Il PINGUINO BOREALE – quanto sarebbe bello se fosse ritrovato ancora in vita, se tornasse! E non solo lui …
Il PINGUINO BOREALE
quanto sarebbe bello se fosse ritrovato ancora in vita, se tornasse!
E non solo lui …
Riporto da Quaderni di birdwatching – Archeornitologia (tiscali.it):
«Si tratta di un uccello della famiglia degli Alcidi, diffuso fino al secolo scorso nell’Atlantico settentrionale dalla Norvegia fino alle coste di Terranova. La caccia spietata a cui la specie è stata sottoposta dai balenieri prima e dai collezionisti museali poi, ne ha decretato la completa estinzione intorno alla metà del 1800. Curiosamente questa specie rappresenta il vero pinguino in quanto è proprio con questo termine che i balenieri europei battezzarono i noti uccelli australi, notando la straordinaria somiglianza morfologica con le Alche impenni.
L’Alca impenne era un grosso uccello, alto oltre 70 centimetri ed inabile al volo a causa della ridotta superficie delle sue ali che utilizzava come propulsori durante il nuoto subacqueo (Bengston, 1984; Birkhead, 1993). Il nome impenne sta ad indicare La sua dieta era esclusivamente piscivora e durante le ere glaciali era diffusamente presente anche sulle scogliere del Mediterraneo occidentale come documentato dai numerosi resti fossili rinvenuti dalla penisola iberica fino alle coste italiane (Cassoli, 1992).» (Da Quaderni di birdwatching – Archeornitologia (tiscali.it))
Per lo studio si sono utilizzati campioni di ossa e tessuti da 41 esemplari nei musei di tutta Europa, Regno Unito e Stati Uniti. Gli esemplari coprono il periodo che va da circa 15.000 anni fa, fino alla data di estinzione. L’analisi del DNA di questi esemplari non mostra segni che il “Great Auk” (come chiamato in inglese il Pinguino boreale) stesse soffrendo di alcun tipo di declino naturale a causa del cambiamento climatico o di altre sfide ambientali. Non soffrivano di una mancanza di diversità genetica come era stato precedentemente ipotizzato come un possibile fattore di rischio nel loro declino. Questo lascia l’eccessivo prelievo umano come l’unico colpevole logico della loro scomparsa!
Vedi questo articolo del 2016: “Can the great auk return from extinction?“, si comincia a parlare nel mondo dell’ipotesi ancora al limite della fanta-scienza della de-estinzione del Pinguino boreale! E se dovesse essere tecnicamente possibile, di certo l’uomo lo farà!
Vediamo anche questo sempre recente interessante articolo dal titolo “Un complotto ordito per reintrodurre il grande alca estinto sulle coste britanniche” sul Telegraph del 2016, dove leggiamo che “l’Alca impenne potrebbe tornare sulle coste britanniche per la prima volta dopo quasi 200 anni dopo che i genetisti hanno escogitato un piano per riportare in vita l’uccello estinto”. Dei naturalisti eroi cospirazionisti assetati pertanto dal desiderio di un ritorno ad una selvaticità ricca di biodiversità in Europa, di fronte al depauperamento causato da eccessiva pressione antropica nei secoli, spinti da virtuoso spirito di rewilding! Sarebbe anche e persino ancor più bello se restando in campo complottista delle organizzazioni celate e potenti lo avessero conservato per tutto questo tempo in vita in qualche bioparco segreto in qualche parte del mondo, per farlo poi da lì tornare. E ribadisco la grande importanza conservazionista degli zoo grazie ai quali è tornato a vivere in selvatico in Europa il Bisonte europeo, parente/discendente di quei bisonti che nel Pleistocene vivevano in Sud Italia, in Molise come in Salento come attestato dalla paleontologia. Bisonti poi dall’uomo estinti con una caccia senza contenimento in natura e per fortuna conservati con coppie fertili in cattività per da lì la possibile rinascita e rinaturalizzazione!
