Salento: reintrodurre la GRANDE OTARDA, la Gallina prataiola, Coturnici, Starne, ecc.
Salento: reintrodurre la GRANDE OTARDA, la Gallina prataiola, Coturnici, Starne, ecc.
Le praterie mediterranee della costa Otranto-Santa Maria di Leuca, dell’hinterland di Lecce, di Arneo, ecc. siano utilizzate per la reintroduzione della Grande otarda in primis, dell’Otarda minore e della Coturnice
nell’entroterra nelle aree più fresche si tenti anche la introduzione della Starna
Quei luoghi sono il potenziale habitat della Otarda minore (Gallina Prataiola – Otis tetrax), che ancora non è ritornata copiosamente, ma si sta reintroducendo meritoriamente nel Nord della Puglia, e della Grande otarda (Otis tarda), anche da fare reintrodurre quest’ultima come pure l’han reintrodotta in Inghilterra dopo secoli di assenza!
La testimonianza della presenza anche della Grande otarda in Salento la si ritrova nelle faune di Grotta Romanelli a Castro in Salento per il Paleolitico superiore.
Guardiamo per confronto i paesaggi salentini dei prati rocciosi e con campi coltivati dove questi uccelli possono ben ritornare:
In un quadro di epoca moderna:
Le Grandi otarde erano comuni ergo in passato ancora in Italia come dimostra questo dipinto … ma oggi la Falsa ecologia ne impedisce la reintroduzione!
Areale di distribuzione odierno della Grande otarda (Otis tarda) dall’articolo al link. Si capisce come il Salento sia ancora nel Mediterraneo al centro del suo vasto areale oggi frammentato per causa antropica.
Area da cui prelevare esemplari, poche coppie, per le riproduzioni/allevamento a fini reintroduttivi.
Più nota è la presenza anche in Terra d’Otranto in tempi più recenti della Otarda minore (anche chiamata Gallina prataiola).
I Chiani sono una area caratterizzata da steppa mediterranea, suoli rocciosi di calcarenite, con rocce affioranti (“cuti” chiamate in dialetto locale), zone brulle, dette di “nicchiarica” in vernacolo, dominate da Scilla marittima (“cipuddhiazzu“, anche chiamato Cipolla marina), e asfodeli, con voragini attive come quella di Masseria Torre Mozza, chiamata “Avisu” (dal greco abisso), più in particolare “Avisu da Turre” in cui affluiscono dei canali (“il Canale Lame” detto) che vengono dall’area paludosa stagionalmente dei Paduli, il canalone carsico “de lu Riu“, l’area delle masserie Francavilla dove si dice che nacque e visse Santa Cesarea, la Masseria Petrore (un toponimo che fa riferimento alla pietrosità dell’area), Masseria Appidè con la voragine omonima (“appidèa” in griko, il dialetto grecanico salentino, è il nome del pero domestico, come confermatomi dalla studioso locale Paolo Dimitri di Calimera).
Guardate il bellissimo progetto assolutamente da proseguire che hanno sviluppato nell’Oasi Lago Salso nel nord Puglia coordinato dall’infaticabile naturalista del Nord della Puglia Vincenzo Rizzi.
Se ormai da noi sono scomparse o in rarefazione si va a prenderne esemplari dove ancora ci sono in buon numero così da farli allevare, fare riprodurre e reintrodurre. Cioè è lapalissino ma viene spesso ostacolato dai falsi ecologisti con varie scuse e pastoie speculative (sconfinati copia/incolla definiti “studi di fattabilità” a monte della realizzazione di questi progetti, solo ad esempio, spesso inutili costosissimi da commissionare a “periti”), persino questioni di “lana caprina” di purismo verde razzista verde e bizantinismi burocratici, ipotesi sconfinate di danni, malattie, infezioni e pericoli e rischio di maltrattamenti degli animali nelle operazioni più degne di indagini sulle nevrosi fobiche-ossessive o di artefatte perizie assicurative che di studi ecologisti … contro tutto questo servono colpi secchi contro i nodi gordiani da parte di persone intelligenti sagge e pragmatiche, in una o due sole parole “veri naturalisti” nei posti giusti della macchina amministrativa!
