di razza di sarda, (ma in zona sono allevate anche pecore di razza moschia leccese), le bianche capre ioniche e capre di altre varietà, (in Puglia è allevata anche la capra garganica nera).
Un meraviglioso scatto realizzato dall’ingegnere Roberto Aloisio e da lui intitolato con la suggestione bucolica al famoso motto epigrafico misterioso “Et in Arcadia ego“, e pensiamo che la regione greca dell’Arcadia non è di fatto troppo lontana proprio da questi luoghi da cui si possono vedere i territori greci e albanesi all’orizzonte, (vi dista l’Arcadia in linea d’aria circa 400 km soprattutto di mare).
Foto mattina del 7 aprile 2019.

 

Approfondiamo anche sul Francolino nero (Francolinus francolinus)

Qui un bell’articolo dal titolo intrigante “Il Francolino degli italiani: una storia che merita di essere raccontata“, che ho condiviso in un mio post facebook del 10 settembre 2022.

 

 

Ricaviamo da quell’articolo che la specie era già ben nota già agli antichi greci, che non disdegnavano affatto la pratica della caccia agli uccelli e soprattutto ne apprezzavano le carni. I Romani identificarono il Francolino col termine greco latinizzato “attagen ionius” e con questo termine è citato, per la squisitezza delle carni, da Orazio nel I secolo a.C., e da Marziale nel I d.C. In ambito romano il francolino veniva esclusivamente allevato a scopo alimentare. Leggiamo che Federico II di Svevia (1194-1250), re anche della Puglia, conosceva bene il Francolino nero e lo cita più volte nel suo trattato sulla falconeria, “De arte venandi cum avibus”. Vengono riportate indicazioni di presenza della specie in natura a Roma, nel napoletano, in Calabria, in Toscana e in Lombardia. Con il passare del tempo le popolazioni  si rarefanno e, ad inizio ‘800, la specie viene considerata rara.

E’ il momento di reintrodurla dal Mediterraneo orientale (Anatolia e Medio Oriente mediterraneo) dove ancora vive e dove si ritiene autoctona la specie, o anche a partire dagli allevamenti. Nel medioevo il francolino, assieme ai fagiani e alle pernici, era una delle prede d’eccellenza dell’astoreria, la caccia di “volo basso” con l’uso degli Accipitridi. La falconeria in senso lato, compresa quella di “volo alto” con l’utilizzo di Falconidi, era una prerogativa della nobiltà e forse questo fu il presupposto si ritiene dell’introduzione della specie nei regni cristiani del Mediterraneo centro-occidentale; ancora oggi il Francolino nero vive in Portogallo! Né possiamo escludere una sua antica diffusione anche naturale nel Mediterraneo centrale.

 

Oreste Caroppo

 

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