Troviamo anche tra gli uccelli marini, oltre alla Sula bassana, la Berta maggiore e la Berta minore, quest’ultima mi piace ricordare anche già documentata con ossa fossili in Grotta Romanelli a Castro.
A Great Auk scans the Atlantic Ocean from atop a rock on Fogo Island, Newfoundland. Link.
Sulla costa della Penisola di Reykjanes davanti a faraglioni dove nidificava l’Alca impenne in Islanda. Dal link.
Anche in Mediterraneo dove la popolazione di Foche monache ha subito negli ultimi decenni un drastico calo a causa dell’uomo, delle associazioni ecologiste, di vero buon ecologismo, hanno fatto scolpire ed esporre statue di quei mammiferi, una madre con cucciolo, in siti dove le Foche monache era ben presenti nel recente passato, in Grecia, Italia, ecc. Stesso archetipo. E dopo tale iniziativa, sarà una coincidenza, o un effetto di sensibilizzazione, o chissà una magia mi piace credere, un ABRACADABRA, ma di fatto si è assistito in Italia, (e anche in Salento) ad un ritorno e crescita numerosa negli ultimi anni di avvistamenti di foche monache e lor cuccioli lungo le coste sia sabbiose che rocciose. Tanti dati in questo mio post facebook e nei miei commenti ad esso.
Ergo opportuno proporre anche qualche sito della costa salentina sul Canale d’Otranto per ubicare una copia delle belle statue in bronzo dell’Alca impennis che vediamo in queste foto sopra, iniziativa curata dall’artista Todd McGrain nell’ambito del suo Lost Bird Project, oppure coinvolgendo artisti locali e utilizzando materiali quali anche magari la pietra o il legno ma con il vincolo di una riproduzione sempre massimante naturalistica!
Un breve documentario con ricostruzione video dell’Alca impenne (in inglese “Great Auk”, grande alca letteralmente):
Ricostruzione fotografica con Alca impenne:
Di fatto l’estinzione dell’Alca impenne ha lasciato vuota una nicchia ecologica nell’Emisfero Boreale che forse nei millenni che verranno potrà essere occupata da una nuova evolutasi specie di Alca incapace di volare e grande derivata da un ramo evolutivo distaccatosi da quello dell’attuale Alca torda (Gazza marina), da qui la grande importanza della massima conservazione della biodiversità a fini conservazionistici. Ciò per il cosiddetto fenomeno evoluzionistico della radiazione adattativa.
CONCLUSIONI
Da queste considerazioni ecologiste ed evoluzioniste capiamo la molteplice importanza della biodiversità e della conservazione delle specie fortunatamente ad oggi sopravvissute in natura ed in protetti bioparchi-orti botanici-banche del seme dove valorizzare la loro fertilità, per un loro ritorno nei nostri territori anche spontaneamente quando le condizioni climatiche dovessero tornare loro congeniali, per una rievoluzione di specie simili alle scomparse nelle nicchie ecologiche rimaste svuotate dalla loro estinzione a partire dalle specie più prossime e per interventi di rinaturalizzazione assistita dall’uomo. Chissà se sarà possibile biotecnicamente anche per opere di de-estinzione, tramite ingegneria genetica o tramite la più tradizionale tecnica della selezione artificiale su animali selvatici o domestici allevati di una specie/varietà prossima e con studiati incroci, accoppiamenti o tramite inselvatichimento e sottoposizione a selezione naturale di varietà domestiche. Abbiamo già accennato al caso del Mammut e dei suoi cugini ancora viventi, l’Elefante asiatico indiano e l’Elefante africano. Pensiamo poi anche all’estinto Rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis) (che visse nel Pleistocene superiore durante l’ultima Grande Glaciazione anche in Salento, suoi