Non c’è nulla di più semplice delle reintroduzioni se si punta sul numero, massima riproduzione in cattività e numerosi rilasci. Invece nei progettini ipercostosi oggi di sovente pseudo-rinaturalizzazione falso-ecologista i costi maggiori sono indirizzati allo stalking tecnologico di pochissimi esemplari rilasciati. Va bene monitorare qualche esemplare a fini di maggiore conoscenza, ma si è arrivati alla follia del monitoraggio satellitare o con altro mezzo tecnologico di ogni capo rilasciato, per di più con invasivi strumenti di registrazione, ricezione e invio che ne fiaccano il ritorno in natura stesso degli animali oberati da corpi estranei hi-tech costosi nei loro corpi o adesi ad essi!
Se non vengono utilizzati i parchi naturali di ogni tipo istituiti per queste reintroduzioni coordinate dallo Stato di grande interesse e appeal, i parchi naturali servono a poco e rischiano anzi di impegnarsi in progetti speculativi inutili e devastanti di razzismo verde (contro specie bollate esotiche e/o dannose) e/o di infrastrutturazione da industriale impattante falso-green economy e/o persino orrida costosa land-art di dubbio gusto.
Scorcio delle praterie costiere otrantine:
Fondamentale per tutto questo lo stop ai pesticidi chimici industriali in agricoltura, e una attenzione nelle pratiche agricole, modi e tempi, a tutela dei nidi.
Discutiamo con i cacciatori e spieghiamo l’importanza di non uccidere questi uccelli che si dovranno reintrodurre, anzi coinvolgiamoli attivamente. Si deve discutere con loro, è molto più facile che siano entusiasti e interessati loro a reintrodurre in collaborazione con gli enti preposti nella speranza di una futura caccia, che non i falsi animalisti, che temendo la prospettiva futura di una possibile caccia vorrebbero bloccare ogni rinaturalizzazione ed estinguere oggi artificialmente ogni cosa, con sterilizzazioni seriali, cessazioni di allevamento e reintroduzioni-ripopolamenti, eutanasia in forme secondo loro cruelty-free, una pazzia che stanno follemente tentando di attuare!
Nei virtuosi progetti di rinaturalizzazione coordinati dalle autorità statali preposte siano coinvolte le masseria didattiche; gli enti parco si appoggino ad esse per allevamento della esatta specie Otis tarda e Tetrax tetrax, e quante più ce ne sono fertili e riproduttive nelle fattorie didattiche tanto più le fughe accidentali di alcuni esemplari – conseguentemente ripopolamenti – sarebbero eventi graditi!
Così come per altre specie di facile allevamento bucolico per i ripopolamenti, Lepri (europee/italiche) e Conigli selvatici europei (Oryctolagus cuniculus, questi attestati tra le faune pleistoceniche del Salento e da far tornare diffusi in natura). Le Quaglie e i bellissimi Fagiani colchici (della varietà con colletto o senza), immancabili nel nostro paesaggio antropocenico in cui si devono rispettare e mantenere fertili e presenti tutte le specie senza razzismo verde e sue demonizzazioni strumentali.
Per di più il Fagiano ha rivelato una maggiore espansione del suo areale in Europa nel Pleistocene, così come in Europa in tempi preistorici pre-domesticazione il genere Gallus, lo stesso genere dell’Eurasia da cui derivano la nostre galline domestiche!
Apprezzare le specie autoctone ed esotiche naturalizzatesi, le specie selvatiche e le specie o varietà domestiche (da allevare sempre in forme bucoliche) anche magari apprezzandole se inselvatichite (vedi ad esempio il bellissimo caso dei Pavoni a Marina di Ravenna insidiati dai professionisti del biocidio della Falsa ecologia, sebbene già introdotti in Europa dagli antichi greci almeno). A tutto ciò nella rinaturalizzazione fondamentale l’opera statale pro reintroduzione delle specie estinte territorialmente, per il Salento quindi è doveroso reintrodurre anche Starne (nell’entroterra) e Coturnici.