resti rinvenuti infatti in Grotta Romanelli a Castro ad esempio) e noto oltre che tramite il rinvenimento di parti del suo scheletro, anche per la sua raffigurazione rupestre nell’arte paleolitica e persino grazie a interi esemplari ritrovati mummificati e conservati nel permafrost in zone siberiane (ergo con maggiore facilità oggi di estrazione e ricostruzione del suo patrimonio genetico); pare che abbia nel vivente Rinoceronte di Giava il suo parente filogeneticamente più prossimo. Pensiamo poi al Ghiottone (Gulo gulo) e al Gufo delle nevi (anche detto Civetta della nevi, nome scientifico Nyctea scandiaca o sinonimo Bubo scandiacus) documentati dalla paleontologia nella Puglia settentrionale e alla Volpe artica documentata dai fossili in Grotta Romanelli animali questi che vissero in Puglia durante l’ultima Grande Glaciazione e che oggi sopravvivono in aree fredde nordiche da cui potranno poi tornare quando nel nostro Quaternario, in cui ancora geologicamente siamo, come ormai ciclico, le temperature globali torneranno a calare. Nell’Ottocento ancora fu documentata da botanici la presenza della Betulla bianca (Betula alba pendula) sul Gargano (lì segnalata dal botanico Rabenhorst nel 1849-50, presenza botanica ad oggi purtroppo non più rilevata da allora), oggi la ritroviamo arretrata sui monti del Cilento e sul Vesuvio (“Vituddu” , “Bituddu” sono i suoi più diffusi nomi dialettali nel Sud Italia)! Un relitto botanico della grande glaciazione ultima del Quaternario. Fece scalpore nel novembre 2021 l’avvistamento in Spagna di Gufi delle nevi, provenienti da aree scandinave probabilmente, ciò in realtà mostra la grande facilità di spostamento per numerosi animali anche su grandi distanze e la loro possibilità di ricolonizzare vecchi territori in tempi anche rapidi al ritorno delle condizioni congeniali alle loro esigenze-abitudini. Si aggiunga che nei periodi di forte glaciazione il livello del mare si abbassava anche di oltre 100 m facendo emergere tante terre oggi sommerse e facilitando ancor di più gli spostamento per gli animali inatti al volo, animali che talvolta poi sono anche in grado di nuotare per chilometri non solo attraversando fiumi ma anche, come rivelato per i Cinghiali, nuotando in mare aperto ad esempio in Mediterraneo. Così sempre per l’ultima Grande Glaciazione l’Alce è documentata da resti fossili nella Pianura Padana, la Renna da reperti ossei in Liguria e in graffiti e in pitture paleolitiche in grotte dell’Europa occidentale, e oggi ritroviamo l’Alce già vivente in selvatico in Polonia e la Renna in area scandinava. Lo Stambecco (Capra ibex) e la Marmotta (Marmota marmota) documentate per l’Ultima Grande Glaciazione da resti in Grotta Romanelli e la Lepre variabile/bianca (Lepus timidus) documentata dai fossili nelle Grotte delle Stiare vivono fortunatamente ancora in area alpina (la Lepre variabile/bianca anche in aree più nordiche dell’Eurasia). Il genere del Camoscio attestato in area murgiana e garganica foggiana in Puglia sempre per il Paleolitico superiore lo si rinviene oggi già nel centro Italia, in area pirenaica, sulle Alpi e in Illiria sui Monti Acrocerauni in Albania che ben si osservano talvolta dal Salento quando il cielo è terso. Il Macaco silvano di cui abbiamo attestazione a Isernia e in altre località del centro Italia per il Pleistocene lo ritroviamo ancora vivente in Nord Africa e sulla Rocca di Gibilterra; opportuno iniziare a crearne dei nuclei selvatici nei parchi naturali peninsulari italiani di questa scimmia euro-africana da tempo immemore. A Isernia nel Pleistocene è attestata la presenza del Castoro euroasiatico (Castor fiber) specie oggi di nuovo in diffusione in Italia, anche già in Italia centrale, (qui leggiamo della presenza del Castoro documentata in provincia di Isernia, Molise ergo, sia nel Pleistocene sia nel medioevo). In Sicilia furono presenti nel Pleistocene, e più in generale nel Pliocene in Europa, delle tartarughe terrestri giganti le cui discendenti/parenti prossime tutt’ora viventi possono essere ritrovate nella grande Testuggine africana (Geochelone sulcata); per cui si guardi ad esse con occhi diversi e più eco-inclusivi quando allevati in aree del sud Italia. Nel Terziario prima del Quaternario già Camaleonti sono rilevati dalla Paleontologia in Europa, e oggi dei Camaleonti vivono lungo il bacino del Mediterraneo, come in Salento e Calabria. Il canide Cuon alpinus attestato per il Pleistocene in Salento oggi sopravvive in Asia. E’ attestato già il Daino (Dama dama) e il genere Hystrix del Porcospino (o Istrice detto) in Terra d’Otranto nel Pleistocene. Nel Pleistocene in Salento la paleontologia documenta la presenza dell’Elefante antico; documenta la presenza dell’Ippopotamo antico stretto parente dell’attuale Ippopotamo anfibio che vive in Africa (e documentato storicamente fino al delta del Nilo, fiume africano che sfocia nel Mediterraneo). Si documenta la presenza di Leoni (Panthera leo subspecie spelaea, ad esempio ad Avetrana in provincia di Taranto) e Leopardi (Panthera pardus) nel Pleistocene in Salento, e ancora oggi vivono Leoni (Panthera leo) e Leopardi appartenenti alle medesime specie nel Vecchio Mondo, in Africa e Asia, Leopardi anche nel Caucaso. Si documenta la presenza del Gatto selvatico in Salento nel Pleistocene che ancora vive come Gatto selvatico e con le sue derivate sottospecie domestiche di origine euro-mediterranea in Salento. Si documenta la presenza di Linci comuni e Linci pardine che ancora oggi vivono rispettivamente in area alpina e iberica, e per le quali non mancano in Salento indizi di presenza in tempi storici dalle fonti. Così per il Pleistocene abbiamo documentazione della presenza di Conigli selvatici in Salento, la specie era Oryctolagus cuniculus che oggi vive in natura ancora nella Penisola Iberica e in alcune aree italiane peninsulari come in Sicilia, suo diretto discendente appartenete alla medesima specie è il domestico Coniglio paesano in Salento. Preda base della Lince pardina, la reintroduzione del Coniglio selvatico in Salento (che è auspicio le autorità competenti avviino al più presto) sarà fondamentale anche per permettere un ritorno di tale lince. La Grande Otarda è attestata per il passato salentino con diverse altre specie di uccelli che tutte vivono ancora altrove in territori dai quali provvedere per le reintroduzioni rinaturalizzanti. Nel Pleistocene Iene vivevano in sud Italia, Salento incluso, la specie era Crocucta crocuta subspecie spelaea, stessa specie defacto della cosiddetta Iena ridens (Crocuta crocuta) che oggi vive nell’Africa subsahariana. Nel Caucaso, Nord Africa, Medio Oriente, ecc. vive un’altra specie della stessa famiglia Hyaenidae, la Iena striata (Hyaena hyaena). In Salento nel Pleistocene è documentato l’Uro il selvatico Bos taurus primigenius, sia da reperti ossei sia da arte paleolitica (vedi la rappresentazione di un bovide inciso su una pietra trovata in Grotta Romanelli), sebbene estinto in selvatico possiamo ben rivederlo nelle mucche podoliche pugliesi e nelle macrocere podoliche maremmane sue dirette discendenti e invocare un loro inselvatichimento per una riselezione naturale nel verso dell’Uro.