Nel Pleistocene la Starna (Perdix perdix) è attestata in Salento dalla paleontologia (vedi risultati degli scavi paleontologici nell’area di Avetrana ad esempio).
Tutto questo deve svolgersi senza razzismi verdi: introdurre e non togliere/sterilizzare qualcosa!
Da un mio post facebook del 4 giugno 2020.
In merito alle Quaglie nel Salento:
RIPRISTINARE ASSOLUTAMENTE LA BUCOLICA TRADIZIONE DEL “TIRO ALLA QUAGLIA” NEL CAPO DI LEUCA IN CHIAVE NATURALISTICA!
Con queste aggiunte e riadattamenti:
-) fiera concomitante con vendita/donazione di coppie di Quaglie comune (la specie autoctona Coturnix coturnix) da allevare nei propri giardini godendo così delle loro eduli uova e facendole riprodurre;
-) rilascio di alcune coppie come simbolo di rinascita e per un bel ripopolamento continuo, utilizzando allevamenti locali, e Quaglie che si è riusciti a far nascere in casa da quelle degli anni precedenti, gesto di buon augurio per la comunità e le famiglie;
-) non disperare ma considerare come naturale e anche giusto per la catena alimentare e l’intera biodiversità il fatto che alcune di queste Quaglie possano poi essere predate da Gatti e Cani;
-) sostituzione delle Quaglie da prendere a sassate secondo la tradizione con Quaglie fatte di creta e cotte nei forni del Salento, Quaglie dalle forme realistiche che diventino anche un oggetto artistico simbolico della tradizione. Oppure sagome in cartone o paglia per il bersaglio sempre in forma di Quaglia;
-) permettere anche l’uso di fionde a molle e forcella e quelle arcaiche a corde rotative (stile Davide biblico contro Golia, ma anche utilizzate negli eserciti italici e romani dell’antichità, la “funda“, frombola), in un campo adeguato per la sicurezza ma assolutamente dall’estetica bucolica rispettosa del Genius loci, e valutare come organizzare la competizione, con singoli, con squadre rionali o meno, con le sezioni per i bambini e per gli adulti;
-) accompagnare la fiera con la vendita anche di altri galliformi come i Fagiani colchici e Galli/Galline (Gallus gallus) due specie che pochi sanno essere attestate già in Europa in tempi pre-olocenici, e così anche altri galliformi come Coturnici, ecc. di cui studiare e favorire il ritorno in libertà in Puglia.
Il racconto della originale tradizione da parte dello studioso antropologo ed etnografo Giovanni Monteduro di Castrignano del Capo (di Leuca) che ringrazio:
“Oreste purtroppo la tradizione del “tiro alla quaglia” a Castrignano del Capo non si pratica più da anni (Io ne ho 43 e non l’ho mai vista). Resta un ricordo, sempre più sbiadito, degli ultimi anziani del paese. Veramente pochi e ultraottantenni. Come mi raccontavano alcuni, anche mio nonno buonanima, era usanza che qualche giorno prima dei festeggiamenti della “Madonna de le Muredde” (Morelle), l’8 settembre, nel viottolo antistante la cappella rurale tutt’ora esistente si svolgesse “lu tiru alla quaja“. Consisteva nel colpire una quaglia viva legata per le zampe, in modo che non svolazzasse perdendosi tra i rovi, posta su un muricciolo, tirandogli una o più pietre (grandezza più piccola di un pugno, “più o meno nu pusciddu” ) del valore di “due soldi” ciascuna. Chi riusciva a centrala, non necessariamente doveva ammazzarla, se ne appropriava. Qualcuno mi diceva che le quaglie venivano poi donate a persone povere. Questa però è una versione che non sono riuscito a verificare, mancando ovviamente altre fonti di conferma. Però è possibile. I fondi raccolti con il “tiro” venivano poi utilizzati per la festa in paese in onore della Madonna. Una festa che era molto sentita. I più anziani la portano ancora nel cuore. Si prelevava la statua dalla cappella, adiacente il cimitero, e la si portava in processione nel paese. Dove si tributavano onori anche con banda e colpi secchi. La si riportava in cappella il giorno dopo.