Queste mucche podoliche conservano poi diversi caratteri interessanti, dimorfismo sessuale nelle corna che sono a forma di lira nella femmina e a semiluna nel maschio, i vitelli nascono con mantello fomentino che consente buon mimetismo, e hanno elevatissima rusticità, ottime per il pascolo brado. Abbiamo già accennato al Bisonte europeo nel corso dell’articolo. Parenti degli odierni Struzzi vivevano nel sud Europa nel Pleistocene poi forse cacciati ed estinti dall’uomo; j dati su ritrovamenti interessanti in Crimea. Qui leggiamo in “Summa Gallicana” che in tempi preistorici la presenza di Fagiani è attestata in Francia settentrionale, ergo in Europa; da guardare dunque di buon occhio il ripopolamento in Salento con Fagiani colchichi, (fagiani sia nella variante senza collarino che quella, più esotica pare, con collarino bianco), del resto il nome colchico indica la europea Colchide, l’area caucasica dove oggi la specie è autoctona. L’antenato selvatico del Gallo domestico, il Gallus gallus, è il Gallo selvatico rosso della giungla che vive oggi in Asia, ma anche il genere Gallus da reperti fossili è attestato in tempi preistorici in Grecia centrale e in Francia nella zona di Parigi, ergo in Europa. Nel Pleistocene troviamo il genere Gallus anche in Italia. Se così, in qualche modo, già in tempi antichi, l’uomo con l’allevamento ha riportato dall’ Asia il Gallo in Europa. Straniere non son dunque Galli e Galline da noi in Europa, tutt’altro, e un loro parziale inselvatichimento. In area garganica nel nord della Puglia la paleontologia ha scoperto i resti di una specie di Oca gigante (chiamata Garganornis ballmanni) vissuta nel Miocene 5,5 milioni di anni fa, come non guardare pertanto oggi con occhi diversi e naturalisticamente più ricchi alle grandi Oche domestiche del Campidoglio che vengono allevate e starnazzano libere nelle aie delle nostre masserie! Il Criceto comune (Cricetus cricetus), che oggi troviamo nell’ Europa orientale, nell’ultima Grande Glaciazione è attestaio in Pianura Padana. La paleontologia e anche lo studio di fonti storiche ha rivelato per il Pleistocene in Salento come nell’Olocene la presenza di Lepri europee/appenniniche (ancora presenti o oggetto di ripopolamento venatorio), Volpi comuni, Lupi (recentemente tornati), Cinghiali (recentemente ridiffusisi anche in Terra d’Otranto), Caprioli (che ancora vivono sul Gargano), Cervi (nei boschi della Mesola sul Delta del Fiume Po sopravvivono ancora Cervi autoctoni italiani), Istrici, Martore (Martes martes, già da ossa rinvenute in Grotta Romanelli per il Pleistocene sia da fonti storiche più recenti, zoologi dell’ottocento), Lontre (Lutra lutra, già da ossa rinvenute in Grotta Romanelli per il Pleistocene, sia da fonti storiche più recenti, zoologi dell’ottocento), ecc. Fonti storiche ci dicono anche della presenza di Daini nei recenti secoli passati. In Grotta Romanelli tra l’avifauna documentata dalla paleontologia troviamo degli avvoltoi, in particolare l’Avvoltoio monaco (Aegypius monachus) e il Grifone (Gyps fulvus). Una originale, oggi contestata da alcuni, interpretazione paleontologica di ossa ritrovate in Grotta Romanelli segnalava già nel Pleistocene in Salento lo Sciacallo (Canis aureus), in ogni caso oggi la specie è in diffusione a partire dal Nord-Est nella Penisola Italiana, ha già superato verso Sud il Fiume Po; essa vive inoltre copiosa nei Balcani ad esempio anche nella vicina Albania. Nel Pleistocene troviamo attestati Rinoceronti del genere Stephanorhinus in Salento assai simili all’attuale Rinoceronte bianco africano. Sempre nel Pleistocene in Salento esistevano Cavalli selvatici (Equus caballus) assai simili agli attuali cavalli selvatici e/o inselvatichiti dell’Asia centrale (chiamati Cavalli di Przewalski) e Asini selvatici europei classificati nella specie chiamata Equus asinus hydruntinus nome che ricorda la scoperta paleontologica in Terra d’Otranto per la prima volta di questa specie, (forse lo stesso Asino selvatico, l’Onagro chiamato con nome di origine latina, che ancora vive nelle steppe asiatiche, mentre pare essere geneticamente più distante dall’Asino africano da cui si fanno discendere gli Asini domestici). E’ suggestivo pertanto vedere una continuità di presenza di questi equini nei campi di Puglia negli animali domestici, in particolare nel Cavallo murgese che appartiene comunque alla stessa specie Equus caballus e nel grande Asino di Martina Franca seppur questo discende per domesticazione dall’Asino africano, capiamo pertanto l’importanza nel territorio delle masserie tradizionali che permettono comunque ad animali simili a quelli del passato selvatici, loro parenti o proprio loro diretti discendenti, di continuare ad occupare nicchie ecologiche presenti nel territorio ma il tutto in forme di loro sfruttamento ecosostenibile da parte dell’uomo. Masserie tradizionali pertanto come importantissime arche di Noé da difendere e incentivare quando con attività svolte in forme bucoliche e fondate sul rispetto e valorizzazione della fertilità animale che assicura continuità di vita e conservazione nel tempo. E chiudiamo questo veloce e assai parziale excursus parlando dell’Orso; l’Orso bruno (Ursus arctos) ancora vive in centro e nord Italia e nei Balcani; nel Pleistocene troviamo in Salento attestato il genere Ursus ad esempio in Grotta Romanelli.
Questa carrellata veloce sugli animali, e altrettanto si potrebbe fare per altri regni del vivente, serve ad ampliare la visione naturalistica, e sulle potenzialità di biodiversità del territorio, superando la miopia di valutazione che potrebbe portare ad ostacolare la naturalizzazione spontanea e impedire la rinaturalizzazione assistita dall’uomo, e che potrebbe derivare dal nascere e vivere in un territorio già fortemente impoverito dall’uomo, tanto più se si considera la limitatezza temporale della vita del singolo per l’acquisizione di una certa saggezza naturalistica tramite l’accumulo di tanta esperienza personale.
La presenza ancora in vita di specie simili a quelle estinte nel territorio, sopravvissute altrove (magari anche in forme domestiche), rende le reintroduzioni assai facili. Laddove si è estinta una sottospecie la reintroduzione deve attingere alle sottospecie della medesima specie sopravvissute altrove e più prossime filogeneticamente e/o spazialmente; se invece l’estinzione ha riguardato una intera specie, allora occorre estendere lo sguardo a specie cogeneri prossime o comunque alle specie tassonomicamente (filogeneticamente) più prossime, contando sulla radiazione evolutiva nel verso della rioccupazione di una nicchia ecologica divenuta vacante e sulla convergenza evolutiva che implica evolutivamente simili forme e simili comportamenti in simili o nella stessa nicchia ecologia. Capiamo così ancor più la enorme importanza delle creature oggi in vita sulla Terra ovunque che non vanno assolutamente discriminate con snaturati criteri di purismo/razzismo verde.
In Danimarca si è proposto nel 2016 di rilasciare degli Elefanti in alcuni parchi naturali controllati per farli inselvatichire, memori della presenza degli Elefanti nel Pleistocene in Europa:
Procede intanto in tantissimi paesi l’opera di riproduzione e ridiffusione in natura del Bisonte europeo anche dove scomparso il genere Bison da millenni. In Italia ancora nulla sebbene un centro per il loro allevamento a tale scopo è in un virtuoso bioparco a Verona.