La storia della Madonna delle Morelle, è storia simile a tante altre storie salentine di madonne sotterrate o nascoste sotto le macerie, protagoniste poi di ritrovamenti a volte “magici” o “miracolosi” ; ed è ha fondamenti reali. Te ne scriverò.”
Da un mio post facebook del 5 febbraio 2020.
APPENDICE
Un dipinto naïf sulla facciata esterna di un semplicissimo edificio rurale colonico in blocchi di pietra leccese, in un uliveto non lontano dalla “Pineta de lu Pumu”, in un’ area al confine tra i feudi di Maglie e Melpignano.
Mi colpì tanto la sua presenza e la sua semplicità quando lo scovai durante le escursioni di bambino in zona, dove mia nonna paterna possedeva un piccolo uliveto.
Finalmente tornai poi lì con la fotocamera digitale per strapparlo alla distruzione del tempo con questo scatto del pomeriggio del 20.08.2006, che con piacere ora condivido con tutti.
Probabilmente un fagiano quello in basso, presenza caratteristica del Salento e quasi immancabile nei dipinti a tema venatorio. L’ albero a destra pare un Palma da dattero anch’ essa diffusa presenza nel paesaggio salentino sin da epoca messapica forse (a giudicare da alcuni ritrovamenti archeologici di semi di datteri).
Questo dipinto, largo circa una cinquantina di centimetri, di alcuni decenni or sono, racconta di un rapporto con la campagna, dei contadini e dei cacciatori, ispirato da una profonda ispirazione artistica, quasi un istinto ininterrotto dai tempi paleolitici quando sulle pareti delle loro grotte i cacciatori paleolitici raffiguravano naturalisticamente gli animali che vedevano quotidianamente nelle loro battute di caccia, come ad esempio sulle pareti di Grotta Romanelli a Castro sempre in Salento.
Un rapporto di profonda apertura a lasciarsi ispirare dalla natura, che è il segreto delle opere d’arte e delle realizzazioni umane più belle e armoniose, da riscoprire sempre!
Da un mio post facebook del 5 dicembre 2015.
Approfondiamo anche sul Francolino nero (Francolinus francolinus)
Qui un bell’articolo dal titolo intrigante “Il Francolino degli italiani: una storia che merita di essere raccontata“, che ho condiviso in un mio post facebook del 10 settembre 2022.
Ricaviamo da quell’articolo che la specie era già ben nota già agli antichi greci, che non disdegnavano affatto la pratica della caccia agli uccelli e soprattutto ne apprezzavano le carni. I Romani identificarono il Francolino col termine greco latinizzato “attagen ionius” e con questo termine è citato, per la squisitezza delle carni, da Orazio nel I secolo a.C., e da Marziale nel I d.C. In ambito romano il francolino veniva esclusivamente allevato a scopo alimentare. Leggiamo che Federico II di Svevia (1194-1250), re anche della Puglia, conosceva bene il Francolino nero e lo cita più volte nel suo trattato sulla falconeria, “De arte venandi cum avibus”. Vengono riportate indicazioni di presenza della specie in natura a Roma, nel napoletano, in Calabria, in Toscana e in Lombardia. Con il passare del tempo le popolazioni si rarefanno e, ad inizio ‘800, la specie viene considerata rara.
E’ il momento di reintrodurla dal Mediterraneo orientale (Anatolia e Medio Oriente mediterraneo) dove ancora vive e dove si ritiene autoctona la specie, o anche a partire dagli allevamenti. Nel medioevo il francolino, assieme ai fagiani e alle pernici, era una delle prede d’eccellenza dell’astoreria, la caccia di “volo basso” con l’uso degli Accipitridi. La falconeria in senso lato, compresa quella di “volo alto” con l’utilizzo di Falconidi, era una prerogativa della nobiltà e forse questo fu il presupposto si ritiene dell’introduzione della specie nei regni cristiani del Mediterraneo centro-occidentale; ancora oggi il Francolino nero vive in Portogallo! Né possiamo escludere una sua antica diffusione anche naturale nel Mediterraneo centrale.
Oreste Caroppo