Vi è poi un riconoscimento, tramite l’analisi del passato naturale, delle potenzialità di un territorio anche in termini di nicchie ecologiche rimaste vuote o parzialmente vuote da locali estinzioni soprattutto quando causate dall’uomo più che da eventi geologico-climatici. In questa aspirazione ad una maggiore selvaticità (wilderness in inglese), che non esclude l’uomo con le sue attività ed interventi quando “bucolici” ed ecosostenibili (termine qui usato con il significato semplice di sfruttamento senza estinzione ergo con misura e valorizzazione della fertilità), anzi, vengono valorizzate anche quelle specie/varietà selvatiche o domestiche tradizionali che l’uomo ha contributo ad apportare, esotiche o meno che fossero, nel corso dei secoli. Da apprezzare così anche ad esempio in Italia quegli animali giunti con la rivoluzione neolitica di allevamento e agricoltura: i Mufloni (Pecore selvatiche, prische potremmo dire, o Pecore ri-inselvatichite e tornate nelle forme del loro antenato progenitore selvatico sotto effetto della pressione selettiva della selezione naturale, nonostante la subita selezione artificiale nell’allevamento) e le Capre selvatiche (Egagro) o inselvatichite come quelle sull’Isola di Montecristo, o le Capre Kri-kri sull’Isola di Creta; ma si apprezza più in generale ogni stato di randagismo di animali domestici che vivono in sinantropia o evolvono verso forme più indipendenti ferali dall’uomo, maggiore inselvatichimento. In Ucraina si segnala così un bel progetto alla foce del Danubio per naturalizzate gli allevati Bufali europei (Bufalo d’acqua domestico – Bubalus bubalus di fiume), lo scopo è riattivare in tal modo le catene trofiche con i grandi mammiferi, per innescare un impatto positivo sull’ecosistema in cui vivranno. Pascolando, calpestando e rotolandosi nella vegetazione questi animali sono infatti in grado di modificare il loro ambiente, favorendo un incremento della biodiversità, sia vegetale che animale. Ad esempio mantengono in equilibrio le varie specie di piante e le pozze che creano rotolandosi nel fango creano perfetti siti riproduttivi per diverse specie di anfibi. Potranno ora vagare liberamente, il loro pascolo naturale contribuirà a restaurare l’ecosistema, favorendo la diffusione di altri animali selvatici, come uccelli, anfibi, insetti e pesci. Dalla paleontologia veniamo a sapere che non mancavano neppure i Bufali nelle aree paludose europee del Pleistocene! Abbiamo il dovere di guardare con occhi nuovi al nostro Bufalo mediterraneo (Bufalo d’acqua domestico, quello, per medio intenderci, da cui si produce la famosa “mozzarella di bufala campana” oggi detta, tra nord Puglia, Molise e Campania) parente tassonomico degli antichi Bufali che son vissuti selvaggi anche in Europa nel passato. Dobbiamo far tornare cospicuo l’allevamento dei Bufali mediterranei, anche in Salento, dove venivano allevati allo stato brado nei decenni e secoli passati in siti paludosi loro congeniali come agli Alimini e nella fascia costiera di Ugento, mica stupidi, invece di “bonificare” e distruggere le aree umide allevavano lì ciò che era adatto alle paludi. Il ricordo dell’allevamento dei Bufali ad Ugento è rimasto nel nome di questa masseria “Masseria Bufolaria“. Da noi in Italia invece nulla del genere ancora come invece era in corso in Ucraina in questi ultimi anni, ma assistiamo alla follia di un crescente razzismo verde falso ecologista che attacca e distrugge gli allevamenti più bucolici e demonizza le creature esotiche e domestiche, così i Mufloni e le Capre selvatiche/inselvatichite, che dovremmo diffondere anche in Puglia, vengono fatti oggetto invece di eradicazione dove già presenti; ed ora persino si demonizzano ed attaccano specie autoctone come la autoctona Canna domestica (Arundo donax) negli ambienti umidi, da cui si realizzavano flauti bucolici, ma oggi detta come invasiva, la scusa per altri innumerevoli biocidi e per farne biomassa facile demonizzando con ogni scusa ciò che è più diffuso! Chi glielo spiegherà di questa follia ai costruttori e studiosi del flauto detto fiscaletto in siciliano (che si produceva anche in Salento) intagliato nella Canna domestica, con la quale si produceva anche la siringa suonata dal Dio Pan nella mitologia greca, Canna che per i suoi usi nella civiltà contadina è un po’ il nostro Bambù per i suoi innumerevoli usi.
Vedi anche per approfondire il seguente articolo:
“Ci son solo 3 strade per la politica del territorio: RINATURALIZZAZIONE, FOSSILIZZAZIONE o DEVASTAZIONE!“
Grazie per l’attenzione
Oreste Caroppo
AGGIORNAMENTO:
a distanza di qualche mese dalla pubblicazione di questo mio articolo mi giunge felice la notizia dell’avvistamento di una Alca torda (Gazza marina) nelle vicinanze di Porto Cesareo, precisamente nella baia di Sant’Isidoro, marina di Nardò, sottocosta, il 23 novembre 2022 ad opera della birdwatcher Dario Salemi:
Questa interessante notizia che effettivamente meritava un servizio divulgativo, mi sono prodigato per la segnalazione della notizia ai giornalisti del Quotidiano di Puglia che ne han fatto questo articolo dal quale apprendiamo che “dovrebbe essere la trentesima osservazione della specie per la Puglia in 150 anni, (…) «La Gazza marina è un uccello della famiglia degli Alcidae parente delle rondini di mare e dei gabbiani, ma ha scelto una nicchia ecologica particolare, pesca sott’acqua usando le ali come propulsore per inseguire piccoli pesci, è molto veloce, nidifica in nord Europa dall’Inghilterra alla Scandinavia e Islanda».
«Il fenomeno delle invasioni invece si verifica molto raramente, a seguito di particolari condizioni climatiche e di forti tempeste di vento – conclude -. In Puglia, l’ultima invasione documenta risale al dicembre 1886, quando nella rada di Taranto furono osservate moltissime Gazze marine»”
Ed in effetti la terza decade di novembre del 2022 sembra indicare un anno di piacevole “invasione”, di migrazione abbondante, della Gazza marina verso l’Italia, tanti articoli infatti ne hanno segnalato negli stessi giorni l’avvistamento di esemplari di Gazza marina ad esempio nel porto di Vibo Valenzia (un esemplare),
altra segnalazione a Bovalino nel sud ionico della penisola della regione Calabria (dove l’Alca torda è stata addirittura pescata all’amo, con grande sorpresa del pescatore, abboccando nutrendosi del pesce o dell’esca all’amo durante la attività di pesca subacquea di questo uccello marino),
una segnalazione nel porto di Tarano ad una decina di metri dalla riva nello specchio d’acqua che bagna la città vecchia, “invasione”, cioè diversi esemplari avvistati lungo la costa toscana, ecc. Dal Centro Ornitologico Toscano fanno sapere ai tanti incuriositi da questi avvistamenti che “si tratta di Gazze marine (Alca torda), una specie di uccello marino nordico della famiglia degli Alcidi, cugine dei buffi e più conosciuti Pulcinella di mare. In questi giorni, infatti, si è assistito ad una inconsueta “invasione” di questi uccelli, in genere piuttosto rari alle nostre latitudini, da cui sono scaturite decine e decine di segnalazioni lungo tutte le coste della nostra regione, e italiane in generale, dalla Liguria fino alla bassa Maremma. In particolare, queste invasioni, sono spesso causate da tempeste atlantiche, che spingono un po’ fuori rotta o un po’ più a sud questi uccelli durante la migrazione facendoli entrare in numeri inconsueti nel Mediterraneo. Spossate dal lungo viaggio, entrano spesso nelle acque calme dei porti e porticcioli o sotto costa, attirando così l’attenzione dei curiosi. La Gazza marina è un uccello marino che nidifica in Nord Europa, dalle coste inglesi alla Scandinavia, all’Islanda, fino alle remote isole artiche. È un abile nuotatore, che sfrutta le tozze ali per “volare” letteralmente sott’acqua, immergendosi in profondità alla ricerca dei piccoli pesci di cui si nutre. La stagione invernale invece la trascorre più a sud, soprattutto lungo le coste atlantiche e solo in piccoli numeri nel Mediterraneo.”
Oreste Caroppo